L’ultima volta che ho parlato con Chanel Haynes era il giugno 2022. Ancora non credeva a quel che le era successo. Mentre interpretava a Londra il ruolo di Tina Turner nel musical Tina, era stata chiamata dai Rolling Stones per cantare con Mick Jagger Gimme Shelter a San Siro. Tutto all’ultimo minuto, aveva avuto meno di mezz’ora per provare.
«Suonano come alberi della giungla durante una tempesta», diceva degli Stones sul palco. «È qualcosa di primordiale, è come la guerra. Ed è come se tutte quelle voci, tutti quegli occhi stessero sparando sul mio corpo. È un’energia che ho cercato di trattenere e cavalcare. È stata un’esperienza decisamente surreale».
All’epoca sembrava che quell’esperienza surreale non dovesse avere seguito. E invece c’era anche lei a ottobre 2023 quando gli Stones hanno fatto un piccolo concerto a sorpresa al Racket di New York. E c’era anche, al fianco di Bernard Fowler, nel tour di Hackney Diamonds co-protagonista con la sua voce potente in Gimme Shelter e nei panni di Lady Gaga in Sweet Sounds of Heaven. Nessuna corista prima d’allora aveva mai avuto tanto spazio in un concerto degli Stones. A fan e critici è piaciuta da matti.
Abbiamo chiacchierato con lei su Zoom dopo la fine del tour per farci racontare il secondo capitolo della sua saga coi Rolling Stones.
L’ultima volta che abbiamo parlato non credevi che gli Stones ti avrebbero richiamata. Quand’è che l’hai saputo?
Sapevo che avevano fatto l’album e già quello era un segnale perché significava che forse sarebbero andati in tour. Io nel frattempo m’ero tenuta in contatto con la gente con cui avevo lavorato e in particolare col tastierista Matt Clifford, che è un grande. È stato lui a dirmi che c’era la possibilità di in tour e quindi di drizzare bene le orecchie. Ti posso dire questo: sul palco con loro a Milano mi sono sentita a casa. È stato come volare restando coi piedi per terra. Mi sentivo, come dire, centrata. Da quel momento stare con quella che sentivo essere la mia famiglia è diventato il mio obiettivo. Ho pregato affinché accadesse. Ho una famiglia vera che è bellissima, perché non posso averne una anche sul lavoro? Ho pregato ed è successo.
Come hai saputo del concerto al Racket?
Due parole: Joyce Smith. È la loro manager da un pezzo e vive come me a Londra. M’ha chiamata, ho visto il suo numero e il cuore mi si è fermato per un attimo. «Sei libera tra due giorni per venire a New York?». Anche per Milano era successa più o meno la stessa cosa. Devi essere pronta. Devi manifestarlo prima che accada. Devi vederlo nella tua testa. Devi crederci. E quando succede, essere pronta.
E quindi sei salita su un aereo…
E sono andata direttamente alle prove. A Milano non avevo neanche avuto mezz’ora di tempo per provare. A New York sono andata dritta nella stanza dove gli Stones stavano provando e ho imparato il materiale, quello nuovo e qualcosa di vecchio.
Ero dritto davanti al palco al Racket. L’atmosfera era surreale.
Si capiva che gli Stones ci credevano. Tutti hanno sentito l’intensità, l’importanza del momento. Eravamo tutti vulnerabili, sai, i pezzi erano nuovi. La cosa bella è che con loro non c’è mai nulla di vecchio o scontato. Arrivi e boom, sei pronta a entrare in scena. Sei lì che aspetti che succeda qualcosa, proprio come il pubblico, tutti assieme per scoprire dove si andrà a parare.
Quella volta avete fatto solo sette pezzi. Quand’è che hai saputo che saresti andata in tour con loro?
Un pomeriggio, erano le 3, lo ricordo perché stavo uscendo per andare a prendere i ragazzi a scuola. Squilla il telefono. È un numero che non conosco. «Chanel, ciao, sono Mick». Sono rimasta a bocca a aperta. È stata la chiamata di una vita. Abbiamo passato una giornata assieme a New York in studio (prima del Racket, nda). Abbiamo cantato, abbiamo parlato, abbiamo riso. C’era dell’intesa. In buona sostanza mi ha chiesto se mi andava di fare il tour nordamericano. La risposta la ricordo bene: «Null’altro al mondo mi renderebbe più felice, wild horses couldn’t keep me away».
Hai fatto un corso accelerato sul loro repertorio prima delle prove a Los Angeles?
L’ho fatto a modo mio. Per una settimana non ho fatto altro che studiare i testi delle canzoni, capire in quale decennio è stato scritto un certo pezzo, chi l’ha composto, che cosa succedeva nel mondo. Un’immersione profonda nella scrittura vera e propria. In un’altra settimana sono andata a rivedermi tutte le ragazze che avevano cantato Gimme Shelter con Mick per capire tramite le interazioni quando c’era intesa e che cosa le rendeva interessanti. E poi ho dovuto capire chi volevo essere io, cosa avevo da dare. Ti dirò, l’ho sognato tutto questo. L’ho visto in anticipo e quand’è successo è stato come vivere quel sogno. Avevo già fantasticato tutto, ogni nota, ogni volo, ogni cena, ogni prova, ogni soundcheck, il camerino, la strada con la security dal palco alle auto, tutto. Ed è successo davvero.
Come hai interpretato il ruolo di corista? Ovviamente non si può mettere in ombra Mick, ma bisogna comunque dare una spinta a certe parti. Immagino che Bernard t’abbia aiutata.
È una collaborazione. Per oltre 30 anni Bernard ha curato le tonalità e le tessiture di tutti i musicisti sul palco, in particolare di Mick. Mi ha molto aiutata ed è stato paziente, sai, perché non sono mai stata una background singer e non ho una voce che si mescola bene con le altre. Sono una un po’ fuori dal coro, quindi ho imparato da lui. Il punto è che non c’è spazio, né tempo per l’ego. Ascolti, capisci la situazione e di cosa c’è bisogno. Mick m’ha chiesto se avevo domande e se c’era qualcosa che potevano fare per aiutarmi. Gli ho detto: «Voglio che tu stia bene. Voglio aiutarti. L’ultima cosa che desidero è che tu o chiunque altro si preoccupi per me. Farò i compiti a casa per sostenerti sul palco». E questo richiede molta disciplina e, lo ripeto, capacità di ascolto. Devo fare i complimenti a Dave [Natale] che è il tecnico del suono e interviene quando tendo a sovrastare qualcuno con la mia vociona. È una magia far sì che sia tutto in equilibrio.
Sapevi già prima delle prove che avresti dovuto cantare anche la parte di Lady Gaga in Sweet Sounds of Heaven?
Sì. La cosa che trovo pazzesca è che forse, ma non lo so di preciso, nessuna corista è mai stata chiamata a fare due pezzi.
È così. Nessuna ha avuto un ruolo preminente quanto il tuo.
Quando me ne sono resta conto, ho capito la responsabilità che comportava. Parliamo di cantanti che ho ammirato. Ovviamente Gaga e l’incredibile Merry Clayton… mica facile mettersi nei loro panni, ma ho accettato con tutto il cuore e credo che questa cosa si sia capita.
Sono 50 e passa anni che fanno Gimme Shelter, ma Sweet Sounds of Heaven è nuova e quindi ti ha dato modo di ritagliarti uno spazio più tuo.
Una delle cose più belle che abbia mai potuto creare e co-creare con dei re. Non solo non vedevo l’ora di scatenarmi con loro, ma volevo anche capire come funzionava tutto, l’entourage, la band, i tecnici del suono, il pilota, gli assistenti di volo, il direttore delle luci, lo scenografo, le pubbliche relazioni, l’hospitality, il fisioterapista, il coreografo, il coordinatore degli hotel, i trasporti, i capelli, il trucco, il management, gli assistenti personali, il catering, i medici, i camionisti, i contabili, lo chef, il merch, la biglietteria, il promoter, i videomaker, e poi i miei preferiti in assoluto, quelli della security. Sono guerrieri zen. Tutti collaborano alla grande. E quando lo show finisce, è come se il vetro di Hackney Diamonds si infrangesse. Ognuno va per la sua strada e quanso si torna tutti i pezzi si ricompongono. Giuro su Dio, è così che sembra ogni giorno del concerto, pezzi che si uniscono in modo pazzesco. Se loro sono dei re, questo è il regno più bello della Terra.
Com’è stato salire sul palco la prima sera a Houston?
Come andare a una festa con gli amici. Incredibile quanto velocemente mi hanno fatto sentire una di loro. Non mi sono mai sentita disconnessa dalla band. Ok, sono l’unica donna e forse c’è un senso di protezione in più, tipo «Stai bene? Hai bisogno di qualcosa?». E poi immagina i fan dei Rolling Stones. Canto da una vita e ho i miei fan, ma qui siamo a un altro livello. E quando diventa… troppo, chiamo qualcuno dei miei compagni in quella che chiama red room e ne parliamo. La mia stanza è sempre rossa, porto sempre con me delle lampadine rosse. Mangiucchiamo, beviamo vino, ascoltiamo musica. Una benedizione.
Sono tutti ragazzi fantastici. Penso, ad esempio, al lavoro che ha fatto Steve Jordan per sostituire Charlie.
Incredibile. All’inizio ero intimidita. Era di fronte a me in albergo, stava andando a cena, m’ha vista, ha capito che stavo sulle mie e che ero sola e m’ha chiesto di andare a cena con lui. Mi sono commossa.
Ho visto la foto di te sull’aereo con Keith Richards…
Oh. Mio. Dio. Non riesco nemmeno a spiegare quanto m’abbia toccato il cuore. Avevamo un piccolo rito prima dei concerti: io e lui mangiavamo assieme un boccone di pasticcio di carne che lui ha sempre con sé. E io sono una buongustaia. Quando nel backstage c’è qualche casino, Keith è sempre il più tranquillo. Ha i piedi ben piantati per terra. Io che lo guardo strimpellare la chitarra mentre mangio il suo pasticcio è uno dei miei ricordi preferiti.
Deve essere stato incredibile vedere Mick da vicino ogni sera. Non riesco ancora a credere che un uomo di 81 anni possa muoversi in quel modo per due ore.
Tutti quelli che gli stanno vicini la pensano come te. Voglio dire, c’erano ovviamente momenti in cui anch’io era stanca e non solo fisicamente, sai, senti la pressione. Sulle sue spalle grava una responsabilità, è come se pensasse: «Ok, sei davanti alla tua gente e devi guidarla con fermezza, ti prenderai cura di loro e loro si prenderanno cura di te». È bellissimo da vedere e mi ha molto ispirata. Non posso assolutamente lamentarmi di nulla, nessuno può lamentarsi quando ha a che fare col suo carattere, la sua disciplina, la sua attenzione ai dettagli.
Una sera alle prove ho preso una nota con un po’ di pigrizia. L’ho fatta più bassa quando avrei dovuto farne una più alta. Credevo non ci avrebbe fatto caso e invece l’ha notato e mi ha detto: «La prossima volta, puoi…» E io: «Sì, hai ragione». Ho imparato, in quella prova, che è uno che coglie ogni dettaglio. E che dovevo alzare l’asticella.
Per me Gimme Shelter è una delle più grandi canzoni rock di sempre. Cantarla ogni sera te l’ha fatta apprezzare ancora di più?
Gimme Shelter, secondo me, non è nemmeno una canzone, è un canto di guerra. Non assomiglia a nessun’altra canzone perché, e so che potrebbe sembrare blasfemo, è quasi come la Bibbia. Sai perché la chiamano parola viva? Sono figlia di un predicatore, ora te lo spiego. È chiamata parola viva perché la Bibbia è diversa ogni volta che la leggi. Vive in te. Ogni volta che canto Gimme Shelter mi fa a pezzi e continuando a cantarla è come se venissi lentamente rimessa insieme. Spesso ai concerti indossavo abiti dai riflessi metallici che sembravano armature e mi facevano sentire una guerriera in un momento epico. Ecco come mi sento mentre la canto.
Uno dei momenti migliori del concerto è stato quando sei entrata per la prima volta in scena e hai cantato “Rape! Murder!”. Attorno a me avevano tutti i brividi.
È come se stessi incanalando qualcosa che viene dall’alto e mi attraversa testa e cuore per poi dirigersi verso il pubblico e tornare a me e risalire di nuovo in alto. È un ciclo. E non si tratta solo di me, di un solo componente, ci eleva tutti assieme.
E poi facevi la passerella con Mick. Il tuo modo di interagirci cambiava ogni sera, era sempre piuttosto spontaneo.
Lo era, assolutamente. All’inizio ci pensavo e torturavo Chucky [Klapow], il coreografo: «Cosa devo fare?». E lui: «Chanel, non è mai uguale, fai quel che hai fatto finora». Non c’è modo di descriverlo. Posso solo dirti che in quel momento io e Mick stiamo reagendo l’uno all’altro, come se non ci fosse nessun altro attorno. La nostra è una delicata danza di anime.
Ci si abitua a cantare di fronte a 50 mila persone?
Non lo dai mai per scontato. Se mi sono sentita a casa è perché in questi show tutto diventa familiare nel senso migliore del termine. Il pubblico appartiene a diverse generazioni, ci sono bambini piccoli coi nonni, sappiamo cosa significano quei momenti, non puoi non avere a cuore l’esperienza che stanno vivendo. E poi non c’è certezza del domani. Possiamo pianificare tutto quello che vogliamo, ma sarebbe un errore vivere nel passato o pianificare troppo, rischiare di perdere quest’esperienza incredibile. Me ne sono guardata bene. Sono molto presente. Per questo ogni sera mi sentivo… elettrica.
Sweet Sounds of Heaven è un momento importante del concerto perché apriva i bis e vi dava la possibilità di fare un’entrata in grande stile. Dal vivo, poi, ha un sapore gospel inedito.
Ho voluto capire che cosa significa la canzone per loro. Il mio verso preferito è “Let the old still believe that they’re young”, e poi il picco “young, young, young”. Mi fa pensare alla loro resistenza, all’approccio e all’atteggiamento nei confronti del lavoro e del loro lascito. Ho sentito l’energia di quella canzone ogni sera e devo dire che piazzare un pezzo nuovo nei bis è una mossa coraggiosa. Oltretutto nessuno mi aveva mai sentita nominare. Tanta roba da gestire per me, ma significa che hanno avuto in fiducia, forse perché sono una cantante gospel. Quanto è perfetta la fusione di blues, gospel e rock in quel pezzo lì? Stevie Wonder che suona e l’anima che ci mettono… c’è tutto.
Si dice ci sarà un tour europeo la prossima estate. Ci speri?
Decisamente sì.
Mi auguro che accada. Si vede che sul palco ti senti a casa.
In fin dei conti la ricompensa più grande è stare dentro questo grande abbraccio, sentire la vibrazione del pubblico. Presente quando a fine concerto facciamo l’inchino? Serve a ringraziare gli altri, ma anche a ringraziarci a vicenda per essere arrivati fin lì. È una ricompensa bellissima per il lavoro fatto assieme.
Da Rolling Stone US.