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«Ero scoppiato»: la crisi e la rigenerazione di Massimo Pericolo

«Avevo cercato di zittire la mente, i pensieri foschi, credendo che in questo modo non avrei sofferto, ma loro non tacevano». La lotta contro la depressione, l’arresto, la meditazione e le arti marziali per stare meglio. Un estratto da ‘Monaco guerriero’, la nuova autobiografia del rapper

«Ero scoppiato»: la crisi e la rigenerazione di Massimo Pericolo

Massimo Pericolo

Foto: Roberto Graziano Moro

“Massimo Pericolo non ha le idee confuse”, recita il rapper nell’intro del suo ultimo albumLe cose cambiano. E a leggere quest’estratto dalla sua autobiografia pare piuttosto chiaro. Monaco guerriero, in libreria da oggi per Rizzoli, non è il classico libro autocelebrativo. E lo si capisce subito dalla prima frase, “Alla fine dell’estate del 2021 ero depresso”.

È un viaggio che racconta quello che non ti aspetti, la caduta personale dopo i grandi successi dei suoi primi due album Scialla semper e Solo tutto. Tra ansia, depressione, pensieri suicidi, la rinascita del rapper passa attraverso meditazione, arti marziali, filosofia orientale e un viaggio in Cina per frequentare un monastero Shaolin. Un diario, una continuazione naturale del suo primo libro Il signore del bosco, un racconto a cuore aperto che ci svela un Massimo Pericolo ancora una volta differente da ogni altro artista della scena. Perché “Massimo Pericolo non è come voi, Massimo Pericolo non è come vuoi”.

Ecco una parte di “Silenzio”, il primo capitolo di Monaco guerriero.

Alla fine dell’estate del 2021 ero depresso. Da mesi passavo le notti insonne. Mi alzavo quasi sempre alle tre del pomeriggio, a volte persino alle sette di sera.
Ero completamente sballato.
Avevo finito un tour assurdo, con la gente seduta e distanziata, tutta con la mascherina. Pensavo costantemente a un modo per mettere fine alla mia sofferenza psichica. Avevo interrotto la psicoterapia da circa un anno. Avevo lasciato la mia ragazza dell’epoca. Ero scoppiato.
Per tanti anni avevo cercato di zittire la mente, i pensieri foschi, credendo che in questo modo non avrei sofferto, ma loro non tacevano e io continuavo a stare male senza trovare una soluzione.
La sensazione di benessere pieno e durevole di cui avevo goduto come mai prima per oltre un anno, dopo aver raggiunto il successo, quell’incredibile abbuffata di vita, durante la pandemia si era rivelata un’illusione, una bolla di sapone che mi era scoppiata in faccia.
Ripiombai nello stato di prostrazione che ben conoscevo. Pensavo che sarei stato bene per sempre, ma quando arrivò il Covid realizzai che i problemi li avevo ancora.
Provavo solo emozioni negative. Avevo la fobia di fare qualunque cosa. Niente mi dava sollievo, tutto mi pesava. Bere era l’unica cosa che mi tranquillizzava.
Ero devastato dall’ansia. Mi rifiutavo di vivere, di fare esperienze concrete.
Volevo solo esistere il meno possibile.
Nella solitudine che mi opprimeva toccai il fondo a livello mentale, pensai seriamente al suicidio.

Accorgermi che non riuscivo a stare bene nemmeno dopo aver raggiunto il successo e aver fatto un po’ di soldi mi aveva gettato in un dolore ancora più grande e insostenibile, perché era la prova che il problema ero io. […]

Mi ero avvicinato alla disciplina delle arti marziali da bambino, cominciando con il karate. Avevo frequentato per un paio d’anni un corso a Treviso, dove avevo vissuto dopo il primo trasloco con mia madre, e poi avevo continuato durante il periodo a Catania, dove avevo avuto un maestro che presto era diventato una guida, un padre in un momento in cui mi sentivo orfano. In quel periodo sognavo di diventare un maestro di arti marziali. Volevo imparare e insegnare ai ragazzi. Fantasticavo sul tempio di Shaolin, in Cina, famoso in tutto il mondo per la sua tradizione di arti marziali, ascoltando i racconti che ce ne faceva il maestro senza aver mai visto nemmeno una foto.
Crescendo poi mi ero appassionato al kung fu, praticato tra alti e bassi e spesso da solo. Poi, a diciannove anni, avevo deciso di partire e trascorrere tre mesi proprio a Shaolin. Ci ero andato per ritrovare me stesso e apprendere l’arte del kung fu, e lì infatti avevo acquisito competenze che, quando ero tornato in Italia, mi avevano permesso di cominciare a insegnare, cosa che avevo fatto per un certo periodo, realizzando il sogno che coltivavo da quando ero bambino.
Finché non ero stato arrestato. Avevo commesso errori nella mia vita precedente, e il conto da pagare mi era arrivato quando con quella vita non c’entravo più, quando ormai avevo capito da solo i miei sbagli. E quella punizione tardiva non aveva fatto altro che aumentare la mia disperazione e il mio nichilismo.

In carcere avevo praticato per la prima volta seriamente la meditazione, ma quando ero uscito non mi sentivo più credibile come maestro di arti marziali, stavo male, ero depresso, non rappresentavo un buon esempio né il ritratto della salute, così avevo puntato tutto sulla musica.
Il rap per me era una valvola di sfogo, un urlo disperato, ma a livello di aspirazione, di scopo, il ragionamento era: se sfondo, faccio i soldi. Mi affascinava il successo. Ma non è mai passato in primo piano rispetto alle arti marziali.
Una volta, a questo proposito, avevo chiesto al mio amico Pietro: «Secondo te cosa devo fare, impegnarmi nella musica o nel kung fu?».
Lui, senza esitazione, mi aveva detto che avrei fatto meglio a dedicarmi al kung fu. Me lo rinfaccia ancora oggi, sostenendo di non avermi mai visto stare così bene come quando praticavo seriamente le arti marziali. […]

Naturalmente quella volta, nonostante il consiglio di Pietro, scelsi la musica, la realtà che vivevo in quel momento, il malessere esistenziale, la vita dissoluta e senza speranza che conducevo allora. Il rap si adattava meglio di un’arte marziale a esprimere il modo in cui mi sentivo, era un’istantanea del mondo che mi circondava, un mondo di merda. Molti dei miei amici e conoscenti erano incastrati in quello stile di vita, ancorandomi a una realtà che non accettavo come mia. Ma al tempo stesso mi consideravo inadeguato a seguire un percorso di purezza, anche se è quello che poi ti serve davvero per guarire e cambiare te stesso e il mondo, in meglio.
Col rap speravo, ma non avevo la certezza, che avrei sfondato.
E invece era accaduto.
Adesso, però, dentro di me avvertivo un silenzio preoccupante, un silenzio che faceva presagire l’assenza, forse la perdita o addirittura la dimenticanza di qualcosa di sostanziale: la mia vera identità, i miei valori.
Taceva l’anima, la parte di me che dalle arti marziali, dalla disciplina praticata in passato, aveva tratto i più preziosi insegnamenti, la stessa che aveva inteso il corpo come un tempio. Avevo vissuto in funzione della carriera, costringendo le mie facoltà a un unico pensiero: faccio i soldi. Era quello che volevo e lo avevo ottenuto. Allora perché non ero felice? Perché non mi faceva stare bene avere una bella casa, una relazione invidiabile, una carriera in crescita? Perché stavo così male se avevo raggiunto quello che desideravo?
Mi ero dimenticato il motivo per cui desideravo quelle cose. Volevo una sicurezza economica e familiare per coltivare lo spirito, la disciplina e migliorarmi.
Mi ero dimenticato che il mio obiettivo era questo: la stabilità, per potermi dedicare all’anima.
Ero come intrappolato in un bisogno continuo di pensare a come piacere agli altri, scordandomi che a piacere non era quello che ero diventato, il cantante di successo, ma il ragazzo perduto che ero stato prima.
Aprivo i libri di fotografie sul tempio Shaolin, cercavo documentari sui bambini cinesi che lasciavano la famiglia per quel monastero e mi sentivo di nuovo io, a casa. E quando lo richiudevo mi rimaneva l’amarezza di vivere una vita davvero povera di senso.
Ti realizzi grazie a quello che hai fatto prima del successo, dopo inizi a vedere la tua vita solo da quel momento in poi, e dimentichi che cosa ti ha reso quello che sei. Strano. Non volevo che fosse così anche per me. […]

Nella mia mente avevo una vaga idea di quale sentiero dovessi percorrere per arrivare a un posto in cui sarei riuscito a sentirmi bene con me stesso. Non avevo più niente da perdere. Dovevo provarci.
Così, una sera prima di spegnere la luce e costringermi a dormire, pensai alla meditazione e alle arti marziali, che erano sempre state la mia ragione di vita e che in passato mi avevano davvero aiutato a stare meglio. Il solo modo che conoscessi per migliorare me stesso, per soddisfare l’aspirazione a essere un certo tipo di uomo.
Padrone della propria mente e del proprio corpo.

Tratto da Monaco guerriero di Massimo Pericolo (Rizzoli, 224 pagine, euro 18,00).

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