«Sia chiaro: non ho intenzione di fermarmi con la musica, ma dopo aver tenuto un concerto notturno a bordo della Ocean Viking, beh, potrei anche». A parlare è Kento, al secolo Francesco Carlo. Ci sentiamo dopo il suo sbarco dalla ex nave petrolifera, oggi simbolo dell’organizzazione marittima e umanitaria SOS Méditerranée, che dal 2015 sensibilizza la popolazione sul tema delle migrazioni e opera attivamente sulla rotta del Mediterraneo centrale con operazioni di ricerca e salvataggio.
Back to back, anzi, proprio la sera del concerto era arrivata la notizia che a Sanremo nel 2025 non ci saranno testi con temi principali come la politica, le crisi umanitarie, i conflitti in corso nel mondo, e così via. Kento non scomoda analogie con altre epoche storiche, forse perché l’evidenza è più forte di ogni fantasia, o speculazione. Però dice che adesso è il momento, che ora bisogna lavorare di libertà, ricavarsi uno spazio interstiziale in cui poter proporre un’alternativa. In altre parole, che se si può – o deve – scegliere quando prendere coraggio, il coacervo storico potrebbe essere questo. Mettere un’idea in una canzone, raccontare il presente senza nascondersi.
«Non è facile. Tanti colleghi la pensano come me, mi riferisco soprattutto alla scena rap, poi magari decidono di non esporsi con le loro barre. Lo capisco. Io ho imboccato la mia strada tempo fa, ormai». Kento ha parlato di carcere (minorile), di diritti e di come vengono calpestati; ha raccontato la Palestina e la Striscia di Gaza, ha denunciato in musica la condizione del Sud Italia, stretto dalle mafie. L’evoluzione verso il mare è «solo lo sbocco naturale della mia lunga collaborazione con SOS Méditerranée». Da cui ora nascerà una canzone – «la stavo finendo proprio ora, ma sapevo che mi avresti chiamato» – e che si è svolto all’interno di un progetto artistico e di comunicazione per dare risalto a ciò che spesso rimane invisibile. «Ma anche un documentario, siamo ancora un po’ nel segreto, ma questo lo puoi scrivere».
Quindi che cosa fa un rapper a bordo della Ocean Viking?
Quello che fanno gli altri. Innanzitutto dà la disponibilità a partire con convocazione a 48 ore, valigia sempre pronta. Poi abbiamo costruito insieme il mio ruolo sulla nave. Mi sono imbarcato come osservatore, ma subito è venuto fuori che ci sarebbe stato bisogno di una mano in più sui gommoni di intercetto, la Ocean Viking ne ha tre e sono i mezzi che nei fatti vanno incontro alle imbarcazioni dei migranti. Così ho cominciato ad allenarmi per far parte della squadra di ricerca e salvataggio. È stato anche un bello sforzo fisico.
L’ultima volta che ci eravamo sentiti su Rolling avevi parlato di un grande cambiamento in corso per te. Dove sei ora?
Agli antipodi. Sto elaborando l’esperienza della nave. Sono uno che di pelo sullo stomaco ne ha, ma si parla di un altro paio di maniche. Tutto diventa in prospettiva, il discorso online, anche certe cazzate che scrivono i miei colleghi sui social… Sapevo i numeri di questi salvataggi, mi sono sempre informato. Toccarli con mano però è una cosa diversa. Ti aiuta a rivalutare tante cose
Prima della Ocean Viking, il tuo ultimo palco era stato l’Ariston di Sanremo, durante la serata finale del Premio Tenco 2024.
Siamo abituati a vedere le navi e il mare come simboli di libertà, e invece in quelle circostanze diventano delle prigioni. Poi ti metti a pensare che il mondo è composto per due terzi d’acqua e arrivi a rivalutare il ruolo della scrittura, il suo potere, e anche te stesso come persona e artista. Certo che esibirsi al Premio Tenco è fantastico. Ma se la musica mainstream, come di fatto ha detto Carlo Conti nel suo annuncio su Sanremo, non parlerà di questi temi, se ne dovrà parlare in un altro modo. Non è un dissing, non mi interessa, è una constatazione: se gli spazi grandi ci sono preclusi, saremo noi a doverci creare luoghi di controinformazione e contropotere, di musica antagonista.
Con quali modalità di racconto, però?
Bisogna partire da due constatazioni: non tutti possono essere attivisti, e anche tra gli attivisti non tutti avrebbero ciò che serve per salire a bordo dell’Ocean Viking. Allora quello che dico io è che bisogna informarsi e trovare il modo di modificare la propria prospettiva, e la prima cosa di cui rendersi conto è che per i morti in mare e per chi intraprendere un percorso di migrazione si sta parlando di numeri, certo, ma quei numeri sono esseri umani. Sui social si leggono cose agghiaccianti, quando si tocca il tema. Voglio sperare che anche chi scrive certe cose sarebbe pronto ad allungare la mano, se si trovasse nella posizione di poter salvare qualcuno da un naufragio. Quello fa la differenza tra la vita e la morte, tutto parte da lì. Poi possiamo parlare di politiche migratorie, ambito in cui né la destra né la sinistra del nostro Paese si sono comportate bene.
Già.
Ti dirò di più: durante la mia permanenza a bordo abbiamo effettuato un’operazione di salvataggio. Scendono i tre gommoni, a un certo punto ci vediamo venire incontro ad altissima velocità una motovedetta della guardia costiera libica (la Ocean Viking opera al largo della costa libica in acque internazionali, nda). Uno degli altri due gommoni si affretta a caricare quanti più migranti possibile, si parla di soli ragazzi minorenni, e li porta in salvo. Il mio effettua un’operazione di diversivo per la motovedetta, ma questa quando si accorge che non abbiamo nessuno a bordo scarta e ci getta un’ondata d’acqua addosso. Lo sappiamo che cosa fa la guardia costiera libica, lo sappiamo che hanno sparato. Ci sono venuti addosso a una velocità spaventosa, mi pareva avessero alcune armi spianate. Ci arriva così vicino che leggo un numero sulla fiancata: 660. È una motovedetta molto famosa, la Bari, data ai libici dal Governo italiano per i diversi accordi stretti nel tempo, tristemente nota perché da lì erano partiti i colpi che hanno mitragliato il peschereccio di un uomo siciliano nel 2021. Siamo stati minacciati con un mezzo italiano, probabilmente pure con armi e proiettili italiani.
E i ragazzi che avete recuperato?
Tanti di loro facevano musica, rappavano. Venivano dal Gambia. Appena siamo saliti sulla nave abbiamo cominciato a far festa, a cantare e suonare. È stato incredibile. Uno di loro mi ha detto: 48 ore fa pensavo di essere morto, e infatti quando li abbiamo raggiunti erano tranquilli, rassegnati alla scomparsa. È quello che si chiama effetto sommergibile: ci sono studi che dimostrano che per esempio, mentre un sommergibile sta affondando, i marinai a bordo non vanno nel panico. Non ci sono vie d’uscita, hanno accettato il fatto che stanno per morire. Quindi quando abbiamo tirato su questi ragazzi, be’, loro sono nati due volte. La cosa che mi preoccupa ora è che fino a che erano sulla Ocean Viking sono stati trattati da esseri umani. In Italia, ora, non lo so. Sono tutti schiavi bambini, di fatto, erano in Libia già da molti anni.
Cose che in teoria si sanno, eppure…
Eppure non si toccano e quindi non ci riguardano. I ragazzi mi hanno raccontato delle storie terrificanti, di povertà, di mancato accesso a un’economia di sussistenza, un ambiente grottesco, medievale, condizioni da servi della gleba. Zero accesso a vaccini o cure. E certo che poi preferiscono venir via, tentare la sorte. Pensare che, per la Farnesina, il Gambia è un Paese sicuro.
Ecco che torniamo alle responsabilità della politica.
Sì, perché poi effettuato il salvataggio, per il Decreto Piantedosi del 2023 non potevamo farne altri ma dovevamo dirigerci alla massima velocità sostenibile verso il porto sicuro che ci era stato comunicato. Tu dichiari il salvataggio e poi devi correre. ci avevano assegnato Ravenna, vuol dire quattro giorni di mare. Poi a causa del maltempo siamo sbarcati a Brindisi. Sono queste cose che ti fanno capire le storture della politica: chissà quante altre persone avremmo potuto soccorrere. Fanno di tutto per mettere le navi come la Ocean Viking in cattive condizioni. È disumano.
Dicevamo che davanti a questi atti cambia il ruolo delle parole, della scrittura.
A me le parole le ha tolte, per assurdo. Non ne ha date di nuove. Ora sto lavorando a cose molto più sintetiche, essenziali. Mi sto liberando dalle sovrastrutture, e dire che non ho mai comunque avuto il gergo rap, ma forse mi sto liberando pure di quello. Tu cresci, la tua scrittura cambia i conseguenza. Di parole non ne servono tante, però giuste.
Che poi è strano pensare alla musica, a te che suoni, in mezzo al mare, dove regna il silenzio.
Il silenzio totale è arrivato anche per noi, quando hanno annunciato l’avvistamento della barca dei ragazzi. Sembravamo una nave fantasma, attendevamo il messaggio ready for rescue. Poi siamo esplosi.
Senti: la musica si è disimpegnata?
Non mi piace tracciare un confine tra musica impegnata e non. Io vorrei essere un artista che sa scrivere una canzone impegnata ma anche d’amore. Trovo che in molti colleghi o rapper manchi questo tipo di completezza. E in questo clima politico, le voci fuori dal coro sono importanti.
Che cosa vuol dire avere uno spazio di libertà nella propria musica?
Vuol dire avere il coraggio di dire le cose anche se non faranno vendere dischi. Nella musica è tutto un casino, tanti hanno paura. Che fa parte della vita, almeno finché non ti tarpa le ali. Io faccio quello che faccio perché è quello che so, se potessi scrivere una hit, certo. Però intanto ho fatto un concerto sulla Ocean Viking. E nessuno lo può dire.