È stato un anno eccezionale per i Fontaines D.C. Hanno pubblicato uno dei dischi migliori del 2024, Romance, raccogliendo ampi consensi da parte della critica e facendosi conoscere da un pubblico più vasto. Ha anche ricevuto un paio di nomination ai Grammy, per il miglior album rock (Romance, appunto) e per la migliore performance di musica alternativa (il singolo Starburster).
«Non vediamo l’ora di andarci, non tanto per camminare sul red carpet e metterci in mostra, ma per avere una bella storia da raccontare quando saremo vecchi», dice il frontman Grian Chatten a bordo di un tour bus a Leeds, a proposito della cerimonia che si terrà a febbraio. «La prenderemo con sana leggerezza e con rispetto, che è la cosa migliore» (non hanno potuto partecipare alla cerimonia del 2021, quando A Hero’s Death era candidato quale miglior album rock e «non essere riusciti ad andare è stata una delusione, per non dire di peggio»).
Siete in tour da un pezzo. Com’è andata finora?
È stato incredibile. Da tempo andare in tour non ci sembrava un’esperienza nuova. Credo sia dovuto all’album e alla risposta del pubblico. So che è noioso sentirlo dire, ma è come se fossimo rinati. Ovviamente la sto pagando e difatti ho il sistema immunitario a terra e sto prendendo del Lemsip. Ma sono grato per come stanno andando i concerti. L’ambiente si scalda piuttosto velocemente.
A livello d’energia c’è qualcosa di diverso rispetto al passato?
È strano, perché appena Romance ha preso slancio, abbiamo iniziato a notare che il pubblico rispondeva in un altro modo. All’inizio faceva un po’ paura, sai, quando la gente si scatenava. Ricordo di aver guardato gli altri, sul palco, pensando: «Cristo santo, non è che dovremmo rafforzare la security?». Ma è stato bello. Il pubblico, in tante città del Regno Unito, è decisamente partecipe. Si diverte.
Ci sono pezzi di Romance che sono cambiati dopo averli suonati dal vivo?
Non vorrei sembrare pretenzioso, ma l’esecuzione di qualunque canzone prevede una parte di apprendimento emotivo e una invece più fisica, che solitamente si completa nell’arco di qualche show. Si tratta più che altro di rilassare il corpo e padroneggiare il pezzo. La prima volta che abbiamo suonato Desire è stato strano dal punto di vista fisico, non capivo se era un brano duro o una ballad. Era una via di mezzo. Ma adesso credo di sapere cos’è ed è qualcosa di nuovo e interessante. Here’s the Thing probabilmente è il pezzo forte dei nostri concerti, ora come ora. È il punto in cui ci avviciniamo più che mai all’anarchia. Se dipendesse da me, inizierei lo spettacolo con Here’s the Thing e starei a vedere dove si va a finire.
Fate sempre un certo numero di canzoni degli album precedenti. Cambiate la scaletta di città in città seguendo qualche criterio particolare?
Abbiamo la sensazione, magari a torto, di sapere quali canzoni potrebbero andare bene in certi posti. Al di là di questo, vogliamo tenere in scaletta una buona parte dei nostri primi pezzi, per tenere i piedi saldamente a terra e non dimenticare da dove veniamo. Fare i pezzi del primo album ci fa capire quanta strada abbiamo fatto e quanta gente in più, oggi, sente le canzoni che abbiamo suonato per anni. È anche un modo per dimostrare gratitudine.
Si è parlato molto, nel bene e nel male, del cambiamento del sound fatto con Romance. Come ci si sente ad attirare più gente?
È una bella sensazione, se non altro per una questione di autostima che aumenta proporzionalmente alla crescita del pubblico. Se avessi l’autostima di cinque anni fa, oggi sarei in difficoltà. Ora mi dico: dai, vediamo che succede.
Cos’è cambiato di preciso?
Risponderò in modo pragmatico, come farebbe l’allenatore di una squadra di calcio, perché non mi viene in mente nulla di vagamente poetico. La mia risposta, d’istinto, è che c’entra il fatto che siamo arrivati a fare quattro album – cinque, se contiamo il mio solista – e siamo ancora qui, cazzo. Ai tempi dei primi due dischi, in particolare il secondo, si avverte un certo senso di precarietà, che è giustificato e probabilmente anche utile. Senti che potrebbe finire tutto da un momento all’altro e ti dici che tanto vale fare quel che vuoi, o almeno per qualche motivo questo meccanismo ha funzionato per noi. Ora sto iniziando a sentirmi più a mio agio all’idea che la gente effettivamente desidera che noi si faccia quel che vogliamo. Non vogliono vederci scendere a compromessi. So che qualcuno pensa che ci siamo già scesi a compromessi, ma per me non è così. Sento che sto facendo la cosa giusta, nella mia vita. Ok, ora smetto di parlare.
Ma no, è bellissimo. Ti senti sotto pressione?
Dopo Romance se penso al prossimo disco mi sento intimorito, ma è una cosa positiva. A essere sincero, una cosa fondamentale che per me è cambiata, anche se è molto noiosa da raccontare, è che ormai non posso più permettermi di ammalarmi durante i tour. Deluderei troppe persone. Cerco di prendermi cura di me stesso, per rispetto nei confronti dei fan. Ecco, da questo punto di vista c’è molta pressione. Per quanto riguarda la scrittura, tutto va come al solito. È come se le canzoni nascessero da sole in tour e alla fine ci troviamo per le mani un album pronto. Sistemiamo i pezzi cambiando qualcosa, li rimpolpiamo, li mettiamo a fuoco e quello diventa il disco. Non siamo mai entrati in studio con un album ancora da scrivere.
Quali difficoltà ti trovi ad affrontare in tour?
La cosa fondamentale è avere sufficiente energia per occuparmi degli amici e della famiglia a casa, rispondere al telefono, essere partecipe delle loro vite. E a volte è difficile trovare la forza per farlo. È facile restare invischiati nei tuoi problemi quando sei in tour. Sei preso dai tuoi programmi e invece è importante restare in contatto con le persone.
Molte testate stanno pubblicando le classifiche dei migliori album del 2024 e spesso i Fontaines ci sono. Vi importa esserci?
A me piace lottare. Trovarci in cima a quelle liste, vincere dei premi, eccetera, un po’ mi preoccupa, perché in qualche modo mi disincentiva a lottare. Vorrei che la gente non ci percepisse come parte dell’establishment. A volte vado un po’ in ansia per questa cosa. Ad ogni modo, non è che ci penso più di tanto, cerco di fare dei buoni concerti e stop. Di solito ti accorgi di questa roba quando meno te l’aspetti. Chissà, magari andrò da mia nonna per la cena di Natale e piano piano comincerò a percepirne l’effetto. Non so.
Ti saresti mai aspettato una risposta del genere, mentre scrivevi Romance?
Non proprio. Però mi sono fatto tatuare la parola “romance” sul braccio, prima di pubblicare o anche solo registrare l’album. Col senno di poi mi chiedo se non è stato un azzardo. Se fosse andata male, sarei andato in giro con un tatuaggio dell’album che aveva messo fine alla nostra carriera, ma forse l’ho fatto inconsciamente per convincermi che la mia opinione di artista era l’unica che contava. È importante cercare di mantenere l’integrità.
È stata una specie di premonizione.
Esatto. O una cosa che ho manifestato, come dicono su Instagram.
Sapete già cosa vi aspetta in futuro?
Un sacco di concerti fino alla fine dell’anno prossimo. Magari faremo un altro disco in quel periodo. Sento che sta per arrivare il momento giusto per sparire per un po’. Non voglio saturare le radio, i feed o altro. Non voglio che questa band sia onnipresente. Sarebbe bene prendere in considerazione l’ipotesi, ma non succederà prima di un altro po’, almeno per un altro disco.
Perché una pausa? Per voi stessi o per gli altri?
È un buon momento dal punto di vista creativo, quindi non voglio fermarmi proprio adesso. Ma so che ci sono altri territori che potremmo esplorare, se smettessimo per un po’ di andare in tour. Non voglio limitarmi a un ambito per il resto della vita, voglio alzare lo sguardo e vedere cos’altro c’è intorno. E quindi a livello creativo so che sarebbe una buona idea fermarsi, a un certo punto. Non voglio che i ragazzi crescano sentendoci nelle autoradio dei genitori, che decidano che non siamo più una band che fa per loro.
Con Romance avete ampliato i vostri orizzonti dal punto di vista musicale. Dove altro pensate di andare in futuro?
Abbiamo sempre avuto l’idea di fare un album folk con influenze tradizionali, ma forse sarebbe più interessante approfondire le suggestioni sonore degli ultimi due dischi. Mi piace pensare agli album in sequenza e capire quale storia racconteranno, quando tutto sarà finito. Dovremmo ragionarci su per bene invece di limitarci a sfornare canzoni senza badare al quadro generale.
Pensi spesso all’eredità che vuoi lasciare?
So che sembro presuntuoso ammettendolo, ma sì, lo faccio sempre più spesso, anche se sono ancora giovane. L’anno prossimo compirò 30 anni, so che non sono poi tanti. Ma sai una cosa? Viene tutto da Blackstar di David Bowie. Ha creato un precedente. Ha lasciato un segno indelebile dal punto di vista creativo. Vorrei dare il mio contributo. Non mi va di inginocchiarmi all’altare del mio ego o scrivere brani su cui posso ballare e fare il figo. Voglio dire qualcosa. Più divento maturo, e forse più sobrio, e più queste cose contano. La longevità è diventata importante.
Mi pare di capire che non ti fermerai tanto presto.
No, non credo. Smettere significherebbe fare un passo indietro. Penso di avertelo già detto: quando sono in movimento mi sembra di non andare avanti, ma quando sono fermo mi sembra di muovermi. Divento subito irrequieto.
Un’ultima domanda che prende spunto da un verso di Horseness Is the Whatness: qual è per te la parola che “fa girare il mondo” da quando l’album è uscito?
Speranza. So che suona smielato, ma il cinismo e il pessimismo mi hanno stancato. Fare il ribelle è roba da ragazzi. Mi sforzo di avere speranza in me stesso e così facendo di offrirne un po’ agli altri.
Da Rolling Stone US.