Nel 1974 i Grateful Dead portavano in giro il loro gigantesco Wall of Sound e Crosby Stills Nash & Young erano in tour in America di nuovo riuniti e già pronti a separarsi. Eppure l’espressione “Tour ’74” per tutti o quasi significa una sola cosa: i 39 concerti che tra gennaio e febbraio Bob Dylan & The Band tennero in 21 città americane. Era la loro prima tournée assieme e la prima di Dylan in assoluto dal 1966.
Da quel ’66, Dylan si era esibito solo sporadicamente come in occasione dello show con The Band all’Isola di Wight nel 1969 o il concerto per il Bangladesh nel 1971. Non aveva più fatto un tour vero e proprio. La sua assenza dalle scene non era da poco e non solo per lui, ma per il rock tutto. Il suo ritorno significava una corsa al biglietto, disponibili tramite una lotteria. Era il primo tour nei palazzetti per Dylan, una roba inimmaginabile nel ’66, ma diventata normale nel ’74.
Ne parlarono tutti con toni entusiastici, la stampa coprì il tour generosamente, Rolling Stone lo definì evento dell’anno pubblicando una serie di divertenti polaroid scattate alla tappa finale di Los Angeles a cui era presente gente come Warren Beatty, Cher, Carole King, Joan Baez. Soprattutto dai quattro concerti a L.A. venne tratto il doppio live Before the Flood in cui Dylan e la Band intrecciavano i rispettivi repertori.
The 1974 Live Recordings racconta una storia diversa e non solo perché è lungo ben 27 CD (e comunque non include tutti i concerti del tour, ma solo quelli che furono registrati professionalmente). Intanto, sono escluse le canzoni di The Band essendo il box set un’operazione di catalogo che serve alla Sony a estendere oltre il mezzo secolo i diritti su questo repertorio. E poi c’è che la musica cambia e di brutto nel corso delle sei settimane di tournée.
Dopo due concerti, ad esempio, Dylan mette da parte Hero Blues, un pezzo risalente all’incirca al periodo di The Freehweelin’ Bob Dylan e suonato tre volte nel 1963. Forse era cosciente dell’esistenza dei suoi bootleg a tal punto non solo da suonare inediti come questo o Nobody ’Cept You, ma da aprire tutto il tour proprio con Hero Blues, immaginando che qualcuno del pubblico la conoscesse.
L’incredibile domanda di biglietti, l’impegno totalizzante (fino a cinque ore sul palco al giorno quando c’erano show pomeridiani e serali), la novità delle arene crearono presupposti affinché i musicisti finissero per fare festa totale. E la cosa si sente inevitabilmente nelle parti vocali. Nelle note di copertina del box set, la scrittrice e musicista Elizabeth Nelson traccia con precisione la linea che separa l’approccio vocale sfrontato di Dylan in questo tour e il deterioramento della sua voce negli anni seguenti. A volte pare di sentire una versione alla Al Pacino di Dylan, un cantante che ti travolge con la sua spacconeria, spesso t’ipnotizza, qualche volta esce dai binari. A volte si limita a urlare oppure ha una voce bassissima, come in Just Like a Woman dal disco numero 11 registrato a Charlotte, North Carolina, che è comunque un bel concerto.
A restare alto è nel complesso l’umore di Dylan. Lo spirito combattivo di Before the Flood la si ritrova già nei primi concerti del tour, anche se il nervosismo è palpabile e Dylan sembra giocare in difesa più che in attacco. C’è comunque fin da subito una grande frenesia. Nei tour precedenti Dylan non aveva mai suonato pezzi come All Along the Watchtower, Lay, Lady, Lay, Knockin’ on Heaven’s Door, né ovviamente la nuova Forever Young che viene perfezionata esecuzione dopo esecuzione. Per Watchtower sembra ispirarsi più alla versione di Jimi Hendrix che alla propria. E strappa Lay, Lady, Lay dal territorio della canzone d’amore a luci soffuse per darne una lettura un po’ più spinta.
Wedding Song, tratta come Forever Young da Planet Waves, è presente in sei versioni ed è una canzone intensa ed emotivamente carica. Nobody ’Cept You, outtake di Planet Waves pubblicata ufficialmente solo nel 1991 nel primo box delle Bootleg Series, la si sente negli show compresi tra il primo e l’ottavo dischetto. Sono entrambe canzoni crude e devozionali. Esigono esecuzioni infuocate, ma non s’adattano perfettamente all’atmosfera del tour.
I fuochi d’artificio arrivano quando Dylan si esibisce da solo in acustico. È come se stesse investigando, non solo eseguendo Gates of Eden e It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding). Le cronache dell’epoca parlano degli applausi che accoglievano regolarmente quest’ultima, che Dylan faceva da solo ogni sera. Era gradito in particolare, visto che si era nel bel mezzo dello scandalo Watergate, il passaggio sul “Presidente degli Stati Uniti che a volte deve restare nudo”. La cosa che più impressiona, però, è quante sfaccettature Dylan riesce a tirare fuori performance dopo performance.
Anche i concerti nel loro complesso subiscono una simile evoluzione nel tempo. Nei primi la set list non è ancora fissata, le performance hanno la moderazione tipica di certo country-rock. Ascoltate la chitarra di Robbie Robertson: è notevole, ma è come ingabbiata. Negli spettacoli di mezzo finalmente si scatenano tutti quanti. I concerti pomeridiani e serali a Houston, contenuti nei dischetti 15 e 16, sono particolarmente vivaci ed eccitanti, con un Robertson liberato. Alla fine del secondo show di Houston, Dylan dice persino qualche parola al pubblico («Vi ringrazio a nome mio e della Band, buonanotte!») e i pezzi si velocizzano fino ad arrivare alle esecuzioni che già conoscevamo.
È facile capire, pur avendo sentito oggi altre performance anche migliori, perché Before the Flood sia stato compilato prendendo quasi solo dai quattro concerti finali del tour, quelli a Los Angeles (Knockin’ on Heaven’s Door, qui sul CD 17, era stata registrata al Madison Square Garden). I concerti a L.A. sono il culmine di tutto ciò che è venuto prima. Ma oggi fortunatamente non hanno più l’ultima parola.
Da Rolling Stone US.