Vogliamo sempre fa’ gli ammerigani (anche se forse da ora un po’ meno), e poi i critici americani si sciolgono davanti a una storia italianissima, radicatissima (non solo nel nostro Paese, ma pure nel rione), con diverse parti in dialetto napoletano (per cui quindi servono i sottotitoli), femminile e femminista nella sua ragion d’essere, complessa e stratificata come può essere complessa e stratificata soltanto un’amicizia al femminile (chi sa, sa). Cito così, giusto per dare un’idea: il New York Times definisce la quarta stagione dell’Amica geniale “uno dei migliori ritratti di una relazione lunga una vita intera mai realizzati per la tv”, Vulture ci fa i recap settimanali come accade solo per i grandi eventi televisivi (GoT e compagnia), Rolling US parla di “splendida rappresentazione dell’Italia di metà secolo” e precisa che “il suo vero successo risiede nell’intimità tra i suoi due personaggi principali”. Pure gli inglesi, maestri della serialità “alta”, gongolano: “L’amica geniale è uno dei migliori show della tv”, cit. BBC. Insomma, avete capito. Certo, la fonte è adorata oltre confine e soprattutto oltreoceano: sono tante le attrici che citano Elena Ferrante e la sua tetralogia nelle interviste, senza dimenticare l’ex first lady Michelle Obama.
Nella quarta stagione, le ragazzine che leggevano Piccole donne e sognavano di essere come Jo March (chi non) sono ormai quarantenni, sullo sfondo degli anni ’70, ’80 e oltre. E, nell’affresco del nostro Paese attraverso oltre sessant’anni, il privato continua più che mai a diventare anche profondamente politico: la paura delle piccole Lila e Lenù quando le loro bambole sono cadute nei sotterranei è la stessa che si specchia nelle adulte che attraversano gli anni di piombo, il rapimento Moro, il senso di violenza generalizzato, che nel rione diventa addirittura all’ordine del giorno. Ma c’è anche una crescente consapevolezza di sé (teorizzata o istintiva) come donne appunto, che si trasforma in rabbia contro il patriarcato e insieme speranza e risolutezza con il femminismo della seconda ondata.
Entrambe sono diventate, seppur in modi diversi, autrici della propria storia. Lenù anche letteralmente, tra saggi e romanzi acclamati: ha lasciato Pietro Airota per inseguire il successo, ma soprattutto l’ossessione di gioventù per Nino Sarratore. Lila invece è diventata imprenditrice di se stessa e di Enzo, ma soprattutto una specie di padrino locale, in guerra con i Solara, i bulli mafiosi che continuano a torturare chi vive nelle “loro” strade. Eppure restano eternamente quelle “bambine perdute” del titolo del quarto capitolo, perché puoi andare via dal rione, ma non potrai mai scrollarti davvero il rione di dosso. Donne e madri (“che per le loro figlie sono corpo informi”, brividi), quando si poteva essere soltanto l’una o l’altra cosa, con tutte le conseguenze e le contraddizioni del caso: “Come vi chiamate di cognome?”, chiede a un certo punto Guido Airota alle nipoti Dede ed Elsa. “Airota, come vostro nonno e vostro padre. E come si chiama vostra madre? Greco”. E ancora: “Come ci si può professare femministe e insieme decidere della propria vita e di quella delle proprie figlie in base alle necessità di un uomo?”, riflette Elena.
Donne, madri, ma soprattutto amiche in un patto di sorellanza che vale anche quando vorresti non averlo mai stretto: è come se Lila e Lenù non potessero sfuggire l’una dall’altra. E allora la regia di Laura Bispuri si concentra sui primi piani, sui moti dell’animo nei volti, instaurando una sorta di intimità feroce, come quella che lega le protagoniste, con tutti i personaggi. E il cast pare il grande cinema italiano riunito, a partire dal gigantesco Fabrizio Gifuni nei panni dell’odiatissimo Nino Sarratore, ma anche Stefano Dionisi (Franco Mari), Pier Giorgio Bellocchio (Pietro Airota), Daria Deflorian (Adele Airota), Lino Musella (Marcello Solara), Eduardo Scarpetta (Pasquale Peluso) ed Edoardo Pesce (Michele Solara). Menzione speciale per Sonia Bergamasco meravigliosamente radical chic as Mariarosa Airota.
La voce di Lenù adulta si sovrappone al volto di Alba Rohrwacher. Sì, è vero, nell’apparenza sembra aver meno a che fare con Margherita Mazzucco, ma di Lenù ci restituisce il core, quel senso di maternità tormentatissima (è una Figlia oscura che ce l’ha fatta), quell’inquietudine perenne, quell’essere disarmata di fronte a un amore totalizzante e tossico. Ed è come se in qualche modo, incanto del cinema (perché di questo stiamo parlando: cinema), tutto ritrovasse il suo posto. Sorprende poi la somiglianza di Irene Maiorino con Gaia Girace, e ugualmente impressiona la restituzione del fascino selvaggio, della sfuggevolezza e dell’irruenza di Lila. Se quella di Lenù continua ad essere una ribellione costante e determinata ma in qualche modo più quieta – lo dico: demure – bisogna riconoscerlo: non c’è brat più brat di Lila. Perdonaci Elena Ferrante, tocca stare nel nostro tempo.