Marilyn Manson, la recensione di ‘One Assassination Under God – Chapter 1’ | Rolling Stone Italia
“Ora Dio mi annienterà”

Marilyn Manson ha rimesso la vecchia maschera grottesca

‘One Assassination Under God – Chapter 1’ è il primo album dopo le gravissime accuse che gli sono state rivolte. Ora che è considerato un mostro nella vita reale e non solo nella finzione scenica, il rocker più odiato sulla Terra torna al passato

Marilyn Manson ha rimesso la vecchia maschera grottesca

Marilyn Manson

Foto: Perou

Avete presente la frase «oggi la vera trasgressione è non avere tatuaggi»? Ecco, l’ho sempre trovata ridicola, ma mi serve per spiegare quello che ho cercato nel Marilyn Manson prima delle gravissime accuse che gli sono state rivolte: un artista capace di togliere finalmente una maschera che fino a un certo punto aveva funzionato alla grande e di mostrarsi finalmente per quello che era diventato. O magari era sempre stato.

Volevo vedere l’evoluzione, insomma, e non la reiterazione talvolta grottesca di una formula ormai abusata. Proprio per questo non ho mai gridato alla scandalo ogni qual volta i suoi album si distanziavano dal sound che l’aveva reso celebre. Certo, non tutto gli riusciva benissimo, ma anche nei dischi bistrattati dai vecchi fan vedevo comunque un tentativo (difficilissimo, ne sono cosciente) di uscire dalla comfort zone e mostrarsi diverso. Forse semplicemente di togliersi di dosso il vestito dell’orco nel quale aveva sguazzato coscientemente dagli esordi fino almeno ad Holy Wood (In the Shadow of the Valley of Death).

Poi, all’inizio degli anni ’10, ecco un filotto di dischi finalmente a fuoco. The Pale Emperor, Heaven Upside Down e We Are Chaos consegnavano un artista forse non in pace col mondo, ma quantomeno con il suo sé. Un Manson a tratti quasi blues, che non dimenticava di essere il vecchio Reverendo, ma che, anche esteticamente, si nascondeva di meno dietro a un personaggio. Poco trucco un po’ sbavato e via. Chiaro che dal vivo la Bibbia bruciata non poteva mancare, ma forse quello era il Manson più vicino all’uomo che avessimo mai visto. Sobrio forse è esagerato, ma di certo meno mostruoso. Meno grottesco.

La cosa mi era parsa più chiara che mai all’uscita di We Are Chaos: i testi erano rimasti intelligenti e, musicalmente parlando, non era tornato a crogiolarsi nel vecchio industrial. Aveva rischiato di rimanere per sempre una macchietta e non era successo. Ancora inquietante, paradossalmente senza trucco anche di più, ma infinitamente più tragico. Fino alle accuse di Evan Rachel Wood (giunte pochi mesi dopo l’uscita di We Are Chaos) e alla fogna che è stata scoperchiata. Da lì in poi il nulla. Manson, che aveva giocato una vita a fare della mostruosità arte, restando in perenne bilico tra realtà e finzione, era diventato mostro vero. Da true crime.

Dopo le accuse dell’ex compagna ne sono arrivate decine di altre, in un crescendo di racconti aberranti sulle abitudini del signor Warner: stanze delle torture, violenze di ogni tipo, tratta di esseri umani. Tutto ulteriormente imbruttito da inquietanti elementi che rimandavano a marcate simpatie naziste (peraltro già venute fuori con regolarità negli anni precedenti). Troppo persino per uno che nella propria biografia si era descritto come una specie di maniaco della depravazione, seguace degli insegnamenti di Anton LaVey, accusato di essere stato il mandante morale della strage di Columbine. Uno le cui esibizioni, ai tempi d’oro, era spesso accompagnate dalle proteste degli attivisti cattolici. Insomma, gli elementi per decretarne la fine c’erano tutti, soprattutto perché il caso era scoppiato quando ormai la rilevanza pubblica e artistica di Manson era comunque ridotta ai minimi termini e anche le vendite dei suoi album non erano più rilevanti.

Negli anni successivi, per i pochi con cui potevo parlarne senza paura di passare per uno che sosteneva un criminale, il verdetto era pressoché unanime: vedrai che alla fine lo troveranno morto in un motel di L.A. Dopo un periodo di silenzio assoluto (con un’unica comparsata super pacchiana insieme a Kanye West), mentre si aspettano i processi e una delle accusatrici, Ashley Morgan Smithline, ha ritrattato dicendo di avere «ceduto alle pressioni affinché muovessi accuse infondate di stupro e aggressione» (secondo l’avvocato del cantante, non avrebbe ricevuto alcun compenso per farlo), Manson ha trovato una casa discografica disposta a correre il rischio di ingaggiarlo, la Nuclear Blast, e con una tempistica perfetta, visto che il mondo oggi è focalizzato sull’affaire Diddy, è tornato con One Assassination Under God – Chapter 1. Ripulito, asciutto come nel ’98, risorto. E incazzato.

Chi si aspettava riferimenti precisi agli ultimi eventi forse rimarrà deluso. D’altra parte, conoscendo anche sommariamente il suo percorso, era altamente improbabile che Manson mettesse in piazza questa storia. Eppure, nel presentare One Assassination Under God, Marilyn ha detto che si tratta del primo capitolo di una saga in cui racconta la propria biografia. Considerando il carattere criptico dei testi, è spesso difficile capire davvero a chi si rivolge, tuttavia è abbastanza chiaro che il protagonista di tutti i brani è lui. E che si sente sostanzialmente più vittima che carnefice. La vittima dell’omicidio del titolo, che l’autore tiene in particolar modo a specificare che non è un sacrificio, pare chiaramente Warner, accoltellato come Giulio Cesare da un traditore prima fidato.

Quello che i primi tre singoli avevano messo chiaramente in luce è che non vi è una netta continuità col passato recente: i toni sono tornati claustrofobici, il sound si è appesantito e tutto è pervaso da un senso di estrema cupezza. Sono quasi assenti i passaggi in cui Manson sembrava mostrare non proprio felicità, ma quantomeno equilibrio. Tanto che non è facile comprendere se certi pezzi (Death Is Not a Costume, As Sick as the Secrets Within, Sacrilegious) raccontino il suo stato mentale attuale o se scriverli sia servito ad esorcizzare tutto ciò che si è trovato a vivere. Quel che è certo è che si tratta di un deciso ritorno al passato. Forse perché in un momento così delicato Manson ha preferito rifugiarsi nelle proprie certezze, abbandonando la fase più matura mostrata tra il 2014 e il 2020.

Il risultato, tuttavia, non è uno scimmiottamento, né un’involuzione. Qualcosa di concettualmente simile al recente ritorno discografico degli Smashing Pumpkins: sicuramente nostalgico, forse autoreferenziale, ma credibilissimo. Manson non si limita a recuperare dei cliché, ma riattualizza il sound che l’ha visto protagonista indiscusso della seconda metà dei ’90, mischiando metal (più che industrial), glam e talvolta new wave. A volte, come nella title track, sembra di ascoltare una specie di mostro a tre teste: quelle di Dave Gahan, Ozzy Osbourne e Simon Le Bon.

Se la perla più preziosa di We Are Chaos era la conclusiva Broken Needle, la nuova Sacrifice of the Mass ci si avvicina molto. Una lugubre ballata di oltre sei minuti che, con le dovute proporzioni, avrebbe potuto tranquillamente trovare spazio su Mechanical Animals e dove le note autobiografiche sono evidenti: “Non ho mai imparato ad amare / Quelle droghe non erano fatte per guarire / Ho dato solo per il gusto di prendere / Ora Dio mi annienterà”. Con buona pace di chi, come me, aveva avuto la presunzione di credere di aver compreso chi era l’uomo dietro alla maschera.

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