La prima canzone che Neil Young ha suonato la scorsa settimana nei due concerti che ha fatto coi Chrome Hearts al Capitol Theatre di Port Chester, New York è stata I’m the Ocean. È uno dei pezzi più forti di Mirror Ball, il disco inciso nel 1995 coi Pearl Jam. “La gente della mia età” dice il testo “non fa le cose che faccio io”. Era un grande verso quando Young era a un passo dai 50 anni, è tutta un’altra cosa adesso che ne ha 78. Al Capitol, dopo averlo cantato due volte, ha strappato i fili del gobbo elettronico e li ha gettati a lato del palco, senza interrompere il pezzo, uno scatto rabbioso accompagnato dal fragore delle chitarre elettriche.
A 78 anni Neil Young è di nuovo sulla strada, che è un po’ la sua casa, e non è da solo. Non so se ricordate The Last Waltz, il film anni ’70 sui veterani del rock che cercano di smettere prima che la strada li uccida. C’erano Neil, Van Morrison e Bob Dylan e sono ancora in giro e nessuno di loro prende scorciatoie, né fa una scaletta di grandi successi. Persino Joni Mitchell ha ripreso a suonare dopo un aneurisma che l’ha quasi uccisa. È come se non riuscissero a liberarsi delle storie che hanno iniziato a raccontare decenni fa. E quindi partono in tour, vanno sulla strada perché è lì che vivono le storie.
Ed è lì che Neil Young è tornato dopo la cancellazione del tour coi Crazy Horse. Sono concerti potenti, il ritorno sulla strada come rito dopo uno stop inatteso e una dimostrazione di vitalità da parte d’un artista che rifà canzoni di tutte le sue fasi, un Journey Through the Past come da titolo della canzone che fa al pianoforte. Uno dei momenti forti è Big Time, un pezzo non aveva mai suonato senza i Crazy Horse. Era su Broken Arrow del 1996, un album sottovalutato pieno di canzoni sugli amici scomparsi, tra cui il suo produttore David Briggs. Proprio come era accaduto in Tonight’s the Night e Rust Never Sleeps, Young aveva messo in musica il dolore e lo aveva fatto affiancato dai suoi amici più fidati. In entrambe le serate a Port Chester ha trasformato il pezzo in una jam chitarristica che è al tempo stesso un’elegia: “Sto ancora vivendo nel sogno che abbiamo fatto, per me non è finita”.
Il suono della chitarra di Big Time è mostruoso, Neil non ha perso smalto, le dita e il polso sono gli strumenti attraverso cui racconta le sue storie. Ed è commovente sentirlo tirare fuori quel pezzo proprio adesso, dopo aver provato questo tour coi vecchi amici dei Crazy Horse e non essere riuscito a portarlo a termine per via di problemi di salute di alcuni del gruppo. Lui è andato avanti e in un certo senso se lo porta dietro con sé anche se fisicamente non ci sono. È di momenti così che vivono questi concerti.
Certo, se avesse potuto scegliere, avrebbe suonato coi Horse al Bourbon and Beyond di Louisville, e poi all’Hollywood Bowl e all’Ohana Festival di Eddie Vedder. I Chrome Hearts – stesse iniziali dei Crazy Horse – nascono dal disperato bisogno di suonare al Farm Aid e il 5 ottobre al Painted Turtle Camp/Bridge School con John Mayer e Stephen Stills, vecchio compare nei Buffalo Springfield. E forse gli show al Capitol sono stati un modo per testare la nuova band di cui fa parte il chitarrista Micah Nelson (il padre è un certo Willie) che ha già suonato coi Crazy Horse in primavera.
Sono stati concerti notevoli, quelli, coi Crazy Horse in gran forma. A Forest Hills a un minuto dal coprifuoco hanno tirato fuori una ripresa di giusto 60 secondi di Roll Another Number. E quand’è mancata la corrente durante Hey Hey, My My (Into the Black) hanno continuato a suonare finché non è tornata l’elettricità, che è in buona sostanza il tema della canzone. Peccato siano arrivati solo a metà del tour, a giugno.
Gli show al Capitol sono stati intensamente elettrici, vedi Powderfinger o Everybody Knows This Is Nowhere, con echi country come nel caso di Comes a Time e Harvest Moon. La prima sera si è sentita una Down by the River in versione jam di 13 minuti, il giorno dopo è arrivata la prima esecuzione di Hey Babe del 1977. Young, che suona la Old Black, la sua Les Paul del 1953, a metà dell’assolo di Big Time ha alzato l’ampli a un volume tale che quando uno dei roadie è entrato in scena per suonare il piano le note si sono perse in quel fragore. Uno degli highlight di entrambe le serate è stata One of These Days, con il call-and-response con la band nel finale: “It won’t be long”.
Ascoltando i pezzi di Harvest Moon è stato strano rendersi conto che quel disco appartiene alla prima metà della sua carriera. Negli anni ’90, quand’ha fatto Ragged Glory e appunto Harvest Moon, Neil Young sembrava il più ruvido tra i grandi saggi del rock: nessuna rockstar della sua età era mai stata altrettanto rilevante o influente, vedi i casi dei Nirvana e dei Pearl Jam. Eppure aveva appena compiuto 40 anni. E del resto già ai tempi di Rust Never Sleeps c’era chi scriveva nelle recensioni di un «veterano brizzolato» ed era passata solo una dozzina d’anni dall’inizio della sua carriera discografica.
Oltre a Nelson, che evoca lo stile di Ben Keith senza però copiarlo, nella band c’è la sezione ritmica dei Promise of the Real, ovvero il bassista Corey McCormick e il batterista Anthony LoGerfo che hanno suonato per anni con Young (vedi anche gli album The Monsanto Years e The Visitor). Nel gruppo c’era anche il fratello di Nelson, Lukas. All’organo c’è Spooner Oldham, leggendario musicista di Memphis che ha suonato nei dischi di Wilson Pickett e Aretha Franklin, e in passato anche con Young. In scaletta altri pezzi che non si sentono abitualmente dal vivo come Song X, Prime of Life, The Old Country Waltz, Long May You Run.
«C’è qualcosa di primitivo e primordiale in Neil, soprattutto quando suona coi Crazy Horse», diceva Nelson mesi fa. Quella band ha sempre rappresentato per Young la possibilità di sentirsi libero e lanciarsi nel caos. Non sappiamo se li rivedremo assieme. Di certo lui è determinato a tenerne in vita lo spirito.
Fino alla scorsa settimana non aveva mai fatto dal vivo pezzi di Broken Arrow senza di loro, come Scattered (Let’s Think About Livin’), uno dei pezzi forti dei concerti primaverili, la canzone dedicata a Briggs. Questa storia è un bel peso da portarsi appresso, ma è quel che Neil Young fa da una vita, anche quand’era molto più giovane.
Quando Young ha cantato per la prima volta Hey Babe è stato impossibile non notare il significato assunto dal ritornello: “So che tutte le cose passano, cerchiamo di farle durare”. Il rovescio della medaglia è Ambulance Blues: è facile rimanere sepolti nel passato quando si cerca di far durare una cosa bella. Ma questa è la storia che Neil Young racconta sul palco da una vita.
Da Rolling Stone US.