È morto Quincy Jones. Il leggendario musicista e produttore aveva 91 anni.
La notizia è stata data dal suo publicist Arnold Robinson: Jones è mancato nella notte di domenica nella sua casa di bel Air circondato dai famigliari. «È una perdita incredibile», scrivono, «ma vogliamo celebrare la vita che ha fatto, sapendo che non ci sarà mai un altro come lui».
È verissimo. Jones è stato uno dei grandi della musica popolare del Novecento. Se nel pop è noto per la collaborazione con Michael Jackson, essendo l’uomo che ha prodotto il tris di album fondamentali formato da Off the Wall, Thriller e Bad, il suo nome è legato anzitutto al jazz, ma anche al soul, al funk, al rap. È stato un notevole arrangiatore, bandleader e autore di dischi a proprio nome prima di dedicarsi alle canzoni pop e alla scrittura di colonne sonore. Ed è stato anche un nome importante della discografia e dell’industria dell’intrattenimento americana. È stato un definitiva un gigante della musica senza confini.
Nasce nel 1933 nel South Side, il quartiere di Chicago dove negli anni ’50 fiorisce il blues elettrico, creatosi da una parte dalla diaspora dei musicisti di colore verso nord e dall’altra dall’elettrificazione della musica popolare. «Fino agli 11 anni» ha detto «volevo essere un ganster. È Chicago. Vuoi essere quello che vedi, e noi vedevamo quella roba». Raccontava di una rapina grazie alla quale ha scoperto la sua vera vocazione: «C’era un’armeria, ci infiliamo all’interno e apro anche tutte le stanze dei piani alti, della dirigenza. Ce n’è una con un piccolo pianoforte al centro e vado oltre. Ma qualcosa mi dice “Idiota, torna in quella stanza!”. Così torno indietro, accarezzo il piano e ogni singola goccia di sangue nel mio corpo mi dice “Questo è quello che farai per tutta la tua vita”. E mi ha salvato».
Dopo la separazione dei genitori (la madre aveva problemi di salute mentale), il padre trova lavoro nei cantieri navali del Puget Sound e la famiglia si trasferisce quindi nella zona di Seattle, dove Quincy Jones frequenta la Garfield High School, la scuola dove passerà anche Jimi Hendrix. Proprio a Seattle inizia la sua attività di musicista nella scena black. Ben presto con la sua musica contribuirà a superare ogni stereotipo razziale. A Seattle incontra un giovanissimo Ray Charles, che considera una fonte d’ispirazione per la perseveranza con la quale perseguiva i suoi obiettivi nonostante la cecità. «È merito suo se ho imparato ad apprezzare diversi stili di musica».
Il suo talento, e forse anche l’etica del lavoro ereditata dal padre, lo portano prima al rinomato Berklee College of Music di Boston e poi alla carriera di musicista professionista cominciata al fianco del grande jazzista Lionel Hampton quando ancora frequentava la scuola e proseguita con Dizzy Gillespie, in altre parole il meglio dell’epoca. Ha anche un lato colto. «Nessuno mi voleva per arrangiare un’orchestra di archi, quindi sono partito per Parigi per studiare con Nadia Boulanger, l’insegnante di Igor Stravinsky, e il mitico Leonard Bernstein». Entra anche nella discografia nel ruolo di music director dell’etichetta Barclays e poi di vice-presidente della Mercury, primo afroamericano a coprire quel ruolo, un incarico che gli serve anche a ripianare i debiti.
Negli anni ’60 alterna l’attività di bandleader (Soul Bossa Nova, che ha avuto un revival 35 anni dopo grazie a Austin Powers), arrangiatore per gente come Sarah Vaughan, Dinah Washington, Frank Sinatra, compositore di colonne sonore (lui, musicista nero, anche per film “bianchi”, non una cosa scontata all’epoca). Da una parte le canzoni di Lesley Gore, dall’altra la musica di Count Basie. È produttore di The Wiz, dall’adattamento cinematografico del Mago di Oz, dove recita Michael Jackson. E proprio l’incontro con Jackson gli regala la massima esposizione mediatica, soprattutto con Thriller, l’album più venduto di tutti i tempi, ma anche con Off the Wall e Bad: grandi auutori e musicisti, lo stato dell’arte degli studi di registrazione, nuova e vecchia scuola che si incontrano. E ancora una volta una musica che scavalca ogni stereotipo razziale.
In quanto produttore, diceva, «devi fare di tutto, dal babysitter allo psicologo. Devi prendere tante decisioni: se l’artista è stato attivo abbastanza per fargli prendere una pausa, se farlo riposare o continuare a spingere. È una relazione di fiducia, di affetto e di rispetto che deve instaurarsi tra due persone». Aveva un orecchio straordinario per le voci e sapeva abbinare come pochi altri brano e cantante. Faceva sembrare facili pezzi costruiti in modo ingegnoso.
Jones continua negli anni ’80 a produrre musica per sé, basti pensare all’album The Dude e al pezzo Ai no corrida, a scrivere per il cinema, vedi ad esempio Il colore viola, a impegnarsi in operazioni di beneficenza come la canzone all-star We Are the World. Sapendo di dover gestire tante star a volte bizzose, prima del loro arrivo appende alla porta dello studio un foglietto con la scritta “Check your ego at the door”. È una forza non sono musicale, ma anche nell’industria, con tutta una serie di attività della Qwest Entertainment che comprendono la produzione di serie televisive come Willy, il principe di Bel-Air. È tra le altre cose il fondatore della rivista Vibe.
Ha raccontato la sua storia nell’autobiografia del 2001 Q: The Autobiography of Quincy Jones e nel documentario su Netflix Quincy. Una delle sue ultime apparizioni è in A Tale by Quincy, un pezzo dell’album di The Weeknd Dawn FM. Ha ricevuto 88 nomination ai Grammy, vincendone 28.
«Mio padre» diceva la figlia Rachida Jones ai tempi del documentario che ha diretto con Alan Hicks «ha una curiosità insaziabile, non sa smettere di imparare, di raccogliere dati, di provare nuove esperienze… Si fermasse morirebbe. Ha dei sogni talmente grandi che per realizzarli gli servirebbero due vite. Ancora oggi, a 85 anni, papà scrive musica a mezzanotte, quando le sue muse sono sveglie e lo vanno a trovare e non finisce prima che spunti il sole».