Molto prima di governare su tutto ciò che la luce tocca, di guidare tutte le creature – dalla formica all’antilope – e di emettere proclami con la gravità di un annunciatore della CNN, Mufasa era solo un cucciolo. Anche lui aveva genitori che lo amavano e lo educavano, e parlavano di un futuro in cui il sole sorgeva e tramontava sul paradiso. Mufasa avrebbe anche vissuto grandi tragedie e grandi avventure, tradimenti e amori, prove di coraggio e l’opportunità di cantare brani che sembrano scritti per Broadway. Per molto tempo è stato semplicemente la figura paterna e il trauma fondante dietro la storia di suo figlio Simba. Sicuramente anche Mufasa meritava la possibilità di essere protagonista, guadagnandosi la sua personale occasione per una storia del cerchio della vita potenziata digitalmente.
Ed ecco che i poteri forti della terra su cui tutte quelle creature belle e luminose camminano hanno ordinato: che ci sia un prequel in uscita per le vacanze di Natale! Ambientato nel cuore profondo della Great Rift Valley del Kenya e in quello un po’ più inquietante che esiste tra l’animazione generata al computer e la realtà, Mufasa – Il re leone (nelle sale italiane dal 19 dicembre, ndt) si basa sul rifacimento del 2019 di Jon Favreau del famoso film Disney, dando al suo sovrano originale, con la voce profonda da basso, la sua origin story. Il fatto che si apra rendendo omaggio al defunto grande James Earl Jones, noto a diverse generazioni come la voce tonante di Mufasa, anziché chiudersi semplicemente con una dedica, è un primo segno che la riverenza per ciò che è venuto prima sarà al centro del gioco. Vale lo stesso per il potere della narrazione come luce guida e la gloria dell’estensione del brand che vengono introdotti fin dall’inizio, con il film che riprende da dove le cose si erano interrotte in modo da poter andare avanti mentre mostra i flashback. Ci raccontiamo storie per vivere. Gli Studios raccontano storie per far felice il loro consiglio di amministrazione e guadagnare. Trovate il centro del diagramma di Venn tra i due, ed è lì che sta questo Hakuna Matata 2.0.
Quello che all’inizio ha attirato l’attenzione non era tanto il fatto che la Disney puntasse a un sequel della sua rivisitazione NatGeo del classico animato, ma chi avevano chiamato per farlo. Barry Jenkins è un autore del XXI secolo, punto e basta, e artisti del genere tendono a irritarsi notevolmente di fronte ai limiti del lavoro su commissione o riescono a sovvertire astutamente il sistema dall’interno. Qui il regista di Moonlight non fa nessuna delle due cose. Ci sono riprese più lunghe del solito in scene destinate al pubblico attuale, selezionate con un montaggio in stile ADHD, più abbellimenti di quanto ci si potrebbe aspettare nei numeri musicali (in particolare in un duetto tra lastre di ghiaccio che deformano le figure), una manciata di immagini – una testa di leone in una nuvola, una lunga inquadratura di un minuscolo animale che si dimena in tondo sott’acqua – che quasi fanno sussultare.
Eppure Jenkins non cerca di introdurre all’improvviso l’estetica d’autore in questo blockbuster per famiglie come pillole in un cucchiaio di zucchero. Ha semplicemente investito nel fare un lavoro al meglio delle sue capacità, per raccontarci una storia che vi entusiasmerà, vi commuoverà, e magari non vi farà pensare per due ore in un modo che è giusto sia per i dirigenti Disney che per il pubblico pagante. E anche se non faremo finta che guardare gattoni della giungla stranamente realistici canticchiare come se fossero ancora personaggi dei cartoni animati non distragga completamente, o che sentire Seth Rogen e Billy Eichner fare battute sotto forma di creature CGI renda il loro duetto meno irritante, o che vedere richiami iconici al film del 1994 non faccia rimpiangere molto di più l’originale, questo prequel trae vantaggio dall’avere dietro la macchina da presa qualcuno che ha il talento di Jenkins. Perché il regista capisce magnificamente quanto possano essere trasformative queste semplici parole: “C’era una volta…”.
Quindi sì, radunatevi intorno alla rupe, perché mentre Simba e Nala (ancora una volta Donald Glover e Beyoncé nella versione originale e Marco Mengoni ed Elisa in quella italiana) vanno alla radura delle nascite per dare un fratello a Kiara (Blue Ivy Carter/Emma Cecile Rigonat), il saggio e onnisciente mandrillo Rafiki (John Kani/Toni Garrani) racconta una storia al giovane. C’era una volta un cucciolo piccolo ma coraggioso di nome Mufasa (Braelyn Rankins/Mattia Moresco) che fu separato da sua madre e suo padre quando un’improvvisa alluvione li spazzò via. Navigando lungo un fiume, incontra un altro cucciolo, Taka (Theo Somolu/Valeriano Corini). Quest’ultimo salva il primo da un coccodrillo affamato e, nonostante l’insistenza del re del branco, Obasi (Lennie James/Pasquale Anselmo), sul fatto che i randagi non siano i benvenuti, Mufasa viene ammesso con riluttanza. La regina Eshe (Thandiwe Newton/Daniela Calò) lo prende sotto la propria ala e gli insegna a cacciare. Lui e il principe Taka diventano fratelli in tutto tranne che nel sangue.
La vita continua, con movimenti più o meno circolari, finché non entrano in scena nuovi orgogliosi personaggi. Sono leoni bianchi, aggressivi e guidati da Kiros (Mads Mikkelsen, che entra immediatamente nel canone dei cattivi Disney beffardi; da noi lo doppia Dario Oppido). Il loro piano per prendere il controllo non prevede sopravvissuti. E per ragioni che non approfondiremo, ha un conto in sospeso con l’ormai adulto Mufasa (Aaron Pierre/Luca Marinelli). Quando Kiros attacca, lui e Taka (Kelvin Harrison Jr./Alberto Boubakar Malanchino) fuggono e si mettono alla ricerca di Milele, alias l’Eden di cui una volta parlavano i genitori di Mufasa. Lungo la strada, incontrano il giovane Rafiki (Kagiso Lediga/Edoardo Stoppacciaro), un fastidioso uccello di nome Zazu (Preston Nyman/Riccardo Suarez Puertas) e una leonessa di nome Sarabi (Tiffany Boone/Elodie).
Da qui Mufasa – Il re leone mette la terza, guidando il gruppo attraverso montagne ghiacciate e verso il mitico Shangri-La. Inseguimenti serrati! Pericoli sfiorati! Fughe di elefanti! L’amore è nell’aria! Le indispensabili canzoni Disney! Non c’è niente di così potente come Hakuna Matata o di maestosamente travolgente come Il cerchio della vita, anche se non per mancanza di tentativi da parte di Lin-Manuel Miranda. Saggiamente, però, il creatore di Hamilton non si mette in competizione con quei brani, ma li vede invece come punti di riferimento a cui puntare, e i suoi contributi alla colonna sonora – in particolare l’inno We Go Together (Ci andremo insieme) e la ballata Tell Me It’s You (Lo so, sei tu), che avrebbe potuto essere un outtake di Hamilton – suonano più come se si stesse facendo in quattro per completare quei primi classici da karaoke (potreste esservi ritrovati a sentire la mancanza del suo tocco dopo Oceania 2, e le jam di Miranda qui ci ricordano perché è nato per questo). Ancora una volta, la riverenza regna sovrana.
Lo stesso vale per un senso di déjà vu, ma questo è previsto dal progetto, e quando si tratta di nuove reiterazioni di amate pietre miliari, sono considerate più una peculiarità che un bug. Non siamo ancora convinti che l’ondata di remake Disney live-action aggiunga molto alle storie originali o al mix complessivo della Casa di Topolino, a parte 10 cc di nostalgia in vena e alcune pile di monete d’oro à la Paperon de’ Paperoni. Quello che Mufasa dimostra, però, è che questi sforzi non devono necessariamente essere dei fallimenti dal punto di vista creativo. Jenkins non cerca di reinventare il volante, né di prendere il controllo della catena di montaggio. Modifica semplicemente il motore per farlo funzionare in modo un po’ più efficiente, per renderlo un po’ meno usa e getta, per darci una guida più fluida. Non prova a imporre la sua sensibilità sulle cose, ma a capire dove la sua visione del mondo e questo gigantesco colosso aziendale potrebbero sincronizzarsi. Il prequel ha lo scopo di riempire gli spazi vuoti di una figura imponente nella tradizione del franchise. È così che Mufasa ha trovato il suo ritmo. La vera eredità di Jenkins in questo senso è un modello per onorare il passato pur riuscendo a spostare le cose qualche passo avanti. Sì, è il cerchio della vita.