Quello che sale deve anche scendere, diceva Isaac Newton. Capita anche nella musica: gli artisti più popolari sono in grado di mettere in fila una serie di dischi ispirati raggiungendo lo zenit creativo (e a volte anche commerciale) salvo poi capitolare puntualmente trovandosi nelle secche. A quel punto c’è chi si rimette in piedi da vero artista e chi continua con mestiere usando formule collaudate.
In questo articolo analizzeremo alcuni LP di storiche popstar italiane che hanno rappresentato un momento di stallo. Ovvio, c’è sempre qualcosa di interessante in questi dischi, ma la bontà di un’opera la si vede nel complesso e a volte la delusione è dietro l’angolo. A voi 10 dischi italiani deludenti, quindi: per non dimenticare che nessuno è perfetto.
1983
Lucio Dalla
1983Immaginate un cantante di successo che in Italia inanella dal ’77 all’81 una serie di album accolti clamorosamente da pubblico e critica. Il soggetto in questione è Lucio Dalla che riesce, durante il periodo d’oro, a sbancare le classifiche e nello stesso tempo a risultare uno dei più credibili autori di sempre, riconoscimento ottenuto dopo anni di indefesso lavoro (gli esordi discografici sono del 1966, tanto per chiarirci), sembrando agli occhi degli appassionati quasi invincibile. Ecco, ora invece immaginate quello stesso cantante che nel 1983 dà una spallata al suo mito: 1983, che già dal titolo non sembra molto ispirato, è nato mentre Dalla aveva la testa altrove per motivi contrattuali ed era consapevole di dover cambiare rotta, pur essendo insicuro sul da farsi. Cerca di mettere insieme i vecchi standard collaudati e vincenti, oramai largamente popolari, con una visione più “Dallacentrica”, in cui l’autore dialoga con se stesso e non con il pubblico, che viene quasi ignorato. Gli Stadio sono ancora presenti come backing band, ma la loro forza propulsiva viene ridimensionata con arrangiamenti più scarni e nello stesso tempo armonicamente più forzati, onde mascherare il fatto che si punta alla semplicità assoluta, quasi a una evaporazione del formato canzone della cui appunto reiterazione Dalla comincia ad avere paura. Il fatto che in alcuni pezzi ci sia Mauro Malavasi, il re della Italo disco, indica che Dalla vuole ancora una volta velocizzare, sintetizzare il suo messaggio, trasformarsi in una scatola di Simmenthal musicale. Alterna guizzi di ispirazione a momenti di assoluto vuoto, che rappresentano comunque il tentativo di arrivare là dove arriverà il successivo Viaggi organizzati, che cementerà l’intesa con Malavasi verso un sound proto hyperpop che ha finalmente le idee chiare sul futuro anticipando la vapor. 1983 è un disco di passaggio che ha successo, ma scontenta la critica e mette Dalla a fare i conti col suo stesso talento. Ci sono comunque un instant classic come la title track, incredibile e deragliata sintesi della storia d’Italia. Nell’approccio non si distanzia molto dalla produzione di Dalla post Bugie se non fosse che in quel caso Lucio riesce a calibrare meglio l’ispirazione facendo leva proprio sull’ostentazione della sua assenza, da vero fuoriclasse. D’altronde in 1983 si dà da solo dello Stronzo: qualcosa vorrà pur dire…
Malafemmina
Gianna Nannini
1988Gianna Nannini come tutti sappiamo è arrivata all’apice della popolarità con Fotoromanza, che le ha cambiato la vita. Il relativo album Puzzle arriva come una lucente ricompensa dopo un periodo buio della cantante, vittima di deliri schizoidi dovuti ad habits particolarmente “turbolente”. Sempre affiancata dal fido amico/mentore Conny Plank (ovvero la storia del Krautrock), Nannini consolida il successo con Profumo del 1986, anticipando quel latin rock che i Litfiba saccheggeranno nel periodo post Maroccolo. Il successivo Malafemmina nasce dopo la morte del geniale Plank. Per rimettersi in pista Nannini aspetta l’88, ma il risultato desta molte perplessità. Malafemmina infatti contiene poche idee ma confuse, con brani che addirittura riprendono spudoratamente Billy Idol (vedi Time Lover e Dancing with Myself), traiettorie sensual andanti che sfiorano il già sentito (Luna dell’est) e brani che sembrano scarti come Aiuto. Si salvano solo il 45 giri Hey bionda, una convincente tarantella elettrorock contro le donne militari, Voglio fare l’amore, che nella versione sull’album è impreziosita dalla chitarra di Dave Stewart degli Eurythmics e da una batteria elettronica in odor di Ll Cool J. Se dal punto di vista delle canzoni la Nannini perde colpi, dal punto di vista della produzione sceglie al contrario – con incredibile acume – un futuro pezzo grosso, ovvero Alan Moulder. Il quale (produttore di Jesus and Mary Chain e al lavoro tra gli altri con Nine Inch Nails e Smashing Pumpkins) dà un eccellente sound al tutto, facendo la differenza. Malafemmina annuncia un calo fisiologico della Gianna nazionale che dopo questo disco continuerà a puntare sui grandi produttori e ingegneri del suono mastodontici (vedi David M. Allen), ma a livello compositivo non andrà molto lontano.
Il paese dei balocchi
Edoardo Bennato
1992La fine degli anni ’80 per Bennato rappresenta una rinascita soprattutto commerciale: dopo lo sperimentale Kaiwanna che nel 1985 si aliena pubblico e critica, ma che rimane un episodio coraggioso e senza compromessi, arriva la quadra con Ok Italia, nato nel 1987 in un passaggio di casa discografica tra Ricordi e Virgin, che di Kaiwanna riprende certi fumi industrial rock semplificando la formula e rendendola digeribile al grande pubblico. Il risultato sarà un disco di enorme successo che però impallerà Bennato, costretto dalla Virgin a bissare. Abbi dubbi farà sorgere non pochi dubbi, appunto, visto che il singolo Viva la mamma, coi suoi sentori anni ’50, sembra un passo falso incredibile e imbarazzante: si salvano la title track e un paio di episodi, ma nel complesso sembra che Bennato sia agli albori di una grossa crisi. Ma ecco che nel 1992 cambia identità, si mette parrucca e barba finta e a nome Joe Sarnataro fa uscire un disco blues clamoroso accompagnato dai Blue Stuff. Nello stesso anno fa uscire Il paese dei balocchi che già dal titolo ci mette di fronte al riciclo del riciclo del passato di Burattino senza fili. Se in Abbi dubbi c’era ancora traccia del cyber rock metallizzato di Zen, nel disco nuovo quasi tutto pende in un limbo tra la nostalgia sonora riferita ai ’50 di Viva la mamma (Magari sì, magari no e addirittura un brano in coppia con Bo Diddley) e pezzi che sembrano outtake di Ok Italia. Anche nei momenti in cui Bennato si fa politico (la title track che parla dell’accoglienza degli albanesi della nave Vlora come l’ennesimo modo per creare dei nuovi schiavi o Tutto sbagliato baby che narra del crollo dell’URSS) non sembra ci siano grosse idee musicali. Insomma, l’album segna l’inizio della fase di stanca di Bennato, che rialzerà occasionalmente la testa.
Spirito
Litfiba
1994C’erano una volta i Litfiba della trilogia del potere: poi arriva il mezzo live Pirata, Maroccolo se ne va e da gruppo latin new wave i Litfiba diventano dei tamarri rockettari. Da El Diablo fino a Terremoto flirtano addirittura col metal, appesantendo il sound e rendendolo privo delle raffinatezze del passato. Anche i testi si semplificano e perdono capacità evocativa. Qui addirittura c’è il Pelù forcaiolo e giustizialista di Maudit, in vena di diventare il Bono italiano, il che è tutto dire. Però se El Diablo e Terremoto erano in linea con un generale ritorno del rock duro in classifica (vedi il grunge ecc) e che piaccia o meno la produzione funziona, Spirito è imbarazzante. La filastrocchetta della title track presenta un testo probabilmente scritto sulla tazza del water, e figuratevi gli altri brani: Lo spettacolo è un pezzo che definire autoreferenziale e pieno di banalità è un complimento, il resto è una specie di riposizionamento su un latin soft rock che puzza di stantio. Ovviamente Spirito andrà bene in classifica, pronto a sfamare determinati desideri rock di provincia. Provincia che in un certo senso i Litfiba incarnano forse meglio degli 883, nonostante cerchino di millantare una svolta world. Tanto che, per avere un sound alla moda, chiamano Rick Parashar il produttore di Ten dei Pearl Jam, ma non ne sono soddisfatti e fanno rimissare alcuni brani da Tom Lord-Alge che all’epoca era la sicurezza del rock mainstream mondiale, non certo di quello alternativo. Spirito è l’antipasto di Infinito, a tutt’oggi l’album più sfacciatamente pop del gruppo, nel quale si capisce che i Litfiba di Desaparecido sono ahimè per sempre un ricordo sostituito da bubblegum music per adulti più o meno cresciuti.
Ullàlla
Antonello Venditti
1976È il 1976 e Venditti viene da un trittico di dischi riusciti (Le cose della vita, Quando verrà Natale e Lilly). Quest’ultimo, in particolare, lo porta ai primi posti della classifica trovando anche il plauso della critica. Contiene non solo il megaclassico Compagno di scuola, ma anche la title track che è una delle prime canzoni sul dramma dell’eroina scritte in Italia. Non mancano temi politici trattati in maniera metaforica come ne Lo stambecco ferito. Complice forse il successo improvviso, in Ullàlla Venditti vuole essere più esplicito e più impegnato politicamente, in maniera forse troppo enfatica e costruita. Memore forse del “fuoco amico” di De Andrè e De Gregori che lo contestavano sbronzi alle presentazioni dei suoi dischi, vuole voltare le spalle al consenso popolare o meglio portarlo in sentieri che neanche lui conosce. Ed ecco quindi che spunta fuori Canzone per Seveso. Il tema del disastro ecologico della Icmesa e relativa nube di diossina è importantissimo, ma Venditti non è Vangelis coi Krisma di Suffocation, in cui lo stesso argomento viene trattato con ficcante sintesi postatomica. Al contrario si sente una certa rigidità di chi deve per forza scrivere determinate cose per un determinato target. Il risultato è un po’ quello riscontrabile nel Lennon di Some Time in New York City che nonostante la spinta politica non ha prodotto inni come l’istintiva Give Peace a Chance. E in effetti chi si ricorda di Nostra signora di Lourdes, critica al compromesso storico? Anche quando Venditti si vendica della condanna per vilipendio subita dopo il brano A Cristo diventa didascalico e prolisso e Maria Maddalena risulta difficilmente digeribile come se il cantautore stesse parlando da solo allo specchio. Anche in Strada, che parla di prostituzione, altro tema tabù nel periodo, Venditti si smarrisce in una certa banalità di posizioni o si incarta nelle autobiografiche – per quanto sofferte e sincere – delusioni amorose di Una sporca e lurida storia d’amore. Poi ci piazza quello che sembrerebbe uno scarto recuperato come Per sempre giovane (che inaugura le citazioni di Springsteen nei futuri album, vedi Ci vorrebbe un amico e Dancing in the Dark, in questo caso si saccheggia Born to Run) e Jodi e la scimmietta, un attacco al potere verboso e poco chiaro su uno dei primi – e questo va detto – reggae suonati in Italia. Ecco, dal punto di vista dei suoni e degli arrangiamenti Ullàlla è uno strappo coraggioso, col coinvolgimento di Ivan Graziani e della band di La batteria il contrabbasso, eccetera di Battisti: solo per questo si merita il titolo di disco di culto. Il problema rimangono i pezzi in sé, più che altro perché non hanno una direzione precisa: Venditti non è Ivan Della Mea o Paolo Pietrangeli. L’importanza di Ullàlla però rimane, non solo in quanto episodio weird, ma soprattutto perché Venditti deciderà poi di essere quanto più pop possibile, mascherando i brani politici coi vestiti della canzonetta. L’esempio di Sotto il segno dei pesci è evidente: molti ancora sono all’oscuro che si tratta di un concept sugli anni di piombo. Ed è proprio questa la carta vincente che farà di Venditti un caso non solo musicale, ma anche di costume transgenerazionale.
Io
Loredana Bertè
1988È il 1988 e Loredana Bertè è reduce da una sequenza di dischi di elevata qualità. A parte il boom commerciale di Il mare d’inverno di Enrico Ruggeri, la tripletta prodotta da Fossati (Traslocando, Jazz e Savoir faire) e i servigi di autori di pregio consolidano la cantante come una vera e propria fuoriclasse nel mondo della musica italiana, capace di innovarne i linguaggi e la direzione. Nel 1985 si interrompe la collaborazione con Fossati e Bertè pubblica Carioca, un disco controcorrente e raffinato in cui, aiutata dalle versioni in italiano di Lauzi e Ruggeri, interpreta le canzoni del cantautore brasiliano Djavan. Ricaricate le pile con questo album singolare, Bertè si prepara a tornare sulle scene nel 1986 con un progetto ambizioso, un disco scritto da Mango. L’antipasto di quello che sarebbe potuto essere un capolavoro è Re, canzone che presenta a Sanremo con un’esibizione shock, almeno per i benpensanti, salendo sul palco dell’Ariston con un finto pancione, in una grandiosa esaltazione della femminilità. Tanto basta a fare in modo che la CBS rescinda il contratto. Al posto del disco con Mango esce una raccolta di successi con solo due inediti, il succitato singolo sanremese e Fotografando. Bertè passa alla RCA e prende una scuffia per il tennista Björn Borg che sposa nel 1989: e mai persona fu più nociva per lei. A parte il fallimento del matrimonio, l’influenza nefasta di Borg entra anche nelle canzoni. Il disco Io rappresenta una regressione assoluta nel repertorio della cantante, poiché ci si concentra sul pop patinato più innocuo. Alla produzione c’è Corrado Rustici (poi con Zucchero) per cui è tutto di altissimo livello, ma Bertè non può essere relegata a funketti bianchi o a ammiccamenti Euro pop. In più la title track , scritta da Tony Cicco dei Formula 3, è l’anticamera di quella trafila di brani egoriferiti stile Amici non ne ho che essenzialmente sono la parte peggiore e stucchevole del repertorio di Bertè. Il disco ha pochi momenti degni di interesse, l’intro quasi vapor/hd di Fornelli bianchi, qualche arrangiamento proto hyper, ma per il resto l’ispirazione sembra azzerata. O meglio, l’ispirazione principale è Borg, con la cantante concentrata solo su quello (in Proiezioni c’è l’ammissione di praticare autoerotismo in assenza del partner) e che vuole scrivere i testi di suo pugno. È la vera novità del disco, ma il risultato è a volte imbarazzante (Rai & tv ad esempio è un brano di un’inutilità sconcertante).
Corpo a corpo
Milva
1985Negli anni ’80 Milva torna alla “canzonetta” dopo una parentesi passata a frequentare la poesia impegnata, la Merini, gli intellettuali come Umberto Eco e la musica colta (vedi Luciano Berio che la vuole con sé) e ovviamente il teatro di Strehler. Jannacci nel 1980 le produce un album su misura, La rossa, che sarà acclamato dalla critica. Subito dopo c’è l’incontro con Battiato che le produrrà Milva e dintorni, altro disco di alta caratura dal quale sarà estratta Alexander Platz. Nel 1983 è la volta di Identikit, nel quale tornano i brani di Vangelis con testo italiano, Venditti le regala Eva dagli occhi di gatto, ci sono Paolo Conte, Lauzi e Cocciante, Piero Cassano (ex Matia Bazar) fresco della produzione di successo di Eros Ramazzotti. Insomma è un disco sciccoso che, se non eguaglia le vette del precedente, conferma Milva come interprete di razza. Nel 1985 invece Milva sterza nettamente verso l’aspetto più commerciale del suo mestiere: o meglio, le sue mire sono quelle di abbracciare il pop digitale che sta spopolando nel mondo soprattutto grazie agli italiani. Moroder a parte, in quegli anni a fare la parte del leone ci sono Bigazzi e Raf, che con Self Control hanno conquistato l’America. Corpo a corpo viene affidato alla loro produzione e risulta così un disco curioso, poiché infilare Milva in un contesto Italo disco è un azzardo da veri incoscienti. Se infatti l’album fa ben sperare con l’apertura di Amo chi siamo scritta da Raf, gli altri brani risultano freddi come un karaoke midizzato (a questo proposito, per una strana legge del contrappasso, da notare la presenza di Stephen Head, ex Sensations’ Fix, alle programmazioni), con i testi della moglie di Bigazzi che invece di fornire uno spaccato all female finiscono per banalizzarlo. Per capire quanto è fuori posto Milva si ascolti il singolo Marinero, col testo a cura del Lounge Lizard Steve Piccolo, che se otterrà un buon successo in qualche modo “disinnesca” le potenzialità della cantante, risultando un prodotto facilmente confondibile tra le miriadi di 7” dance del periodo. L’album seguente la vedrà collaborare nuovamente con Vangelis, tornando agli standard qualitativi che le competono, fuori dai prodotti preconfezionati e dalle logiche di mercato.
Zero
Renato Zero
1987Fino al 1983 Renato Zero non ne sbaglia una: primo in classifica quasi di default, con un seguito di sorcini che è una vera e propria armata, stupisce l’abbottonato pubblico italiano con travestimenti e trovate. Nel 1984 Zero si ritrova a un bivio, ferito nell’orgoglio per la chiusura da parte delle autorità del tendone Zerolandia, meta di giovani scappati di casa e per questo considerato a rischio antisistema. Renato si aspetta una sommossa popolare dopo questa decisione, ma non succede nulla. Il disco che accompagna questo momento difficile sarà più cupo e autobiografico del solito: Leoni si nasce è anche l’ultimo che lo vede travestirsi (ovviamente da leone), e le invettive contro il suo stesso pubblico traditore non gli assicureranno una lunga permanenza al primo posto. Il disco successivo di Renato Zero segna un cambiamento radicale: in Soggetti smarriti abbandona i trucchi e le messe in scena per un look più sobrio e per una musica prettamente elettronica, che sebbene molto interessante spiazza il pubblico e le vendite calano a picco. Indeciso sul da farsi, Renato incide subito Zero, che forse già dal titolo sottintende un nuovo inizio. L’idea di ripartire da un doppio però è megalomane e nelle canzoni insegue la tradizione italiana e in particolare suggestioni anni ’30 e ’50, spinto sicuramente dall’onda del sophisti-pop d’oltremanica. Brani come Ho dato sono ahimè un prodromo allo Zero pomposo e sinfonico degli anni ’90 e anche in momenti come Vagabondo cuore in cui gli arrangiamenti sono elettronicamente elaborati le melodie sembrano tirate via. Anche nei testi non c’è equilibrio. Se da una parte i momenti intimisti reggono, ci sono invece tematiche come quelle ecologiche in Verde o quelle diciamo “evasive” come Lei in cui la protagonista è la musica, che sembrano forzate. In altri momenti come Telecomando e Astronatività non c’è più il Renato Zero graffiante e affamato di Zerofobia per metriche da scuola elementare e critiche sociali sviluppate come fossero un temino. È uno Zero ripulito anche nel look, capelli corti e bianco e nero curato da stilisti di grido. Fortunatamente nel successivo Voyeur tornerà ancora a spiare (seppur timidamente) nei buchi della serratura, recuperando un minimo del suo passato da istrione.
Tic & Tac
Area
1980Mettetevi nei panni di una band che oltre ad essere musicalmente sperimentale è anche militante di una certa sinistra, capitanata da un cantante magistrale e audacemente estremo come Demetrio Stratos. La morte se lo porta via e voi vi ritrovate a dover decidere cosa fare della vostra vita. Il primo pensiero è abbandonare, il secondo è provare a continuare da soli. D’altronde l’hanno fatto anche i Doors: scomparso Jim Morrison sono andati avanti anche con una certa fortuna commerciale, ma nulla che sia rimasto nella storia. E gli Area senza Stratos (e già privi di Tofani che se ne andrà prima di 1978 gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano), si trovano nella stessa situazione. Probabilmente per motivi contrattuali incidono Tic & Tac, maprendono la strada che meno ti aspetti cioè quella dei più miti consigli. Le sperimentazioni vengono accantonate in favore di una formula jazz/fusion di ottimo livello, senza dubbio una vetrina per gli esecutori, ma della dirompente vena situazionista degli Area storici non rimane nulla di nulla. Come se, alla fine, per superare la perdita di Stratos fosse necessario che anche una certa attitudine finisse nella tomba con lui. Sì, i nuovi Area sono vivaci, briosi, ma a che pro? Il disco è quasi tutto strumentale e va bene, ma che fine ha fatto la denuncia del (POP)oular group? Se coi synth Fariselli era capace di tirare fuori vere e proprie follie, adesso invece tenta – per dirne una – di imitare contrabbasso e pianoforte, regredendo a livello concettuale. In più ci sono due pezzi discutibili come la ballata A.S.A. e La luna nel pozzo, quanto basta per pensare che questi Area avrebbero potuto tranquillamente utilizzare un nome diverso e fare migliore figura. Il nuovo corso degli Area finirà per scontentare tutti tanto da portarli allo scioglimento: il batterista Giulio Capiozzo continuerà l’esperienza con un’altra formazione ma con il nome riciclato di Area II, dedicandosi a una fusion totalmente inserita negli anni ’80, di ottima fattura ma priva di qualsiasi scintilla. Torneranno nel 1997 se non a graffiare come un tempo, a recuperare determinate ragioni sociali con un concept sul nucleare, ovvero Chernobyl 7991, sull’onda di un rinato interesse delle nuove generazioni per il lavoro svolto nei ’70.
Rettoressa
Rettore
1988Nel periodo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 Rettore è una mina vagante nel panorama della musica italiana, un’innovatrice nella scrittura e negli arrangiamenti, un’aliena che scardina i tabù dell’Italietta democristiana, basti pensare a Lamette, un’ode al suicidio con tanto di istruzioni per l’uso, o Kobra, un panegirico sul sesso maschile, o Splendido splendente, elogio della chirurgia plastica prima che Orlan tenesse banco. Nel 1983 decide di alzare il tiro con Far West, un concept sulla frontiera dai suoni elettronici arditi che provoca una spaccatura tra la cantante, la casa discografica e il pubblico. Complice una pessima promozione, l’album precipita in classifica dopo un’ascesa promettente rimanendo di difficile reperibilità fino al 2012 quando finalmente la Rhino si prende la briga di ristamparlo: un vero peccato, era un disco avanti per l’epoca. Far West non è il primo passo falso nella carriera della Rettore, che nel 1986 con Danceteria rientra in classifica, rimanendoci per 17 settimane e piazzandosi a un decoroso ventesimo posto per un disco prodotto magistralmente che contiene Giù dal nero ciel, capolavoro assoluto della poetica “schizo” della cantante veneta. Il vero passo falso è del 1988, quando esce Rettoressa. Scaricata dalla CGD e reduce da una pessima esperienza alla Ricordi, si ritrova alla meno quotata Lupus che non spinge l’album con nessun singolo ma solo con il promo radiofonico di Addio mia bella Napoli, che ha il grosso problema di essere eccessivamente patinato, spingendo su un suono digitale che è tanto figlio della dance internazionale fine anni ’80 quanto di quella deriva “amatoriale” italiana alla Cecchetto (vedi Jovanotti & co). Gli arrangiamenti plasticosi rendono ostico l’ascolto di brani intimisti come Una stella che cade (dedicata al padre) e Usocamay musicamay dove sembra tornato il piglio dissacrante della Rettore che ben conosciamo. Puntare tutto sulla promozione televisiva, più che quella nei juke-box, non aiuterà, tanto che i brani di Rettoressa finiranno nell’oblio. Negli anni 2000 Rettore tona lentamente a recuperare popolarità dopo i precedenti risultati altalenanti.