Noemi, lasciatemi guizzare | Rolling Stone Italia
Non ho bisogno di te

Noemi, lasciatemi guizzare

Come nel finale del corto che scrisse in seconda elementare. La laurea in cinema, la musica «per far capire chi sono e parlare agli altri», l'incontro con Nanni Moretti davanti a una Sacher, l'attivismo senza retorica, il debutto da attrice in 'Adorazione' (ora su Netflix) e la raccomandazione alle amiche: «Non mi dite che sono una cagna maledetta»

Noemi, lasciatemi guizzare

Noemi è Diletta in 'Adorazione'

Foto: Camilla Cattabriga/Netflix

A vent’anni entrava per la prima volta nella facoltà di cinema di Roma Tre: felpone grigio, passione per la musica, i manga e i videoclip, e praticamente zero amici. Qualche tempo dopo si laureava con una tesi che già la diceva lunga: «Il titolo era Un corpo per Roger Rabbit. Partivo dalla smaterializzazione del corpo dell’attore nel cinema postmoderno e finivo con un pippone sulla società». Proprio tra i cinefili trovava gli amici di una vita, ai quali un giorno avrebbe mandato il messaggio del gol: «Ho Nanni Moretti con una Sacher Torte davanti», mentre Sono solo parole finiva in una scena cult del Sol dell’avvenire. Oggi, al suo debutto da attrice su Netflix nella serie Adorazione di Stefano Mordini ispirata al romanzo di Alice Urciuolo, ha già avvisato tutti: «Non mi dite che sono una cagna maledetta».

Con lei, come da aspettative, pochi fronzoli e molto buonumore. Ci piacciamo subito per campanilismo: «Sento già un accento romano», mi dice al ‘ciao’. «Senti bene», e giù di convenevoli sul Giubileo, sull’amore per una città che è un cantiere a cielo aperto e su questo tipico, instancabile ottimismo romano. Parla di Stefano Mordini come chi di cinema ne capisce, e analizza il suo ruolo nella serie con una sana consapevolezza: perché qui Noemi non è certo la protagonista della storia, ma porta a casa il personaggio con grande dignità e con lo stesso rispetto che riserva alla musica. Passando per Gondry, Boris e Fibra, racconta l’esperienza di attivismo senza retorica (nel suo ultimo tour ha usato la voce come megafono del lavoro di Una Nessuna Centomila e di molti centri antiviolenza). E se a un certo punto sbuca il nome di Carlo, è una questione di amicizia e di makumbe estive che a Roma non vanno neanche spiegate… Non a caso, prima di accettare il ruolo in Adorazione, Cristina Comencini le ha dato grandi consigli ma è stato Brave a benedirla: «Tu la parte della stronza la fai a occhi chiusi».

Adorazione | Trailer Ufficiale | Netflix Italia

Questo debutto da attrice ti agita, oppure ormai sei abituata a tutto?
Mi agita, hai voglia! Spero di aver fatto bene questa cosa. L’ho scelta con cura, sono partita dal regista, mi piacevano il soggetto e l’atmosfera a Sabaudia. Ma ho già chiamato tutte le mie amiche e mi sono raccomandata: «Non mi dite che sono una cagna maledetta». Sai, Boris

Quella sarebbe comunque una medaglia al merito. Da laureata in cinema, che esperienza è stata? Un sogno o una parentesi?
In realtà se non avessi fatto musica mi sarebbe piaciuto molto lavorare nel cinema, magari come sceneggiatrice. Ero una di quelle ragazzine che si registravano i video musicali di Michel Gondry, e credo che quello tra musica e cinema sia un vaso comunicante incredibile.

Mordini è stato determinante in questa tua scelta.
Sì, perché sono una grande fan di Stefano Mordini, ricordo anche quando uscì Provincia meccanica. Mi piace il suo modo di raccontare, come utilizza il primo piano e come gestisce i personaggi nelle scene corali. È uno che capisce il chiaroscuro della vita e che mette le mani nel torbido con molta eleganza.

Perché ha pensato proprio a te per il personaggio di Diletta?
Mi è piaciuto scoprire che la scelta partiva dalla musica, dalla mia voce «jazz e blues», come la definisce lui, e dalla performance di (You Make Me Feel Like) A Natural Woman che avevo portato a Sanremo. In effetti io sul palco sono molto Diletta, perché nessuno mi può dire quello che devo fare. Poi nella vita di tutti i giorni ognuno ha le sue fragilità.

Sei stata subito sicura di poterlo e doverlo fare?
All’inizio ho avuto un po’ d’ansia. Visto che ho fatto parte della giuria del Taormina Film Festival, ho chiamato Cristina Comencini per chiederle un punto di vista e lei mi ha dato un grande consiglio: «Per quanto possa essere un ruolo di contorno rispetto alle dinamiche dei ragazzi, è importante che il tuo personaggio abbia un’evoluzione». E io credo che Diletta ce l’abbia, no? Gliel’ho raccontato pure a Carlo: «Che dici, la faccio ’sta cosa?». Lui mi ha detto: «Da paura! Tu la parte della stronza la fai a occhi chiusi».

Noemi è Diletta in ‘Adorazione’. Foto: Camilla Cattabriga/Netflix

Hai iniziato a studiare musica da giovanissima ma hai scelto una facoltà di cinema. Com’eri durante gli anni dell’università? Gli studenti cinefili sono una fauna pittoresca…
Mi ricordo il primo giorno di università, mi sono presentata con questa felpona grigia anni Novanta con Titti disegnata sopra. Ero super nerd, malata di fumetti, manga, film, video musicali. E senza amici, ovviamente. Però al DAMS ho trovato gente come me, le amiche storiche che mi hanno aiutato ad entrare in confidenza con me stessa e con il mio corpo. L’università è stato il primo posto in cui ho sentito di poter capire chi fossi davvero, tra persone che apprezzavano anche questa mia grande passione per la musica. Loro vedevano in me più qualità di quante ne vedessi io, e me le hanno fatte scoprire.

Dalla ventenne nerd e cinefila, alla cantante affermata con un suo brano nell’ultimo film di Nanni Moretti. Quella scena quasi compete con Battiato in Palombella Rossa
Infatti sono così emozionata che forse è meglio se non capisco cos’è successo davvero, sennò me sento male. Vedere come inizia quella scena, con Nanni che dice: “Adesso mi devo caricare” e mette Sono solo parole, mentre poi iniziano a cantarla tutti insieme. E il modo in cui Nanni la canta… Per me era un mito, quindi incontrarlo mi faceva un po’ paura, come quando ho lavorato con Vasco. Ma i migliori sono sempre i più tranquilli, è difficile che ti deludano.

Lo hai raccontato agli amici dell’università?
Certo. Succede che mi invita per mostrarmi come aveva montato la canzone nel film. Ci vediamo al Vert, un caffè in zona da lui. Arriva con la vespetta bianca e ordina una Sacher. Mando un messaggio nella chat di gruppo dell’università: «Non avete capito, ho Nanni Moretti con una Sacher Torte davanti. Che faccio, gliela chiedo una foto?». E i miei amici: «Assolutamente no. Se gli chiedi la foto ti toglie dal film».

Fabri Fibra ha curato la supervisione musicale di Adorazione, firmando anche il brano originale della serie. In soundtrack ci sono Madame con un inedito e molti tuoi colleghi. Cosa ti è piaciuto del suo lavoro?
Io sono una grandissima fan di Fibra dai tempi di Mr. Simpatia, per me è il king del rap per consciousness, per flow, per arguzia. Il fatto che si sia buttato a capofitto in questo progetto e in maniera così forte da portare tutta una serie di canzoni che descrivono i personaggi, dimostra quanto abbia voluto raccontare questa storia musicalmente, senza limitarsi a scrivere una canzone. Credo sia diventato un vero compagno di viaggio per Stefano, non ci poteva essere nessuno migliore di lui.

L’idea di inserire un tuo brano in soundtrack c’è mai stata?
A un certo punto l’ho detto a Stefano, invece lui mi ha risposto una cosa molto fica: «No, tu sei qui per fare l’attrice. Se subentra anche “Noemi la cantante” ti brucia il personaggio». Mi è piaciuto, è stato un ragionamento vincente e mi ha trattato proprio come un’attrice, anche perché il personaggio di Diletta non ha niente a che fare con Noemi.

Con le altre “adult” della serie sei in ottima compagnia: Ilenia Pastorelli, Claudia Potenza, Barbara Chichiarelli, Francesca Antonelli. È stato strano imbucarsi in questo campionato?
In realtà la loro presenza mi dava ancor più la sensazione di partecipare a un progetto di qualità. Sono tutte grandi attrici con una forte identità, sono tutte soddisfatte di loro stesse e quindi molto generose. Si parla tanto di sorellanza, e credo che qui ci sia stata davvero. Per quanto mi riguarda, quando lavori con dei professionisti non puoi far altro che metterti in modalità spugna.

Foto: Camilla Cattabriga/Netflix

Il set è tutt’altro che un palco. Ti ha sorpreso?
Il viaggio che ti fa fare il set è completamente diverso da quello della musica, perché quando sei sul palco a contatto con il pubblico, in qualche modo voli via. Ma sul set devi mantenere sempre una forte consapevolezza, devi essere costante nell’essere in scena, non puoi fare come nella musica che prendi, parti e te ne vai altrove. E io mi sono accorta che nella vita fuggo un po’, quando abbraccio gli altri o quando li guardo negli occhi. Me lo ha fatto notare Stefano mentre lavoravo su Diletta. È terapeutico, il cinema.

Dopo aver affrontato il massacro del Circeo con La scuola cattolica, Mordini è tornato a parlare di femminicidio dicendo che sente l’urgenza di trattare questo tema. Tu sei parte attiva di Una Nessuna Centomila: quando hai capito di voler fare qualcosa in più?
Da sempre credo che la musica debba agire anche da faro: dove ci sono zone d’ombra, deve illuminare e smontare dinamiche che non funzionano. Il momento in cui però ho sentito di fare davvero la differenza, è stato quando ho incontrato per la prima volta Fiorella Mannoia alla Casa delle Donne, insieme ad Anna Foglietta e alle altre di Una Nessuna Centomila. Non ero mai stata in un centro antiviolenza e i telegiornali non lo raccontano, ma lì ci sono anche molte storie di rinascita. Pensare che ci sia qualcuna che ce l’ha fatta, e sentire qualcun altra che te lo racconta, fa davvero la differenza. Quest’anno per ogni tappa del tour ho incontrato le donne del centro antiviolenza di riferimento della città, e all’interno dello show, quando cantavo L’amore si odia, riservavo sempre uno spazio a Una Nessuna Centomila e al 1522 (Numero Anti Violenza e Stalking, nda). Tu stai facendo un concerto e magari in quel teatro c’è qualcuna che ha bisogno di una mano. Il palco non è un piedistallo. Il palco qui si abbassa, perché è un incredibile megafono e può raggiungere anche l’ultimo della fila.

Come donna ti sei mai trovata in pericolo?
Io sono stata rapinata con la pistola. Avevo accompagnato a casa un’amica dell’università, eravamo andate a vedere 21 grammi di Iñárritu. Poi questa persona mi ha puntato la pistola e mi ha fatto fermare la macchina. C’era altra gente, ma sono scappati tutti. Ce l’ho fatta perché sono stata fortunata, sono riuscita a scappare, ho citofonato e la mia amica mi ha aperto. Ma la cosa brutta è stata la solitudine, e secondo me chi subisce una violenza si sente solo, senza via d’uscita. A volte basta che qualcuno risponda e apra la porta.

In Adorazione Urciuolo e Mordini tracciano il profilo di una vittima di femminicidio che disturba il classico storytelling dei media e della società. Elena è il prototipo della ragazza che “se l’è cercata”.
La scusa che si dà la società è sempre che “se l’è cercata”. Come se questo essere forti giustificasse un finale tragico, perché in qualche modo la devi pagare. E sono d’accordo, è bello che ci sia una protagonista di questo tipo, perché Elena fa sempre come cazzo vuole.

Invece il personaggio di Diana – tua figlia nella serie – segue un percorso di accettazione del proprio corpo che curiosamente ricorda il tuo.
Ci ho pensato, e infatti mi sembra assurdo che nella serie il mio personaggio sia una bella donna, sempre truccata e in forma. Invece io ho faticato molto ed empatizzo con Diana, perché sono stata una teenager che girava in spiaggia con la magliettona bianca e si vergognava di stare in costume. Lei vuole coprirsi questa macchia sul corpo e io volevo coprire i miei fianchi e le mie gambe. Poi anche a me è successo di voler tornare in forma, di voler essere più sana, ma è sempre un percorso dell’anima.

Foto: Camilla Cattabriga/Netflix

E si sente molto nella tua musica, da Vuoto a perdere a Non ho bisogno di te, forse un brano che dieci anni fa non avresti mai concepito.
È vero, perché la musica cambia insieme alle persone e, per onestà, deve seguire la tua evoluzione umana. Ad esempio oggi grazie al rap, all’hip hop culture e al pop ci sono dei giovani producer che fanno un sound bellissimo, e mi piacerebbe inserirlo all’interno di un nuovo album. Ricordo quando ho iniziato a cantare: avevo tredici anni, ero in un ristorante con il piano bar, ed è stata la prima volta che qualcuno si è fermato ad ascoltarmi. Si fermavano perché cantavo, invece con la mia insicurezza non è che la gente mi cagasse molto. Fondamentalmente la musica mi serve a far capire chi sono e a parlare agli altri, quindi non può prescindere dalla mia evoluzione personale.

Sul palco nessuno può dirti quello che devi fare, ma è stato sempre così?
Quando ero piccola ero molto cazzuta, più di quanto lo sia adesso. Briciole, il mio primo brano uscita da X Factor, era un pezzo blues. C’è stato un momento in cui la discografica quasi mi stava chiedendo di cambiarlo, e invece io – avercela oggi, ’sta forza – ho risposto qualcosa tipo: «Il singolo non lo cambio. Il pezzo che mi racconta è questo. Se volete uscire con un’altra canzone, scegliete un’altra cantante». Quando cresci perdi un po’ quell’attitudine, diventi più diplomatica perché ti rendi conto che hai tanto da perdere. Però quella cazzimma, a intervalli regolari, va tirata fuori. Non bisogna mai dimenticarsi chi siamo, e invece il mondo delle volte fa di tutto per farcelo dimenticare.

E pensare che sei partita con le sceneggiature dei cortometraggi. Dimmi cosa scrivevi e ti dirò chi sei…
Mi ricordo la prima cosa che ho scritto in assoluto: seconda elementare, doposcuola. Invece di fare i compiti mi ero messa a scrivere una poesia sul fatto che mi sentivo una trota. Il finale era: “Lasciatemi guizzare”.

Non ho bisogno di te ante litteram.
(Ride, ci salutiamo e poi scappa a lezione di canto. Lei. D’altronde una nerd è per sempre).

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