Quando i Bright Eyes pubblicavano il disco della consacrazione, I’m Wide Awake, It’s Morning, era il 2005. Me lo fece conoscere una ragazza a Milano al mio primo anno di università. Mi innamorai di lei, mi innamorai dei Bright Eyes. Che ai tempi chiamavano al singolare, pensando che alla fine fosse solo un moniker di Conor Oberst, la voce e la penna che ci stava aprendo il cuore parlando di relazioni sanguinanti (Lua, Land Locked Blues) e slanci amorosi (First Day of My Life, At the Bottom of Everything, We Are Nowhere and It’s Now). A quell’età, i vent’anni, innamorarsi di album come il già citato I’m Wide Awake, It’s Morning e Fevers and Mirrors (del 2000) sembrava l’unico e totalizzante modo di vivere le proprie emozioni, un’immersione nel dolore e nel piacere più profondo.
Dopo qualche disco meno fortunato dei precedenti, Conor Oberst, Mike Mogis e Nate Walcott decisero di prendersi una pausa lunga dieci anni, terminata solamente nel 2020 con la pubblicazione di Down in the Weeds, Where the World Once Was. A seguire i tre hanno ripreso in mano l’intero catalogo (composto da nove album di inediti) per riaggiornarlo in una serie di EP (uno per disco) in cui poter rimettere mano ai brani della loro storia. Nel mentre Conor si è speso in una serie di otto concerti di una residency chiamata Conor Oberst & Friends dove, accompagnato da una serie di amici musicisti, ha rimesso mano a tutta la sua discografia solista.
Ora è tempo di un nuovo album Five Dice, All Threes e di un nuovo tour, visto che quello di Down in the Weeds, Where the World Once Was era stato stroncato a causa della pandemia. Five Dice, All Threes punta a un ritorno alle origini, con la band che lascia indietro i barocchismi orchestrali del precedente lavoro per un approccio «più punk». Nonostante la scrittura di Oberst sia rimasta scura e apocalittica (“ci vogliono i nervi saldi per vivere sulla Terra”, canta in Bas Jan Ader, brano dedicato all’artista olandese, o “un giorno moriremo tutti, perché perdersi in questi piccoli suicidi?” in Tiny Suicides), il clima sonoro di questo lavoro è tutt’altro che drammatico, sorprendendo per una certa voglia di divertimento, parola non proprio usuale nel vocabolario dei Bright Eyes.
Per l’occasione, ho avuto l’opportunità di parlare con la voce che ha musicato il mio primo heartbreak.
Dove sei ora?
A Omaha, Nebraska.
La tua città natale.
Sì, vivo principalmente qui, ma ho anche una casa a Los Angeles; faccio un po’ avanti e indietro tra questi due posti.
Dove preferisci scrivere? C’è un luogo che ti ispira di più tra Omaha e Los Angeles?
Qui a Omaha ho tutto quello che mi serve. Abbiamo il nostro studio qui con un pianoforte e tutte le mie chitarre. Ma oramai pianoforte e chitarre le ho anche a Los Angeles. Non mi cambia molto.
Ok, allora cominciamo da qui. Come ti sei approcciato alla scrittura di questo nuovo album dei Bright Eyes?
Molto di ciò che scriviamo come Bright Eyes è una reazione al nostro passato recente. Il nostro ultimo disco, Down in the Weeds, Where the World Once Was, era piuttosto pulito e presentava molti elementi orchestrali. Five Dice, All Threes è più diretto, più vicino a ciò che facevamo da teenager. Non ci sono canzoni molto complicate, direi che abbiamo avuto quasi un approccio “punk”, con brani con tre accordi.
Un approccio anche “hip hop” visto che in un paio di brani troviamo addirittura degli scratch.
Ho questa etichetta chiamata Team Love dove in passato abbiamo pubblicato un artista rap di queste parti, Mars Black. E. Babbs è il suo dj e producer. Quando ho pensato che volevo degli scratch l’ho chiamato. Lui ha riso e mi ha detto: «Ma sei serio?». Ora con le nuove tecnologie puoi far scratchare a un dj qualsiasi singola traccia di una canzone, quindi è stato piuttosto divertente.
Five Dice, All Threes è anche un riflesso dell’ultimo periodo della tua vita?
Non sempre scrivo del momento in cui sto vivendo. Non c’è nulla di troppo concettuale in questo album. Ci sono spunti della mia vita, della vita dei miei amici e di cosa osservo. E così che scrivo, da sempre.
Down in the Weeds, Where the World Once Was è arrivato dopo una pausa di dieci anni. È stato difficile re-imparare a essere i Bright Eyes?
Singolarmente non abbiamo mai smesso di far musica, né io, né Mike, né Nate. Abbiamo solo smesso di scrivere come Bright Eyes. Tutto ciò che abbiamo fatto in quei dieci anni però ci ha portato a chi siamo ora. Ho suonato con tanta gente in quegli anni, ma stare con Mike e Nate è come indossare la tua t-shirt preferita. È una situazione sicura dove non abbiamo bisogno di spiegarci nulla perché ci conosciamo. Ogni volta che inizi un album solista, o cominci a far cose con altri musicisti, o altri produttori, è come ripartire da zero. Qui invece c’è così tanto passato condiviso che è stato davvero facile tornare.
Come per gli album passati ti sei occupato solo tu della scrittura o qui è cambiato qualcosa?
Di solito io scrivo lo scheletro dei brani e gli altri contribuiscono agli arrangiamenti e alla produzione. Stavolta invece Nate è stato molto coinvolto sin dall’inizio, come anche un nostro amico, Alex Levine dei So So Glos, con cui abbiamo scritto alcune canzoni. È stato un album più collaborativo, un’esperienza differente per me, non era mai capitato prima.
Per i temi trattati è sicuramente un disco dei Bright Eyes. Ma musicalmente, nonostante anche ballad molto tristi, mi sembra un disco piuttosto divertente. Ci sono i tuoi versi apocalittici, certo, ma anche una controparte più luminosa.
Sì, questo è decisamente un album divertente, anche se divertente non è una parola che ti aspetti dalla nostra band. Sin da ragazzino ho amato le canzoni pop, il pop-punk, l’indie rock, e penso che questo disco torni a quei momenti, che erano sicuramente più semplici. I testi restano però piuttosto scuri, non posso cambiare ciò che il mio cervello pensa. Sono fatto così.
I Bright Eyes hanno un posto nel cuore di molti proprio per la tua capacità di scrivere testi molto dolorosi. Anche io, personalmente, lego la mia prima grande delusione dolorosa al vostro I’m Wide Awake, It’s Morning. Come vivi e hai vissuto questa capacità di entrare nella vita altrui?
La mia musica è sempre stato un riflesso di come stavo nella mia vita e saper che ha trovato casa nella vita di qualcun altro mi fa piacere. A volte è facile dimenticarlo e pensare che nessuno ascolti davvero la tua musica. Quindi grazie, è un buon reminder.
Qual è il tuo rapporto e quello dei Bright Eyes con il pubblico e la nostalgia?
Credo che ci sia molta nostalgia durante i nostri concerti. Quando prepariamo una scaletta dobbiamo sempre bilanciare i nostri vecchi brani con quelli nuovi, ciò che piace alla gente e ciò che vogliamo suonare noi. Dopo tutti questi anni abbiamo un pubblico molto variegato. C’è gente che ci segue da quando era ed eravamo teenager, miei coetanei con i figli e 60enni a cui piace il folk. Penso sia una cosa figa perché non siamo un trend, non siamo una cosa alla moda: non possiamo più essere una giovane band che sta spaccando. Ma ora possiamo avere un pubblico che apprezza la cura degli arrangiamenti, che ascolta con cura ogni parola. Siamo fortunati.
Parlando di nostalgia, in questi ultimi due anni vi siete lanciati nella folle avventura di riprendere in mano tutti i vostri dischi per pubblicare degli EP, uno per album, con versioni ri-arrangiate dei vostri brani. Anche di alcuni “intoccabili”.
È stato un progetto matto. Solo quando l’etichetta ci ha dato l’ok abbiamo realizzato quanto sarebbe stato complesso. L’unico pensiero è stato: oh, merda. Ma sai tutti meritano una seconda chance. Penso che alcuni dei nuovi arrangiamenti siano migliori degli originali, anche grazie a tutto ciò che abbiamo imparato in questi 25 anni di attività. Inoltre avere una seconda occasione per reinterpretare alcuni brani ora che ho 44 anni è stato strano, ma interessante. Aggiungo che noi siamo una band che live è sempre stata aperta a portare nuovi musicisti – fiati, archi, arpa – e quindi nei tour abbiamo la tendenza a ri-arrangiare i brani con i musicisti che in quel momento abbiamo a disposizione. Le canzoni sono cosa viva, la musica può cambiare, essere differente.
Nel disco ci sono Cat Power e Matt Berninger dei National. Come sono nate queste collaborazioni?
Sono cari amici entrambi. Conosco Chan (Cat Power, ndr) da molti anni, credo una ventina, e Matt da una decina. Mentre scrivevo queste canzoni mi sono venute in mente le loro voci. E così ho scritto loro se volevano cantarci. Non ci siamo trovati in studio, perché eravamo distanti in quel periodo, Matt e Chan hanno lavorato da remoto. Ma mi fidavo, sono due dei miei artisti preferiti. Sono fortunato che abbiano voluto cantare in questo album.
Le vostre voci si sposano bene assieme, avevate già provato a far qualcosa in passato?
Era successo di aver cantato con Chan, ma mai con Matt. Chan ha una voce unica, con un suono particolare che molti hanno provato a imitare negli anni. Anche nei suoi giorni peggiori Chan canta meglio della maggior parte di noi. Mentre Matt ha una voce davvero bassa, più della mia. Con una certa gravitas. Nel brano assieme, Matt urla parecchio sul finale, un po’ come faceva nelle prime cose dei National. L’ho incoraggiato a farlo perché adoro quando si lascia andare così.
Abbiamo parlato di amici musicisti che ruotano attorno ai Bright Eyes quindi non posso che chiederti del tuo progetto Conor Oberst & Friends, un’altra bella follia a cui hanno partecipato membri di Sonic Youth, Yeah Yeah Yeahs, LCD Soundystem. Ce lo racconti?
Non so perché mi infilo sempre in queste cose (ride). Era un’idea che avevo avuto con il mio booking agent, Eric. Lavoriamo assieme da 25 anni e da tempo ci frullava il pensiero di organizzare una lunga residency. Ma il calendario non era mai dalla nostra. Stavolta per una serie di coincidenze avevo dello spazio a disposizione e così abbiamo organizzato: ogni settimana per otto settimane veniva scelto un direttore musicale che aveva il compito di formare quella che sarebbe stata la mia band per il concerto e aiutarmi a pensare e scrivere gli arrangiamenti dei brani che avrei suonato con questa band. È stata la cosa più vicina a un vero lavoro che ho avuto da parecchio tempo a questa parte.
Come funzionava?
I concerti erano giovedì, così io e la band che il direttore musicale aveva pensato facevamo le prove domenica, lunedì, martedì e mercoledì. Poi il giorno del concerto e due giorni di riposo. E la domenica la macchina ripartiva. È stata un’esperienza pazza, un’occasione per tornare a suonare con amici con cui non suonavo da tempo, reinterpretare mie canzoni con sempre nuovi artisti.
Tra il progetto legato al catalogo Bright Eyes e Conor Oberst & Friends avrai messo mano a un centinaio di canzoni. Sei sempre stato un artista molto attivo, ma ti sei mai stancato di scrivere? O hai masi vissuto lunghi periodi di blocco?
Sì, in realtà ho avuto vari blocchi dello scrittore. Molti pensano che io scriva canzoni quando sono molto depresso, ma la verità è che quando sono depresso non posso far nulla: è proprio quello che succede con la depressione. Quando sono felice, invece, voglio essere felice e godermi la felicità, non voglio chiudermi a scrivere canzoni. Quindi scrivo principalmente quando tutto è normale e ho spezio per riflettere. Possono uscire canzoni tristi o felici, ma sono il risultato di un periodo di riflessioni, non del fuoco del momento. Non posso scrivere quando sono troppo felice o troppo triste.
Nell’album c’è una canzone dedicata all’artista olandese, poi trasferitosi negli States, Bas Jan Ader, un personaggio incredibile della storia dell’arte scomparso nel suo tentativo (impossibile) di attraversare l’Oceano Atlantico con una piccola barca a vela. La traversata inoltre è parte di un trittico di opere che si sarebbe dovuto concludere dall’altra parte dell’oceano con una corale. Come mai ti ha ispirato?
L’ho scoperto recentemente grazie a una mia amica che lavora nel mondo dell’arte e che mi ha mostrato alcuni suoi brevi video. La sua storia è interessante e folle: una persona che decide di prendere una barca vela e andarsene. Non sappiamo nemmeno se è stato un suicidio o se è morto per una tempesta. È c’è qualcosa di romantico e bellissimo in questa storia.
Ora è un gran momento per il country, con molti artisti del pop mainstream che hanno deciso di sposare quel sound. Pensi che possa succedere qualcosa di analogo con il folk?
È successo nei ’60 con Bob Dylan e Joan Baez, artisti capaci di riprendere qualcosa che era considerato vecchio per trasformarlo in qualcosa di nuovo, con tanto di successo commerciale e di pubblico. Potrebbe accadere di nuovo, come no, non saprei. Penso di scrivere canzoni dal cuore folk, su cui poi posso decorare a mio piacimento con gli arrangiamenti. Quindi sì, se c’è qualcuno che sta sperando in un revival del folk, quello sono io.
“Jesus died in a cage fight / Elon Musk in virgin whites / I kill him in an alley over five dice”. In un brano dell’album, la collaborazione con Cat Power All Threes, c’è un tuo verso molto ironico ma anche cruento che cita Gesù e Elon Musk. Come mai hai voluto citare Musk?
Ce l’ho sempre in testa (ride). Lo odio, penso sia una persona orrenda. Tutti sti cazzo di miliardari, penso a lui come a Steve Jobs, dicono di far cose per noi, per la gente, ma l’unica cosa che vogliono è mandare il loro cazzo nello spazio; cosa costruisci tutte ste astronavi, usa i tuoi soldi per aiutare per davvero! I soldi di Musk sono sporchi, è una persona orrenda, ed è incredibile che molte persone ne parlino come di un santo. Ho scritto questa canzone prima che diventasse ancora più pazzo, prima che acquistasse Twitter e appoggiasse Trump, quando la gente pensava fosse un bravo ragazzo liberale. Ma lui fa parte del dark side.
È da un po’ che non vi si vede in Italia. Verrete nel prossimo tour?
Ci spero. Faccio sempre fatica a venire a suonare nel sud dell’Europa, mi ritrovo sempre in sta cazzo di Scandinavia. Voglio venire in Italia per questo tour. Quindi scrivi un articolo pazzesco così sarà più facile (ride).