Paolo Fresu, Miles Davis e il destino del jazz: «Che assurdità volerlo preservare dalla contemporaneità» | Rolling Stone Italia
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Paolo Fresu, Miles Davis e il destino del jazz: «Che assurdità volerlo preservare dalla contemporaneità»

Raccontare (e ovviamente suonare) un jazzista leggendario senza sensazionalismi. E usarlo come punto di partenza per parlare di mito, creatività, stato della musica. Intervista al grande trombettista sul suo ulitmo progetto ‘Kind of Miles’ e non solo

Paolo Fresu, Miles Davis e il destino del jazz: «Che assurdità volerlo preservare dalla contemporaneità»

Paolo Fresu

Foto: Stefano Tenzi

«Quando Walter Zambaldi del Teatro Stabile di Bolzano mi ha detto “Dai, facciamone un altro”, io non mi sono certo tirato indietro». Eh, figuriamoci se Paolo Fresu è uno che si tira indietro. Il trombettista jazz sardo – uno dei musicisti italiani più conosciuti e rispettati all’estero, uno di quegli artisti di cui dovremmo andare orgogliosi e che dovremmo celebrare in profondità, al di là delle nicchie e dei confini di genere musicale – anche ora che ha superato i 60 anni (ma fidatevi: ne dimostra 20 di meno a vederlo, e a leggere il suo calendario di impegni ne dimostra 40 di meno) è uno che non si perde una sfida. In un mondo (apparentemente?) ingessato e conservatore come il jazz, suona, incrocia, collabora col pop e con l’elettronica, crea impollinazioni culturali, organizza festival atipici (Time in Jazz, un miracolo lungo dieci giorni più che un festival), incrocia ambiti espressivi.

Ecco, tornando al Teatro Stabile di Bolzano, senza perdere il filo: proprio l’incontro con la realtà altoatesina ha dato vita negli anni passati a due tournée fatte di concerti-non-concerti, qualcosa a metà fra un live set e uno spettacolo teatrale. Prima A tempo di Chet, incentrato sulla figura di Chet Baker; poi Tango Macondo, una specie di rilettura tra jazz e Borges del folklore sardo. E ora?

«Beh, se ho già fatto uno spettacolo su Chet, e l’ho fatto, nel momento in cui mi veniva chiesto di crearne un altro non potevo che andare su Miles, Miles Davis. L’altro mio punto di riferimento assoluto». Ci sta. Ma ci sta anche un: non è troppo per un trombettista jazz, per un qualunque trombettista jazz, misurarsi con la figura di Miles? La risposta di Fresu è sibilata con la sua tipica calma olimpica e cortese, quella che gentilmente ti fa capire che sì, può capire i dubbi e le perplessità altrui, certo, ma lui le idee le ha chiarissime: «A me piacciono le sfide». Punto, discorso chiuso.

E come sfida, dopo aver visto l’anteprima al Teatro Comunale di Bolzano e in attesa delle moltissime date in giro per i teatri italiani nelle prossime settimane, si può dire che quella di Kind of Miles è vinta eccome. Corredo luci minimale ma elegante, così come la scenografia e gli interventi video originali o di repertorio. Band sul palco a più elementi (Bebo Ferra alla chitarra, Christian Meyer – sì, quello di Elio e le Storie Tese – e Stefano Bagnoli alle batterie, Dino Rubino al pianoforte, Filippo Vignato a trombone ed elettronica, Marco Bardoscia al contrabbasso, Federico Malaman al basso elettrico), e band soprattutto ad assetto variabile: suonano infatti ogni tanto tutti assieme e in altri momenti invece solo in formazione a quartetto o quintetto, perché variabile è la traiettoria di Miles, dalle delizie acustiche e raffinate di Kind of Blue e del Second Great Quintet con Herbie Hancock fino alla rabbia impro-jazz-funk di Bitches Brew, per non parlare dell’ultima fase tra pop d’autore, esperimenti inaspettati e raffinatezze patinate, c’è anche quella, ed è svolta con competenza, così come tutte le altre – band davvero efficacissima e di qualità.

A trainare tutto questo, un Fresu mattatore: non solo e non tanto come solista con tromba e filicorno e bandleader durante i momenti musicali, ma proprio come voce durante i momenti narrativi. Momenti peraltro molto azzeccati, ben scritti. E con un curioso approccio jazz alla scansione degli eventi e dei racconti, ovvero non lineare, molto taglia e cuci (del resto, Teo Macero ha fatto proprio così nel costruire alcuni dei dischi più importanti nella carriera di Miles Davis, tutto torna).

Due notazioni: il doppio sforzo tra solista e mattatore/voce narrrante poteva essere un chiedere troppo a se stessi; e il fatto di raccontare Miles poteva facilmente sfociare nell’agiografia e nel didascalismo. La risposta a queste due notazioni separate arriva con una risposta, invece, unica, nella chiacchierata che ci siamo fatti il giorno dopo il concerto in un hotel in centro a Bolzano: «In effetti l’idea iniziale era di fare Kind of Miles con un attore vero. Non dovevo esserci io, a parlare. Il testo era pronto, la direzione musicale da dare al tutto era chiara. Ci mancava però questo attore: chi prendiamo? E lì a un certo punto Zambaldi mi fa: “Perché non lo fai tu?”».

E tu… «E io mi sono detto: ci provo». Vedo. Ho visto. «Non è stato facile. C’è ancora da lavorarci su, credo che lo spettacolo possa migliorare ulteriormente… Ma vedi, aveva senso lo facessi io: perché in fondo lo spettacolo non è – e non è mai voluto essere – qualcosa costruito per raccontare didascalicamente la figura di Miles, lo avrai notato anche tu. Semmai Miles è un punto di partenza per andare a parlare di musica, di creatività, di mito: tutto questo però da un punto di vista molto personale, in più parti spiccatamente autobiografico. Penso di poter definire tutto questo lavoro in questo modo: onesto. Kind of Miles è onesto».

«Sai perché? Per dire, ogni volta che vado a vedere dei grandi film biografici al cinema ne esco deluso: perché c’è sempre questa idea di andare a trovare il punto debole, i lati sordidi, e ricamarci sopra. Ecco, questa mi pare una forma di disonestà. Anche nel giornalismo, eh: recentemente sono stato intervistato da una delle principali testate italiane e mi sono ritrovato a dire: guardate, sono sano, sono normale, mi spiace. Non ho malattie, almeno fino ad ora. Ho una famiglia, di cui sono molto felice. Sarebbe ora che si iniziassero a fare più interviste in cui si parla di normalità, e non di anormalità. Nel giornalismo e nel cinema si cerca invece sempre il lato un po’ morboso, il momento drammatico nella vita dell’artista… Io volevo che Miles venisse raccontato in modo lineare, senza sensazionalismi, uno che è diventato un mito per persone come me prima di tutto per quello che ha fatto come musicista».

Paolo Fresu nello spettacolo ‘Kind of Miles’. Foto: Tommaso Le Pera

Qua però Fresu lo interrompiamo: ok, bello, ma non si può negare che Miles Davis sia entrato nell’immaginario collettivo anche per il suo modo di vivere, il suo piglio spesso scostante, le droghe, gli arresti, i litigi. Tu stesso lo evochi, con garbo ma senza sconti, in più momenti di Kind of Miles. «Vero. E ha scelto coscientemente di essere un personaggio sopra le righe in un modo in cui ancora non si era avventurato nessuno, o quasi. Ha precorso i tempi, se ci pensi. E non è un caso infatti che proprio per questo sia stato bastonato dai critici jazz, anzi, non solo da loro, anche dai musicisti jazz stessi, negli anni ’80». Anche dai suoi colleghi? «Faceva una musica che non era più strettamente jazz. E si diceva che avesse venduto l’anima al diavolo, perché voleva avere successo».

Il successo come colpa: ehi, suona famigliare, mi pare un approccio molto diffuso in Italia, tra molti appassionati di musica. «Esatto. Non è cambiato nulla da allora, ti rendi conto? Siamo sempre lì. Quando c’è un musicista jazz che ha un minimo di successo trasversale, ecco che si leva subito la platea di settore a dire “Eh no, non va bene”. E perché mai non andrebbe bene? Dobbiamo davvero passare ancora oggi tutto il tempo a renderci la vita difficile, e a darci le martellate sulla palle perché si sa, il jazz è la musica della sofferenza? Che poi, manco lo fosse davvero la musica della sofferenza: se guardi ai musicisti jazz oggi sono tutti puliti, astemi, perfino vegani. L’unica sofferenza è la vita di tutti i giorni, la fatica di arrivare a fine mese, quella sì, ma quella pare invece non essere una questione centrale. Hai ragione: Miles ha alimentato il suo mito diventando iconico anche per la sua personalità, per la sua scostanza, per il suo girare in Ferrari, vero. Non credo guadagnasse cifre astronomiche, in realtà, ma voleva dimostrare che ce l’aveva fatta. Per lui, certe pose e certe scelte erano una forma di riscatto».

Una pausa, e poi Fresu prosegue: «Sai, per preparare questo spettacolo ho letto e riletto ovviamente moltissimo attorno a Miles, a partire dalla sua autobiografia. Rileggerla oggi, dopo che l’avevo letta trent’anni fa quando era uscita, è stato molto diverso. Molto, molto diverso. Quando la lessi all’epoca mi sembrava tutto mitico, quasi favolistico; oggi invece capisco molto meglio certe sue prese di posizione. Riesco ad immedesimarmi di più. Lui, a parte forse con l’eccezione di Kind of Blue, non è mai stato un musicista che vendesse chissà quante copie e guadagnasse così tanto, come dischi stavamo sulle decine di migliaia di copie ad uscita, non certo milioni, e di conseguenza il suo contratto con la Columbia non è che fosse particolarmente ricco. Però poi quando andava in giro ogni musicista che incontrava, anche di altri generi musicali, gli si inginocchiava davanti… Al che giustamente si è detto: “Che è ‘sta storia, questi si inginocchiano davanti a me, ma a loro danno milioni per ogni cosa che fanno, a me solo un pugno di dollari”».

«Il disco di Miles con Jimi Hendrix non si è fatto non solo perché di lì a pochi giorni Jimi morì, ma anche e soprattutto perché Miles chiese una cifra mostruosa per farlo. Mostruosa. E poi negli anni successivi, soprattutto a partire dagli anni ’80, ha effettivamente lavorato per creare un certo tipo di personaggio attorno a sé: con l’ostentazione, la scostanza, i vestiti sgargianti, le macchine… Prima l’unico mito che lo circondava era l’instancabilità, era quello di suonare tantissimo, di provare ogni volta ad aprire delle nuove porte sonore: a un certo punto ha voluto di più, e lo capisco».

«Iniziavo già a capirlo quando faceva delle cose eccessive, come arrivare ad Umbria Jazz in limousine fino a bordo palco; e lo capivo quando provava a entrare nel pop, suonando con gli Scritti Politti o facendo la cover di Time After Time di Cyndi Lauper o di Broken Wings dei Mr. Mister. Lui sapeva – perché c’era, era lì – che negli anni ’40 e ’50 il vero pop era il jazz, ma è da lì che progressivamente questo rapporto si è sfilacciato, che il jazz sempre più ha iniziato a diventare elitario. Però anche nei suoi dischi diciamo così più commerciali e legati al suono del pop e delle radio, come Tutu o Decoy o Star People, quelli degli anni ’80, Miles era sempre Miles: questa è la verità. Se lo sentivi suonare, da trombettista, conoscendo lo strumento, capivi che lui era sempre lui. Non era cambiato. Solo che, da persona intelligente, aveva semmai provato a cambiare tutto quello che gli stava attorno, quello sì: perché altrimenti lui e la sua musica sarebbero stati morti e sepolti. Ecco, questo è un insegnamento molto importante».

Time After Time (feat. Federico Malaman, Filippo Vignato, Christian Meyer, Bebo Ferra, Marco...

Mmmh. Un insegnamento che non è esattamente stato colto, nel mondo del jazz. «Per nulla. Anzi, pare esserci sempre una sorta di squadrone punitivo pronto a sparare addosso a chiunque provi a uscire un minimo dal seminato». Addirittura? «Sì. Tanto per stare in Italia, e ai giorni d’oggi, prendi Stefano Bollani: da quando appare regolarmente in televisione hai notato che è improvvisamente scomparso da tutti i referendum, da tutte le classifiche specializzate, da tutti gli speciali degli addetti al settore? È come se per il mondo del jazz lui fosse letteralmente scomparso, fosse diventato irrilevante… Assurdo, perché lui è e resta un musicista eccezionale. Questo voler preservare il jazz non si capisce da cosa, ma in primis dalla modernità, dalla popolarità e dalla contemporaneità, è un approccio veramente assurdo. Perché invece proprio il jazz, guarda caso, potrebbe essere una musica perfetta per raccontare i nostri tempi: una musica fatta di diversità, di tempo, di contaminazioni, di immediatezza, di relazioni è semplicemente perfetta per raccontare le ere che stiamo vivendo».

Ottima osservazione. Ma mi tocca dire: il pubblico del jazz è però tendenzialmente sempre più vecchio, la verità è questa. Non nascondiamocelo. E tra l’altro questo spiega il suo essere conservatore, come pubblico e proprio come aria-che-tira fra gli addetti ai lavori. Il che però è un bel paradosso, pensando invece a come il jazz sia come dna la musica anti-conservatrice per eccellenza nata com’è dal meticciato da un lato e in luoghi pericolosi dall’altro. «Vero». Ma è un fenomeno solo italiano, questa ansia conservatrice? «No».

No? «Accade lo stesso anche in centro e nord Europa, anche se nel nord Europa ci sono belle interconnessioni con la musica elettronica. Non accade, invece, se si va a ovest, tipo Spagna e Portogallo. O ad est, vedi Bulgaria, Romania, Balcani: lì invece c’è un pubblico straordinariamente giovane e appassionato. Proprio di recente ho suonato da quelle parti, all’est, e l’ho fatto in un club da 800 posti, tutto pieno solo di giovani. Ma al nord e al centro Europa, e sicuramente qui in Italia, dovremmo riuscire a rinnovare il pubblico, sarebbe urgente farlo». Non ci stiamo riuscendo, però: come mai? «Io ho una mia teoria, almeno per quanto riguarda il nostro Paese. Quando il jazz è arrivato in Italia, attraverso gli americani, gli unici che potevano permettersi di comprare dei dischi – era l’Italia del dopoguerra, molto povera e tutta in ricostruzione – erano le persone che appartenevano alla borghesia: medici, avvocati, eccetera. Sono stati loro i primi appassionati, loro ad aprire i primi club, che erano frequentati da persone come loro. E i primi musicisti jazz italiani, le prime persone a strutturare una scena, erano proprio i figli di quella borghesia; i musicisti, sì, e anche gli organizzatori degli eventi, dei festival».

«Il primo musicista jazz non borghese è stato Massimo Urbani, figlio di un borgataro; il secondo, probabilmente, io, che sono figlio di un pastore. Oggi per fortuna le cose stanno cambiando un po’, ma sta di fatto che il jazz da noi è sempre stato visto e trattato come una musica elitaria e borghese. Il che peraltro è assurdo, perché i protagonisti del genere in quegli anni – i grandi musicisti americani – erano tutti degli eroinomani, degli strambi, degli artistoidi, delle persone che incarnavano ciò che alla borghesia fa orrore: ma evidentemente tutto questo era visto come un modo per sfuggire alla noia… Negli anni ’70 poi il jazz, con l’ondata del free, è stato preso in ostaggio dagli intellettuali e dalla politica. Quando poi c’è stato il riflusso degli anni ’80, però, ogni tentativo del jazz di essere popolare è stato castrato, “Ma come, suoni il pop, suoni le canzoni? Ma cosa c’entra col jazz? Ma ti pare?”, quando invece se nel jazz americano gli standard sono le canzoni di Cole Porter e di Henry Mancini, e lo sono ancora adesso, non c’è nessun motivo per cui non lo possano essere – nel jazz italiano – quelle di Gino Paoli o di Carlo Alberto Rossi. Ma nulla: eravamo assoggettati al fatto che l’unico esempio buono era quello americano. Ogni tentativo di articolare il jazz in maniera più specifica e locale andava considerato puerile e irrilevante. Dovremmo fare come i rapper…».

Prego? «La musica rap fino a due decenni fa non esisteva, in Italia, o era comunque irrilevante, confinata a una nicchia. Sbaglio?». Non sbagli. «Bene. Guarda oggi: è la forma d’espressione musicale dominante. Non voglio mettermi a parlare di qualità, perché se ci mettiamo a disquisire di qualità facciamo notte senza arrivare a nulla. Parlo invece di sistema. Evidentemente, negli ultimi due decenni l’ecosistema del rap in Italia è riuscito a dare vita a una dinamica che riesce a valorizzare e a dare piena dignità a quello che fa». In effetti se mi ci fai pensare quando prima citavi gli «squadroni punitivi» del jazz, va detto che c’erano tali e quali anche nel rap anni ’90, e oggi invece sono residuali, discretamente irrilevanti. «Vedi? Io capisco che il jazz è una musica un po’ più complessa, un po’ più difficile, ma come ti dicevo prima sono convinto possa essere una musica incredibilmente viva e attuale. È che mancano i personaggi, oltre all’ecosistema di cui si sta dicendo».

Tu a modo tuo lo sei, personaggio. «Diciamo che sono uno che è uscito dalla nicchia. E sono uno che non chiude mai le porte: perché mi piace sempre sbirciare quello che c’è oltre. Non stiamo parlando di qualità e di bravura, attenzione, non è quello il punto: perché se stessimo solo a quelle, allora bisognerebbe sottolineare come sia assurdo che un musicista come Franco D’Andrea – molti qui si chiederanno: e chi è? – non lo conosca nessuno al di fuori della cerchia di appassionati, anche se è un genio assoluto, uno che mi ha aperto mentalmente e come tecniche compositive come pochissimi altri musicisti al mondo. No, qui stiamo parlando di altro. Poi a me non dispiace la popolarità che ho: che è limitata, ma è sincera. Quando mi fermano per strada o mi fanno i complimenti ho la certezza che lo fanno perché mi conoscono e mi stimano come musicista, non perché mi hanno visto in televisione. Del resto io in televisione non andrei bene».

No? «Le poche volte che mi hanno chiamato mi hanno detto cose tipo “Mi raccomando, il suo intervento deve essere di due minuti e mezzo massimo”, al che io rispondo “Guardate che una sola nota, con la respirazione circolare, posso farvela durare 15 minuti: una sola nota, chiaro?”. Non ho tempi e modi televisivi, non vado bene, almeno non per un certo tipo di televisione. Ma di sicuro il jazz, per la musica meravigliosa che è, per la ricchezza che contiene, avrebbe bisogno più che mai di personaggi in grado di parlare al mainstream, di avere un appeal veloce, immediato, capace di catturare l’attenzione. Invece, se qualcuno anche solo prova a dirlo o a pensarlo, ecco che arriva subito la reazione: “Ma che sei matto?”. Così non si va da nessuna parte. Così si muore. E questo Miles, anche il Miles più controverso, forse soprattutto quello, lo aveva capito perfettamente».

It Never Entered My Mind (feat. Marco Bardoscia, Stefano Bagnoli, Dino Rubino)

C’è una cosa su cui non ti tiri indietro, e sei molto più attivo e molto più esposto di quasi tutti i tuoi colleghi, jazz e non solo jazz: l’impegno politico. Nel senso di andare a parlare e rompere le scatole alle istituzioni, o nel senso di continuare a convincere i tuoi colleghi che l’unica maniera possibile per essere visibili è unirsi, associarsi, fare fronte comune. Poi chiaro, hai anche una visione del mondo molto chiara e molto netta, e non lo nascondi, ma quella ce l’hanno un po’ tutti gli artisti bravi; tu invece ti sporchi le mani, fai battaglie coi ministeri, con la Siae, ti spendi per creare associazioni e federazioni tra musicisti, tra addetti al settore… Domanda: chi te lo fa fare? Ti conviene? Ne vale veramente la pena?

Qui, torna la risposta sibilante, gli occhi si fanno due fessure, lo sguardo ancora più penetrante: «Tutto quello che ritengo sia importante farlo, come principio, io continuerò a farlo. Al di là del fatto che ne valga la pena o meno». Una pausa. E poi: «Ad ora sembra non ne sia valsa la pena, vero. Non c’è una legge decente sullo spettacolo per la musica dal vivo. Le battaglie fatte durante il Covid sembra siano state tutte perfettamente inutili: perché ancora oggi non c’è nessuna forma di tutela verso un certo tipo di lavoratori. Ogni tanto si danno delle mance, quello sì, come quando suoni e ti mettono in bocca o in tasca la banconota, come si faceva nel jazz un secolo fa».

«Pensa al concetto di intermittenza: lo Stato italiano pensa di aver risolto il problema riconoscendo al musicista un contributo una tantum di 1000 euro. Questo significa proprio non rendersi conto delle cose, del ruolo della musica e dei musicisti. Col Covid molte persone hanno cambiato lavoro, molti musicisti sono diventati camerieri – con tutto il rispetto per il lavoro di cameriere, che è nobilissimo – e questo è una grande sconfitta per tutti, ogni lavoro perso per un artista è un colpo per il sistema culturale italiano. Vogliamo veramente diventare un Paese che vive solo per il turismo, per l’ospitalità? Accettiamo senza colpo ferire delle dinamiche per cui ha campo libero una monocultura turistica che disgrega tessuti sociali, svuota centri cittadini, distrugge professioni? Vogliamo veramente svenderci così? Stiamo dimenticando che la nostra storia e la nostra ricchezza, al di là della bellezza naturale dei luoghi, sono prima di tutto l’arte e la creatività».

«Se si ragionasse in modo sano, la prima cosa da fare sarebbe riconoscere il valore di chi l’arte la crea e la porta avanti. Invece non lo facciamo. Diamo per scontato che l’Italia sia quello che sia, senza nemmeno capire quali sono i motivi per cui i turisti stranieri amano così tanto venire da noi. Come quei sassofonisti che suonano come Michael Brecker, ma John Coltrane non l’hanno mai ascoltato in vita loro e a malapena lo hanno sentito nominare…».

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