I Post Nebbia sono una delle band della scena underground di cui si è parlato di più negli ultimi anni. Arrivato al quarto disco, il gruppo del padovano Carlo Corbellini, classe 1999, sta dando importanti segnali di maturità: a livello di sound, che nel nuovo Pista nera si allontana in parte dalle atmosfere dreamy dei suoi lavori precedenti, privilegiando un approccio più rude e spigoloso; a livello di coesione, perché questo album è nato, pensato e realizzato con l’obiettivo di essere valorizzato dal vivo; a livello di consapevolezza di sé stessi nel mondo, perché per il venticinquenne Corbellini, che pur aveva già dato dimostrazione di una certa propensione all’approfondimento e alla riflessione, sembra essere arrivato il momento della presa di coscienza rispetto alla possibilità o meno di nutrire speranze rispetto al mondo. In altre parole: la fine della giovinezza, che in quest’epoca balorda è un’esperienza abbastanza traumatica.
Li abbiamo raggiunti nel quartier generale padovano di Dischi Sotterranei, dove i Post Nebbia hanno registrato una live session con i brani del nuovo lavoro, e abbiamo parlato con Carlo Corbellini di Pista nera, del mondo e della vita.
Pista Nera sembra attraversato da un forte senso di pessimismo.
Credo sia un riflesso di come vedo il mondo in questo momento. Sento un pessimismo che pervade tutto e mi impedisce di essere sereno o di sentirmi a posto. Ho avuto momenti in cui stavo male dentro, ma fuori ero gasato, preso magari dall’entusiasmo dei concerti e dei progetti. Ora, invece, sto meglio dentro, ma quello che c’è fuori mi entusiasma poco. Non tanto per questioni musicali, ma perché il mio ideale di vita felice sembra legato a un’epoca che si è deteriorata, che non esiste più. Questo disco nasce da quel sentimento: è come se il mondo fosse un frutto marcio, con l’angolino buono sempre più piccolo. E c’è sempre più gente che cerca di arrivarci. Sembra di vivere in un’epoca in cui fottere gli altri è diventato l’unico modo per sopravvivere al calo delle risorse.
Hai detto che fare musica dal vivo ti fa sentire come in una gita alle rovine. Cosa intendi?
Parlo spesso con persone che hanno 20 o 30 anni più di me che mi raccontano di una scena musicale che non c’è più: club incredibili, un fermento che io ho solo intravisto. Ho vissuto la coda di quel periodo: abbastanza in tempo per capire cosa c’era, ma troppo tardi per goderne appieno. Ora sembra che tutto si stia restringendo. Se in un anno fai 20 date, l’anno dopo ne fai dieci, poi cinque, poi zero. La sensazione generale è che il mondo dietro alla musica live stia venendo meno, come se mancassero le fondamenta.
Questo senso di declino riguarda solo la musica o qualcosa di più ampio?
Il mondo si è deteriorato, ma non credo per un evento specifico. Parlo per chi ha la mia età: abbiamo vissuto le Torri gemelle, la crisi del 2008, il Covid, la fine dell’equilibrio di pace degli anni ’90. È un accumulo. Non è una consapevolezza che arriva di colpo, ma pian piano: ti accorgi che stai vivendo una discesa. Crescendo, perdi anche l’entusiasmo di quando eri più piccolo. Una metafora che mi colpisce è quella dello sciare sulla neve artificiale, che ritorna nel disco: l’uomo cerca di ricreare condizioni perdute in modi assurdi, come quando durante la siccità sulle mie montagne qualcuno aveva deciso di attingere dai bacini idrici di emergenza per poter sparare la neve sulle piste. Per me è un’immagine potente di come reagiamo al decadimento del benessere.
Hai parlato di una mancanza di prospettive. Questo influenza il tuo lavoro?
Sì, perché oggi fare piani sembra quasi un modo sicuro per andare incontro a una delusione. Penso che l’unico approccio sia questa sorta di romanticismo, quasi di titanismo, per cui fai qualcosa che funziona, la gente ti apprezza e tu senti di star combattendo la tua piccola guerra inutile. Essere una band alternativa in Italia è già di per sé una scelta strana, perché il mondo sembra andare in un’altra direzione.
A questo punto c’è chi ti direbbe di cercare la felicità nelle piccole cose quotidiane.
Io non penso che l’essere umano sia fatto per apprezzare le piccole cose. Serve un obiettivo per cui lottare, qualcosa di grande. Non mi basta alzarmi alle otto e mezza per andare al bar a bere il cappuccino e pensare che quelle siano le gioie della vita. Non ho mai creduto che la quotidianità potesse bastare. Nella storia dell’umanità è evidente: non costruiremmo chiese gigantesche o non moriremmo in guerra per qualcosa che riteniamo superiore se non desiderassimo più o meno consciamente essere grandi abbastanza da ingannare la morte attraverso questi stratagemmi che dovrebbero prolungare la nostra presenza oltre alla durata della nostra vita. In generale comunque penso che nella nostra epoca, per tutti questi motivi, sia difficile trovare un motivo valido per alzarsi dal letto, nonostante almeno in Occidente il benessere sia comunque ancora a livelli molto alti.
Neanche la musica, quindi, che pur continui a fare? Perché?
Diciamo che la musica mi permette di prendere qualcosa di enorme e caotico e inserirlo in un universo dove tutto ha senso. È un po’ come fare modellismo: il mondo è devastante, pieno di vuoti e merda, ma l’arte e la creatività ti danno un modo per resistere attraverso la costruzione di qualcosa di sensato.
Parliamo di stile. L’ironia, rispetto ai dischi precedenti, sembra sempre meno presente. È una scelta?
Sì. Nei dischi che mi piacciono vedo che ci si sta allontanando da questa modalità di trattare le cose. Penso a Geordie Greep: in molte interviste ha detto che, se avesse fatto la sua musica in modo distaccato e cool, non avrebbe avuto senso. L’ironia è molto generazionale. I millennial e la generazione Z sono vittime di un’epidemia di sarcasmo che a lungo andare impedisce di esprimere emozioni vere: mi piacerebbe andare oltre e penso sia importante farlo.
Come sei arrivato alla musica?
Ho avuto la fortuna di avere genitori appassionati e un fratello maggiore che mi ha passato un po’ di musica. Da piccolo, vedevo il figlio di un amico di famiglia che aveva una band e faceva assoli. Mi è venuto naturale. Non ho mai avuto dubbi: era la mia strada.
Oggi senti di far parte di una scena musicale?
Più che una scena, direi che esiste una rete. È sparsa in diverse città, ma è qualcosa di cui mi sento parte. Questo è importante, perché in generale nella musica è sempre più in voga l’approccio americano del man on a mission che sinceramente non mi appartiene. Io mi sento dentro una comunità, dove le persone si influenzano a vicenda, e mi fa molto piacere sentirmi così.
Il disco ha un suono più diretto rispetto a Entropia Padrepio. Come mai?
Ho voluto un disco pensato per il live, in modo tale che il live fosse parte integrante del processo e non un problema da risolvere in un secondo momento. Scrivere tenendo conto della resa sul palco cambia tutto: abbiamo lavorato in modo collaborativo fin da subito, portando avanti studio e sala prove in parallelo.
Da quando avete iniziato siete sempre stati associati alla provincia. Ti sta stretta questa cosa?
No, mi rendo conto che gli artisti siano innanzitutto dei filtri, e non delle sorgenti: il contesto che hanno attorno o nel quale crescono è molto più grande di loro, quindi penso sia inevitabile che nella nostra musica ci sia un po’ di desolazione padana.