Tutti i film di Natale, perfino i cinepanettoni, rappresentano la storia, più o meno divertente, più o meno banale, della ciclica riscoperta di un senso della comunità, puntualmente smarrito nel corso dell’anno appena trascorso. Anche il primo film di Natale scritto e interpretato da Vinicio Capossela, e diretto da Gianfranco Firriolo, pur così atipico, così profondo, così surrealisticamente votato alla rappresentazione verosimile del sogno, sembra volere comunque provare a dare una risposta a questa istanza tradizionale del genere cui, suo malgrado, afferisce, tanto che potrebbe essere sottotitolato, rispettando il repertorio semantico ramingo del cantautore emiliano: Mamma ho perso la carovana.
Natale Fuori Orario, presentato al Festival del Cinema di Roma la scorsa settimana, è giocato sul contrasto tra documento e finzione. Videoclip di reali concerti natalizi, agitati e festosi – tenuti da Capossela nell’arco di 25 anni al rock club Fuori Orario di Taneto di Gattatico, in provincia della sua Reggio Emilia – sono incastonati in una cornice narrativa innevata e ovattata, che racconta la storia di tre amici (il Cantante, il Gigante e il Mago) che procedono in quello che sembra un viaggio alla ricerca di una festa che non si trova più, se non nelle memorie folleggianti che, annata dopo annata, vengono proiettate nel bianchissimo silenzio del mondo post-apocalittico che percorrono, ricordando i Natali passati, nella speranza che possa esserci ancora un Natale futuro. La gioia di suonare e cantare vince, così, la paura di non poterli fare più.
Da questo repertorio è venuto fuori anche un disco, simbiotico col film: Sciusten Feste n.1965 in cui Capossela ripropone (finalmente) in studio i cavalli di battaglia suonati dal vivo a Natale (straordinarie le rivisitazioni di White Christmas e Jingle Bells), con l’aggiunta di alcuni pezzi inediti (tra cui il delizioso, catastrofico Guastafeste). Mente il film è viandante e simbolico, il disco cerca di essere il più stabile e pragmatico possibile, prendendosi la briga di una paradossale messa a punto del motore lanciato a tutta birra del Capossela dionisiaco dal vivo.
Tutta l’estetica della doppia operazione è dominata dal doppio binario di significato della parola tedesca Schützen, che dà il nome alle celebri feste popolari di tiro a segno: vuol dire tiratore e protettore al tempo stesso. Con questa nuova metafora Capossela definisce una volta per tutte il suo ruolo di cantore: un allegro cecchino sceltissimo che mira al cuore degli ascoltatori, dove può fare loro meglio: proteggerli contro l’isolamento.
Capossela, perché uscire con un film e un disco di Natale?
Uno dei motivi per cui mi sono affezionato all’idea di suonare a dicembre è un passaggio di Sulla strada di Jack Kerouac. È quando i suoi personaggi si ritrovano a New York, verso la fine dell’anno. Pervasi da un infebbramento per la vita, da una voracità e dalla paura di perdersi qualcosa, come Kerouac sa descrivere benissimo, passano da una festa all’altra dove si suona il be bop. Anche io mi sento a volte come una pallina dentro un flipper, cercando di prendere lo special. Ecco come mi sento in questo periodo dell’anno.
A parte, chiaramente, quello dickensiano, quali sono stati i canti di Natale che hanno influenzato di più la tua sensibilità, nel fare i concerti natalizi, il film, e il disco che ne consegue?
Per me il cantante più natalizio di sempre è Louis Prima; anche se lui, di natalizio, non ha mai registrato niente. Ma un suo pezzo è finito in una scena del classico Disney Il libro della giungla, film a sua volta non natalizio, ma che si può vedere benissimo a Natale. Quel pezzo mi restituisce, più di qualsiasi altro, il senso della festa: I Wan’na Be Like You. Poi c’è Lou Monte, con le sue scimmiottature di pezzi come The Sheik of Araby, che lui fa diventare: The Sheik of Napoli. A mio avviso l’intera scena swing italo-americana è quanto di più quintessenzialmente natalizio esista.
Come prosegue la playlist?
L’altro personaggio del mio pantheon natalizio musicale è Shane MacGowan dei Pogues, e non solo perché è nato il 25 dicembre. La sua musica, qualunque cosa canti, è come il Natale: ci si fa fradici, ci si inzuppa, ci si abbraccia giacché le gambe traballanti non ci reggono più. Altro pezzo che ritengo inspiegabilmente intonato al Natale è Abide With Me nella sua versione strumentale in cui Thelonious Monk, con sole quattro ance, ne tira fuori un inno solenne.
E musica, invece, realmente natalizia?
L’unica musica intenzionalmente di Natale da cui non posso prescindere è il disco di Vince Guaraldi che ha creato un immaginario musicale per i personaggi dei Peanuts.
E se dovessi menzionare anche solo un film di Natale che ti ha ispirato?
Ce n’è uno a cui sono molto affezionato, sia per le immagini che per la musica: Smoke, ispirato a un racconto di Paul Auster, con Harvey Keitel che interpreta un tabacchino di Brooklyn di nome Auggie. È una storia molto piccola: direi di quartiere. Il tabacchino coltiva poche amicizie ma intense, tra cui quella con uno scrittore che ha perso la moglie e, con lei, anche l’ispirazione. Gli chiedono di scrivere un racconto di Natale e lui non sa che pesci pigliare. Il tabacchino ha una macchina fotografica con cui fotografa ogni mattina, alla stessa ora, lo stesso angolo di quartiere davanti al suo negozio. Alla fine è di fatto Auggie a scrivere il racconto per l’amico scrittore.
Come hai connesso questo immaginario a quello raccontato nel tuo film?
Per prima cosa Gianfranco Firriolo è esattamente un personaggio di Smoke. È parte fondamentale della compagnia di tre o quattro amici che conosco da trent’anni, più o meno da quando ho incontrato Vincenzo Costantino, detto Cinaski. Gianfranco è sempre stato quello che, nel gruppo, ha funzionato come la macchina fotografica di Auggie: in tutti questi anni, quasi senza farsi vedere, ha filmato la nostra storia.
E, in particolare, questi concerti di Natale.
La nostra comunità, il nostro quartiere itinerante, per venticinque anni ha deciso di darsi appuntamento in un rock club sperduto nella pianura tra Reggio e Parma, per fare il Natale insieme, cercando di sopravvivere ai pranzi, ai parenti e a tutte le altre cose appiccicose delle feste. Noi suonavamo vagamente ispirati ai Pogues e Gianfranco filmava come Auggie. A volte con una sola camera, altre volte con un po’ più di organizzazione, e includeva sempre anche tanti momenti off. Alcuni di quelli riportati nel film, almeno per noi, sono molto toccanti: soprattutto quelli a fine concerto, che definisco “a mano libera”, quando suonavamo e cantavamo all’arma bianca.
Cosa ti ha suggerito la celebre scena finale di Smoke?
Il film finisce con Auggie che racconta all’amico scrittore una sera di Natale trascorsa in casa di un’anziana cieca, fingendo di essere suo nipote, mentre lei faceva finta di non aver capito che non lo fosse, per restare entrambi nella reciproca compagnia. Le storie di Natale sono sempre un po’ così: finzioni dove il buon sentimento, pur simulato, conserva una sua capacità di redenzione. Innocent When You Dream di Tom Waits fa da colonna sonora al film nel film, di quattro minuti e quasi muto, che mette in scena il racconto di Auggie. Solo quando sei in grado di amare, torni innocente.
In una vita che ci sembra sia stata centrifuga ed eclettica fin dall’infanzia, come descriveresti il tuo Natale passato “tipico”?
Partiamo dal mio di Natale, il mio Die Natali. Io sono nato un dicembre ad Hannover, ma cresciuto nella provincia emiliana. Solo un po’ più avanti ho appreso che in Germania si organizzano queste Schützenfest, peraltro in estate, che fanno parte di una cultura per cui abbiamo elaborato una certa diffidenza. Sono festone: non come l’Oktoberfest, ma quasi. Quello che mi ha impressionato erano le dimensioni di quella specie di circo, che aveva in comune con il Natale quasi solo il sentimento dello stupore. Da bambino non ho passato dei Natali in cui recitavo la poesia sul tavolo, scrivevo la letterina a Babbo Natale e poi ne arrivava uno più o meno finto. Noi venivamo da un altro mondo. Però devo dire che ho sempre avuto una fortissima attrazione per quelle piccole luci: avevamo un alberello veramente sgangherato, proprio come quello di Charlie Brown: aveva una sola fila di lucine ed era decorato con delle casette colorate in quei colori che esistevano soltanto negli anni ’70, che poi sono gli stessi dei regoli e gli stessi abbiamo messo nella scritta “Sciusten Feste” sulla copertina del disco.
Che cosa desideravi?
Aspettavo la neve. Avendo avuto un’infanzia di ristrettezze, l’unica ricchezza natalizia che io ricordi è l’attesa, che non costava niente. Attendendo ti fai tutta una serie di film, appunto. Bisognava lavorare molto di immaginazione. Lo dice anche il mio amico Teo Ciavarella, che nel disco suona l’organo magistralmente: la gratitudine si nutre di attesa. E lo conferma il poeta Kavafis: “Itaca, anche se l’hai trovata vuota, ti ha regalato il viaggio”. Ecco, il Natale è così: anche se fa schifo, ti ha regalato comunque l’attesa.
E la neve, alla fine, arrivava?
Purtroppo non ha mai nevicato, anche perché ero bambino a Scandiano, in pianura, e già allora la neve era piuttosto rara. Della neve conservo un’idea fatata: ne bramavo anche un singolo fiocco, per mangiarlo mentre cadeva. La neve è stata sì la cosa che ho più atteso, invano; ma questa attesa mi ha regalato un sentimento di candore, di innocenza, di silenzio gravido di pace, non di vuoto, che permane.
È per questo che il tuo film fa i conti con un mondo finito, ricoperto di nevi e ghiacci perenni? Che nuove scoperte ci sono per te e per noi nell’esplorare un disco fatto di memorie di feste?
Per me la festa è un concetto ciclico, che si pone fuori dal tempo. Il film si intitola Natale Fuori Orario non solo per il nome del locale, ma anche perché volevamo un po’ andare a spasso nel tempo. È bello il congegno narrativo che ha inventato Dickens: Natali passati, presenti e futuri. La festa, per sua natura, si sottrae al tempo e anche un po’ alla dittatura della attualità, come la chiamo io. La festa, proprio per sua natura, non contempla il futuro, cioè si festeggia bene solo quando lo si fa come se non ci fosse un domani. Così ci si ammutina dal tempo. Lo slogan “L’immaginazione al potere!” non voleva solo esortare a usare la fantasia, ma voleva proprio dire: cambiamo la realtà. La realtà non si cambia crogiolandosi nel ricordo.
Nella tua produzione artistica hai sempre navigato tra storie oniriche e realtà cruda. Nella cornice narrativa post-apocalittica del tuo film la realtà cruda sembra essere diventata la possibilità di perdere le storie oniriche; e non tanto perché non sarebbero più raccontate, ma perché non sarebbero più ascoltate. Hai davvero paura di questo?
Devo dire di sì. Uno dei problemi dei nostri tempi è che ci sono tantissime storie, ma sempre meno gente disposta a prestarvi orecchio. Non parlo della mia musica. Fuor di metafora, credo che l’ascolto, non soltanto nello spettacolo, ma anche nella vita, sia una merce in rarefazione. Per fortuna mi sembra che le generazioni recenti si propongano di più il tema dell’ascolto, a partire da quello di sé stesse.
Che tipo di dialettica si è instaurata col pubblico di quei concerti?
Abbiamo fatto concerti di Natale al Fuori Orario dal 1999, in genere a Natale e Santo Stefano. La loro ciclicità e la loro ritualità hanno rafforzato le reti della comunità che li ha frequentati, un po’ come avviene per lo Sponz Fest. Una festa si realizza facendola. È un evento partecipato, per chi è motivato: non tutti prendono e vanno in Emilia.
Che ruolo ha il luogo prescelto nell’estetica di questi tuoi lavori?
Il luogo ha un ruolo fondamentale. Io sono cresciuto a Reggio Emilia e la mia formazione musicale, soprattutto rock, è avvenuta grazie a radio come Mondo Radio Rock Station (che poi è diventata K-Rock). Lo racconta Luciano Ligabue nel suo primo film. Andare alle serate organizzate da queste radio nei rock club (ad esempio al Corallo) era un’esperienza diversa da ascoltare Spotify. Allora sì che Bruce Springsteen poteva diventare Babbo Natale, quando mettevano la sua versione di Santa Claus Is Coming to Town. È così che si fonda il sentimento rock and roll delle mie feste di Natale al Fuori Orario.
Maestro, cos’è il rock?
Il rock, in fin dei conti, è un sogno. Un shogno, come direbbe Briatore. Un modo di prendere la vita. E le feste di Natale sono la stagione più rock dell’anno.
Perché avete ritenuto importante, se non necessario, provare a trasferire quei momenti in un film e in un disco?
Filmare quelle serate è stato un autentico atto di generosità da parte di Firriolo che, come vi dicevo, non ha ripreso solo i concerti, ma anche i nostri ritrovi di quartiere e i loro personaggi. Questi personaggi, che ritrovate nel film, costituiscono una storia parallela a quella del Fuori Orario: è la storia dell’amicizia, dapprima in Russia e poi in Ucraina, con Marco Cervetti detto il Gigante, e a Los Angeles con il Mago punk-burlesque Christopher Wonder. Questi due personaggi, il Gigante e il Mago, sono i miei difensori dell’innocenza. Con loro ci siamo incontrati 19 anni fa e ogni 23 dicembre celebriamo la nostra amicizia o, più in generale, l’amicizia, in un ritrovo che abbiamo chiamato “The Trinity”, perché il nostro Mago mette l’articolo “The” davanti a tutto anche quando parla in italiano: quindi “The Treno”, “The Penna” e “The Trinity”.
Che tipo di viaggio vi proponete di fare, nel film?
Con loro due compio un viaggio nella festa perduta. L’idea di mettere insieme le immagini dei concerti e questo viaggio immaginario è stata anche un po’ conseguenza della pandemia. Nel 2020 non si potevano tenere concerti e sembrava che avessimo perso la capacità di immaginare un futuro. Alla riapertura di questa possibilità sono sopraggiunte guerre e flagelli disumani. Il futuro è una grande incognita ma a preservarci da tutto questo ci sono anche le storie di Natale. Abbiamo voluto fare un film e un disco di festa per attirare le energie buone, la luce di ritorno, dopo un momento di buio. Questo disco è portatore di una storia vera.
È evidente da ogni fotogramma delle clip dei concerti, così come da ogni verso del disco, una sorta di horror vacui, riferibile all’immobilismo e alla solitudine. La musica è dunque la fonte rinnovabile di un’energia che può rimettere in movimento l’umanità?
La fine dell’anno è una strettoia che nell’immaginario folklorico, penso alle famose dodici notti sante, era un momento di libera circolazione tra vivi e morti, tra umani e animali. Ci passano attraverso i nostri fantasmi e le nostre rese dei conti. Ma vorrei chiarire qualcosa sul concetto di solitudine, che è una cosa diversa dall’isolamento. Sono due registri diversi. La solitudine può essere un momento di intimità e di arricchimento, anche perché è un presupposto per l’incontro, oltre che per coltivare sé stessi. L’isolamento è connesso con l’individualismo e la separazione e può avvenire purtroppo anche quando si è insieme. Un paradosso di oggi è che c’è tanto egocentrismo e poco amor proprio. Siamo divorati da quel tremendo pozzo di attenzione che è l’ego che, però, non può scambiare amore. Su questo bisognerebbe vigilare di più.