Londra brucia, letteralmente, in Blitz di Steve McQueen (disponibile su Apple TV+, ndt): non avete avuto un secondo per riprendere fiato prima che questo film sulla Seconda guerra mondiale si apra con una catastrofe e il suono di un inferno vi riempia le orecchie. È il settembre del 1940 e le bombe cadono su Blighty con allarmante regolarità. I vigili del fuoco stanno cercando di contenere un incendio che sta divorando un edificio, quando un tubo scivola dalla presa di un uomo. Lo stordisce violentemente e inizia a spruzzare ovunque, agitandosi come un serpente. Nel frattempo, qualcuno sembra alzare lentamente il volume del mix sonoro, dando la sensazione di subire un assalto uditivo che rispecchia quello che avviene sullo schermo. Si passa a un’altra serie di bombardamenti, ma visti dal punto di vista degli armamenti che cadono. Il tutto si trasforma presto in una raffica di immagini statiche che sembrano rubate alla filmografia di Stan Brakhage. Il rumore continua a diventare sempre più forte… Poi: silenzio. Un campo di fiori. Tutto è passato dal caos assordante al silenzio assoluto.
McQueen si è fatto conoscere come visual artist prima di dedicarsi al cinema (ancora oggi realizza installazioni site-specific), e queste prime scene sospese tra il frastuono totale e una straniante tranquillità ricordano che le sue radici in quel mondo sono profonde. L’uso dello spazio, del tempo e di immagini inquietantemente belle e violente insieme hanno trasformato opere come Hunger (2008) e Shame (2011) in qualcosa di simile a dei colpi ben assestati; sono rimaste parti fondamentali della sua estetica cinematografica, tanto che anche quando lavora su adattamenti letterari come 12 anni schiavo (2013) c’è un senso di qualcosa di esperienziale che accade dentro e intorno alla narrazione. Ma solo perché i suoi film toccano un livello anche più alto e cerebrale non significa che non vi colpiscano anche allo stomaco.
È utile tenere a mente tutto questo quando si guarda Blitz, che – dopo quel prologo nervoso e alcuni intermezzi sulla vita in tempo di guerra – si assesta su solchi paralleli destinati alla fine a convergere. Un disclaimer iniziale ci dice che 1,25 milioni di londinesi furono evacuati durante i mesi di blitzkrieg della Germania contro la città, e circa la metà erano bambini. Uno di questi, George (Elliott Heffernan), di nove anni, viene mandato in campagna dalla madre Rita (Saoirse Ronan). Dopo un incidente che ha coinvolto una folla rimasta fuori dai cancelli bloccati della metropolitana, la donna vuole che il piccolo passi il resto della guerra in un ambiente più sicuro. Ma lui preferirebbe affrontare i bombardamenti insieme alla mamma e al nonno (Paul Weller, ex cantante dei Jam e degli Style Council) a casa.
Tuttavia, Rita mette il bambino su un treno diretto in campagna, insieme a decine di altri ragazzini. Lei, invece, torna ostinatamente al suo lavoro in una fabbrica di munizioni, facendo del suo meglio per mantenere la calma e andare avanti. Passa qualche ora di viaggio e George, dopo aver affrontato alcuni bulli e aver fatto amicizia con la ragazzina seduta di fronte a lui, raccoglie con calma le sue cose e si dirige verso una delle porte del treno. Quindi salta giù, toccando terra e puntando verso una Londra ancora incandescente in lontananza.
Passa un po’ di tempo prima che Rita scopra che George si è assentato. Ma anche prima di essere informata che non è mai arrivato a destinazione e di setacciare la città alla ricerca del figlio scomparso, Saoirse Ronan ci offre il ritratto di una madre che mette in dubbio ogni sua decisione, ancora in lutto per la perdita del padre di George e bloccata in una spirale esistenziale quando non cerca semplicemente di sopravvivere. L’attrice irlandese eccelle nei ruoli che richiedono una sorta di grazia messa sotto stress e, senza sorpresa, usa la resilienza e la fermezza di Rita come zavorra contro l’ansia interna e il caos che la circonda. Eppure, è lei la responsabile del lato materno-melodrammatico di Blitz, mentre Heffernan sostiene la parte avventurosa con protagonisti i bambini. È una storia di due sottogeneri, nessuno dei quali sembra essere servito adeguatamente. Si può capire perché coloro che considerano le opere passate di McQueen come radicali e formalmente rivoluzionarie abbiano etichettato questo come il suo film più convenzionale fino ad oggi, e dunque una delusione.
Liquidare però questo film come la versione del regista di un film di guerra patriottico e old school significa ignorare ciò che di molto più interessante sta accadendo proprio sotto il vostro naso. Basta tenere gli occhi aperti per scoprirlo. Dopo averci dato non solo una, ma due trame estremamente riconoscibili, McQueen procede a riempirle entrambe di dettagli, eventi e personaggi secondari. Alcuni cadono nel vuoto, come l’incontro in un centro di accoglienza che equipara il razzismo di oggi a quello tedesco: il fatto che sia basato su uno scontro reale non lo fa sembrare meno didascalico o corretto. Altri, come la banda di ladri dickensiani che accoglie brevemente George, sembrano essere presi direttamente da una produzione universitaria di Oliver Twist. Nemmeno Stephen Graham, che interpreta il criminal-in-chief mettendoci un quarto di Fagin e tre quarti di Bill Sikes, riesce a salvare queste sequenze.
Ma poi c’è la trionfale interpretazione dal vivo di Rita di una canzone intitolata Winter Coat (un brano originale composto per il film da McQueen e Nicholas Britell) per BBC Radio, che si conclude con l’assalto al palco da parte dei suoi compagni di lavoro che chiedono un maggiore accesso ai tunnel sotterranei durante gli attacchi. E George che passa davanti a negozi dove un murale con ritratti padroni e schiavi fa sembrare pittoresco il retaggio coloniale della nazione. E non uno ma due episodi di gentilezza che nascondono tradimenti, dimostrando che non ci si può fidare delle persone. E una strana e prolungata deviazione attraverso uno sciccoso nightclub pieno di jazzisti, che all’inizio sembra un inutile detour d’epoca, finché George non si ritrova ad attraversarlo dopo un’esplosione, e quello che era il simbolo della bella vita è ora una fossa comune – oltre che il luogo ideale per il tombarolo in cerca di piccoli tesori.
Queste vicende collaterali sulla via di una lacrimevole reunion tra madre e figlio sottolineano probabilmente il vero punto di forza del film: mentre la Gran Bretagna era sotto assedio, era anche una nazione in guerra con sé stessa. Rispetto all’agonia e all’estasi della straordinario film corale Small Axe, con cui McQueen celebrava la cultura della diaspora del Regno Unito costringendo il Paese a fare i conti con il suo passato istituzionalmente razzista, questo potrebbe sembrare un tè delle cinque. Eppure, la rottura del mito della solidarietà della Seconda guerra mondiale sul fronte interno è uno shock viscerale quasi quanto l’apertura fatta di fuoco e carneficina. Non è lo sturm und drang da sovraccarico sensoriale di Blitz a lasciare senza fiato: è il suo modo di attaccare, silenzioso e inaspettato.