Bisogna guardare per terra, come quando si cercano i funghi nel bosco. Occhi bassi, strada diritta (o si presume tale), per vivere finché si può, come si può, e sfuggire il più possibile alla morte. Sono i mezzucci con cui cerchiamo di fregarla, dice a un certo punto il curato di campagna che forse è il personaggio più bello di questo bellissimo film. Però poi la morte ti viene a cercare, e tu non le puoi resistere. Non si può scampare al massacro (il carnage di Yasmina Reza), dice sempre il curato. E il carnage è sempre più grande e cattivo di noi, anche dei peccatori più grandi e cattivi. Quindi tanto vale lasciare, almeno per chi ci riesce, quella strada dritta. Prendere sentieri secondari, bagnati e oscuri.
I Cahiers du cinéma hanno messo Miséricorde di Alain Guiraudie (da noi lo si è visto ora al Noir in Festival di Milano, poi uscirà il 16 gennaio per Movies Inspired col titolo L’uomo nel bosco) al numero 1 dell’ambitissima lista dei film dell’anno. È l’eterno incontro tra indissolubili, incorruttibili, irredimibili di Francia: la bible dei critici e il regista noto qui soprattutto per Lo sconosciuto del lago, ma con una vastissima filmografia libera e militante (e qualche romanzo tra cui quello – Rabalaïre – che ha ispirato questo film).
Arriva presto la morte, in Miséricorde. Un delitto di cui conosciamo subito il colpevole. Ma questo non è un giallo, è un dramma morale alla Bresson (forse anche un po’ alla Eastwood, vedi pure il ganzissimo Giurato numero 2 ora in sala). Ma soprattutto è una commedia quasi rohmeriana, per restare in tema di racconti morali. E c’è il solito Teorema pasoliniano, con il tipo che arriva e scombina tutto.
Il protagonista Jérémie (bravissimo Félix Kysyl), è pure un po’ un Mister Ripley che ruba i vestiti ai morti e ai vivi per abbigliarsi come loro, forse imitarli, sedurli a volte quasi metafisicamente. Ma non sono vestiti eleganti da dandy in Costiera, come non c’è un ordine altoborghese da far saltare: siamo in un film di Guiraudie, dopotutto. C’è la profonda provincia bigotta ma anche curiosa, pettegola, più libera e maliziosa di quel che si pensi, col carattere ben nascosto che poi, se guardi bene, eccolo che viene fuori – come i porcini nel bosco!
Dunque, il biondo Jérémie torna in questo posto sperduto fra i boschi dopo che l’ex datore di lavoro – roba piccola: una panetteria di paese – muore. Lo si vede solo in una foto di qualche anno prima: “Com’era bello”, sospira lo moglie (Catherine Frot). Son rimasti lei, il figlio, il vecchio prete (splendido Jacques Develay), altri vicini e nemici di quartiere, tutti con qualcosa in sospeso col nostro biondo rispuntato per caso.
Cose che succedono la notte, diceva il titolo d’un recente romanzo di Peter Cameron, e qui succede quasi tutto di notte, o in quell’ora viola quando sta per albeggiare ma ancora fa buio. Incubi, incontri, seduzioni, ribaltamenti, visite di fantasmi. E poi di giorno ci si ritrova nel bosco a fingere, dissimulare, fare in modo che tutto resti come prima anche se il banco ormai è saltato.
Chissà se è il film più bello dell’anno, certo del cinema di Guiraudie impressiona sempre la fluidità (letterale e nell’accezione che le si dà oggigiorno) narrativa e poetica, e anche politica. È la forza del desiderio a muovere il suo cinema e i suoi personaggi e, lo dice il solito prete di campagna, la forza del desiderio non va mai sottovalutata. Soprattutto al cinema, che senza desiderio non sarebbe mai esistito.