Una carriera costellata di esperienze nell’elettronica e nella musica sperimentale dalle mille forme, in solo e con progetti di successo come Holy Tongue, Vanishing Twin, Moin. Nel mezzo le collaborazioni con alcuni nomi prestigiosi come Philip Selway dei Radiohead, Thurston Moore, Nicolás Jaar, Bat for Lashes, Sampha, giusto per citarne alcuni. Facile intuire che Valentina Magaletti non si sia mai limitata a rimanere confinata in un solo mondo, ma anzi, la sua costante è stata crearne di nuovi con la sua batteria, e poi attraverso la composizione, dall’underground più sotterraneo fino ai palcoscenici più importanti del mondo. E dagli inizi a Bari alla maturità nella sua nuova casa, Londra, l’incontro artistico è stato diktat per la sua musica, percussione dopo percussione.
L‘ultimo in ordine di tempo è quello con Nídia, artista afro-portoghese già nota per importanti collaborazioni nell’universo dell’elettronica alternativa con artisti come Fever Ray, Kelela e Yaeji che nel 2023 ha pubblicato l’album 95 Mindjeres, un viaggio personale che, attraverso ritmiche sincopate di kuduro, celebra il ruolo delle donne combattenti per la libertà nella lotta per l’indipendenza del PAIGC, il Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde, ovvero le sue radici. Il loro recente sodalizio le ha portate a unire i rispettivi mondi in Stradas, uscito oggi per l’etichetta indipendente parigina Latency.
Valentina Magaletti e Nídia sono attese tra un mese in Italia, protagoniste in line up del quindicesimo anniversario di Robot Festival a Bologna. Il tema è Transition-Gender, Digital, Green, le date da segnarsi quelle dal 10 al 13 ottobre, con una preview il 26 settembre. A completare il cartellone anche altre primizie della musica italiana come Daniela Pes, Marta Salogni & Francesco Fonassi, Lamusa II, e artisti stranieri come Richie Hawtin, Lyra Pramuk, Modeselektor.
Stradas, anticipato dai singoli Mata e Rapido, mescola storie provenienti da due pianeti in apparenza molto lontani, ma come ci spiega Valentina Magaletti quando la raggiungiamo per intervistarla, in realtà possono diventare una cosa sola nel celebrare il ballo, l’identità e le persone: «Il progetto nasce da un incontro nel 2016 in occasione di Honey Colony, uno show curato da Lawfandah che ospitava anche Tirzah, Mica Levi, Kelsey Lu e altre artiste. Sono rimasta folgorata dal modo di Nídia di creare musica. Lei parla francese e portoghese, io italiano ed inglese, quindi all’inizio non capivamo un cazzo di quello che ci dicevamo (ride, ndr). Ma siamo riuscite a comunicare attraverso la musica, talmente bene che alla prima occasione l’ho invitata come partner per una residenza artistica: abbiamo avuto l’opportunità di realizzarne una durante la scorsa edizione di Ortigia Sound, durante la settimana del festival, che è culminata con un primo show insieme», ci spiega.
Stradas rappresenta un vero esempio di contemporaneità elettronica da maneggiare con cura in cui differenti culture e differenti approcci al suono si fondono per ritrarre in modo accurato entrambe le autrici. Una volta entrati a contatto con i brani, la porta di ingresso è spalancata verso un vortice di battiti a metà tra antropologia e dancefloor: «È tutto concettualmente pensato. Stradas significa “strada” in portoghese, simboleggia il nostro incontro e l’incontro di background completamente diversi, sia geografici che sociali: il sud Italia, l’Africa, il Portogallo, Lisbona e Londra. Tutto è molto distinto, però boom: abbiamo mescolato così tanti ingredienti che siamo riuscite a creare una ricetta che ci soddisfa molto. Il risultato è stato eccezionale, credo inoltre che tra mixing e produzione Tom (Halstead, membro del duo inglese Raime e della band Moin insieme alla stessa Magaletti, nda) abbia fatto un gran lavoro. Perché non era affatto semplice fare un disco che non fosse troppo di Nídia o troppo di Valentina, far suonare tutto in completa armonia», sottolinea.
E sui motivi cardine che hanno fatto sì che la collaborazione nascesse prosegue: «Sono sempre alla ricerca di collaborazioni femminili, riuscirci con un’artista come Nídia è stato fantastico. Purtroppo non sempre è così facile. Mi piacerebbe esplorare ulteriormente questo aspetto, e magari non solo con artiste che vivono in Italia o in Inghilterra, che sono le mie due cittadinanze».
Stradas sembra anche per questo il lavoro di una band mai realmente esistita, ma che ci riporta ricordi e traiettorie musicali in qualche modo familiari. I pezzi, che si muovono in un’armonia naturale di marimba, batterie sincopate e melodie quartomondiste, trasmettono la sintonia autentica dell’incontro tra Borges e Magaletti, ma appunto: non solo. Come lei stessa conferma: «È questo il lato magico, no? Credo prevalgano ritmiche e beat che associano me e lei, ma penso che in fondo fanno emergere qualcosa che appartiene a tutte le persone, in generale. Perché parla dell’urgenza di ballare, dell’urgenza di far emergere uno spirito primitivo. Ed è bello poter fare da vettore a questa energia».
Dal racconto del processo in studio alla resa sonora, sembra Stradas ci voglia far scoprire qualcosa di più di Valentina Magaletti, della sua eternamente curiosa e aperta cultura del lavoro: «Diciamo che il mio ruolo si è evoluto naturalmente. Negli ultimi lavori sono stata molto più coinvolta negli aspetti della produzione, dall’arrangiamento al missaggio. E suono molte più cose, dai sintetizzatori elettronici al pianoforte. Mi è sempre interessato farlo, e con il tempo e l’esperienza è successo. Anche se è qualcosa che è sempre stato lì in sottofondo, prima avevo sempre privilegiato solo batteria e percussioni. Ora sono molto più coinvolta e per diversi aspetti, come succede nei Moin (la band formata con Joe Andrews e il già citato Tom Halstead, nda), dove credo questo si percepisca in modo evidente».
Nella celebrazione di un approccio universale e libero al suono, per Valentina è centrale il valore della spontaneità: «Sono dell’idea che se un disco non nasce in modo naturale va messo da parte, distrutto, buttato sotto il tappeto. La naturalezza e il flow creativo sono la vera ricchezza. Quando in studio tutto diventa troppo chirurgico o cerebrale si perde la magia. Se mi viene un’idea e mi fanno perdere tempo per settare dei microfoni da 400 mila sterline dopo due minuti non ce l’ho più, capito? Per me è essenziale lavorare in modo spontaneo», risponde.
Tra lo studio di registrazione e il palcoscenico, per Magaletti si è recentemente aggiunta l’avventura editoriale, con la pubblicazione di Basta Now (Women, Trans & Non-Binary in Experimental Music). Edito sulla sua Permanent Draft, etichetta discografica e micro-press fondata insieme alla poetessa e scrittrice Fanny Chiarello (che è anche autrice del volume), parliamo anche stavolta di un progetto tutt’altro che scontato: «Fanny ha creato un archivio di quasi 7000 nomi di autrici e musiciste della musica elettronica e sperimentale, un lavoro di 6-7 anni che mi aveva mostrato tempo fa. Nel libro ci sono 2700 nomi e per ogni edizione abbiamo in mente di aggiungerne altri 500. L’obiettivo è stimolare la curiosità e incoraggiare la ricerca, perché affermare che non ci sono artiste donne nella musica sperimentale è semplicemente falso. Non si tratta di distruggere il patriarcato, ma di correggere una mancanza nociva per la parità di genere», spiega.
La pubblicazione è destinata a proseguire il suo percorso, quindi, e con idee chiare a supporto: «Siamo arrivati alla terza edizione, il che dimostra quanto fosse una mossa “politica”, ma purtroppo assolutamente necessaria». E aggiunge, sull’importanza di rendere vivi e consapevoli progetti del genere, dentro e fuori la musica: «Sono stata davvero felice della risposta e del supporto costante che abbiamo ricevuto. Ho insistito sul look punk del libro perché volevo che avesse una reminiscenza di fanzine, un’affermazione audace che appartenesse a tutti. Il titolo è anche ironico: non è un limite, come dice nello statement Fanny stessa, non è contro gli uomini: semplicemente, non riguarda loro. È importante sottolineare che esistono donne, persone di identità non-binary e donne trans nella musica sperimentale», prosegue.
E sul tema, sottolinea ancora: «Nel nostro ambito si sente spesso dire che non ci sono abbastanza donne. Durante i miei tour i direttori artistici mi dicono che vorrebbero invitare più donne che facciano elettronica e sperimentazione, ma non le trovano: non ci sono. Sentivo sempre questa frase fino a quando non ho incontrato Fanny. Il vero problema è che sono gli addetti ai lavori a dover smettere di tollerare e sottolineare continuamente la parità di genere. La vera parità arriverà quando non ci sarà più bisogno di enfatizzare certe cose», afferma.
Come per la tappa di ottobre a Bologna in live con Nídia, l’Italia è ricorrente palcoscenico dei suoi show. Certi limiti e certe differenze con altri paesi, per chi ha sposato da tempo una causa estera come Valentina, restano però ancora un po’ indigesti: «Devo essere sincera: quando torno mi sento sempre combattuta. Non vengo da una famiglia di ascoltatori o musicisti; tutti i miei parenti ascoltano roba che trovo agghiacciante. Ma quando accendo la radio in Italia è davvero difficile per me trovare credibile quello che sento. C’è una totale mancanza di qualità e curiosità. A parte Battiti su Rai Radio 3, che stimola la curiosità supportando gli agitatori culturali, il resto è un mare di mediocrità infinita. Per carità, anche qui in Inghilterra si trova un sacco di merda, ma c’è una bella differenza quando si accende la radio», afferma.
Dal cuore di Hackney a East London alle collaborazioni nate giro per il mondo, negli anni Valentina non ha mai placato la sua sete di scoperta. Partita dalla Puglia, dopo le prime ispirazioni nate col batterista Agostino Marangolo del gruppo di culto Goblin, e arrivata a Londra, dove con gli Econoline finisce per registrare una Peel Session nel 2002, ospiti del leggendario John Peel, la dote di Valentina è stata indubbiamente quella di costruire rapporti con le persone per il bene della musica. La costante, dietro tutto, è sempre rimasta quella di preservare la naturalezza delle idee, senza fronzoli: «L’ambito che mi stimola di più come musicista è l’improvvisazione, una pratica che viene spesso interrotta dal tecnicismo voluto per certe produzioni. Io cerco di proteggere questo lato il più possibile, credo che sia uno dei privilegi di avere un lavoro creativo. Se sei così fortunata da poterlo fare perché imporsi dei limiti? Odio le prove, odio i soundcheck. Sono la morte, come le diete».