Annunciato come «concerto libertario», quello di Morgan al Legend Club di Milano ieri sera può essere considerato più di una semplice ripartenza, almeno dal punto di vista artistico, a fronte delle vicende che lo hanno coinvolto negli ultimi mesi: dalla cacciata da X Factor alle accuse di stalking e diffamazione da parte di Angelica Schiatti, con il contratto stracciato dalla Warner per la presa di posizione di Calcutta, suo attuale compagno, oltre alla perdita di ogni occasione lavorativa (al momento è stato ammesso alla giustizia riparativa). Seguendo lo spirito al paradosso del protagonista, riapparso in pubblico il 2 novembre, “giorno dei morti”, ci si potrebbe spingere a definirla una resurrezione, se ciò non apparisse blasfemo. Marco Castoldi, però, ci ha abituato alle folgoranti salite e alle brucianti discese. In bilico fra santità e dannazione e fedele alla rielaborazione freudiana che «nell’incosciente non c’è negazione», anche stavolta ha giocato su tutto ciò che gli è accaduto, ma rielaborato in musica in un live intenso, disperato («noi siamo persone assurde, non dobbiamo sperare. Siamo disperati. È l’unico nostro tesoro»), dove ha spaziato dalla classica ai successi dei Bluvertigo, da brani del frastagliato repertorio solista a quelli che considera maestri, da Bowie a De André, da Bindi a Gaber, con un omaggio struggente al proprio padre artistico Battiato, e scegliendo coraggiosamente di dare spazio a giovani in apertura, con il cantautore Samuel Meroni con il polistrumentista Giacomo Gagliardini, tra applausi e mugugni.
Supportato da una band solida ed eclettica, composta da Lele Battista, Lino Gitto, Marco Carusino, Megahertz, Fortunato Saccà e Gianluca De Rubertis (per l’occasione ribattezzata sarcasticamente Morgan & The Problems), ha esordito valorizzando proprio loro: «Non volevo fare discorsi e non li farò. Siamo qui riuniti per celebrare, non la musica ma la virtù. O semplicemente l’umanità che manca totalmente là fuori. Qui no. Su questo palco ci sono persone dalle quali mi sento di essere rispettato. Che rispetto e non mi hanno mai tradito. Molti miei colleghi fanno musica, ma sono vuoti». E la voglia di lasciarsi alle spalle un periodo buio è testimoniata visivamente anche dal cambio di look, con il ritorno dei capelli al colore nero corvino, come agli esordi. Il suo vissuto, nel bene e nel male, è comunque qualcosa che non sembra voler dimenticare, ma analizzare con gli strumenti a disposizione di un musicista. Così l’intro l’ha riservata a quello che lo ha aiutato nei mesi lontano dalle scene, come l’adagio di Ravel: «Questo è il risultato del mio studio immersivo, iniziato il 10 luglio scorso come rimedio spirituale contro la disperazione dell’anima», aveva raccontato sui social. Ha poi proseguito in Contro me stesso, pezzo «con la sola scusa dell’autocoscienza» dove ammette: «Faccio di tutto per impedire il mio successo», ideale contraltare a Wild Is the Wind di Bowie, dove ricorda che «viene dal regno delle tenebre, per cantarla bisogna essere già morti». In vista della seconda parte del concerto, invece, ha avvisato: «Adesso parte la psichedelia. Il rock è morto. E i pavidi vadano pure a casa».
Effettivamente, reinterpretate in modo sperimentale, ha ripescato nei suoi dischi come solista, con la celebratissima Altrove cantata all’unisono con il pubblico, oppure The Baby, Aria, Me (da Canzoni dell’appartamento, 2003) e Amore assurdo e La cosa (Da A ad A, 2007). Ancora, in produzioni successive che hanno trovato una collocazione ondivaga, come em>Il senso delle cose, quest’ultima una sorta di autocritica senza sconti: «Ho perso l’amore dentro al cuore/la voce per cantare/la voglia di parlare/ho perso la funzione del Natale/Io ho perso il denaro in cose vuote/perso il lavoro da imbecille/e la voglia, la voglia di essere ribelle/io ho perso i progetti di vita/l’ordine alfabetico/memoria e spirito critico», dove però non tutto è ancora perduto grazie all’ispirazione: «Ho ho perso la forza nelle mani e non ancora il senno/perché ho l’istinto di creare/e vedo il senso del domani».
Non potevano mancare le canzoni del suo periodo d’oro con i Bluvertigo, come Cieli neri e Altre forme di vita, dove ha interagito con i presenti su una personale trasposizione in natura dei buoni e dei cattivi: «Le seppie siamo noi, i buoni. I granchi sono i cattivi, come i trapper che stanno sempre a combattere. C’è differenza tra seppie e granchi. Siccome gli uomini mi hanno deluso, negli ultimi tempi ho indagato gli animali». Oppure, come detto, ha omaggiato i grandi cantautori del passato che lo hanno influenzato: da Non arrossire (Gaber), Il nostro concerto (Bindi), Un giudice e Un ottico tratte dal suo disco del 2005 in cui ha rivisitato Non al denaro non all’amore nè al cielo di De Andrè. Particolarmente tormentato, tra i bis, Battiato (mi spezza il cuore), con il quale sentiva delle affinità elettive: «Molto diverso da tutti/E forse chissà per questo/Per questo mi ricorda me stesso/Mio padre». Fino al pezzo di denuncia Rutti, contro la discografia, dopo il quale la sua vita è stata travolta e non ha mancato di inserirci all’interno un messaggio subliminale: «Se questa musica per voi è magnifica/Per me è più bella se va in classifica//Tanto qui chi vuoi che se ne accorga/Se sono Motta o solamente Morgan». E si è chiesto in chiusura, retoricamente, perché un cantautore vada in cerca di tante sofferenze: «Molte canzoni fanno male. Perché le facciamo? Siamo sadici? No, perché se la canzone è più triste di noi possiamo sentirci meglio». La catarsi, per ora, si è compiuta di nuovo. Ma nel caleidoscopico e imprevedibile mondo di Morgan, come nella Canzona di Bacco, «di doman non c’è certezza».