Le canzoni dei Cure ci ricordano che là fuori c’è la guerra | Rolling Stone Italia
War Childs

Le canzoni dei Cure ci ricordano che là fuori c’è la guerra

Ecco 10 pezzi a tema del gruppo di Robert Smith, da quelli allegorici a quelli espliciti, da ‘Killing an Arab’ a ‘Warsong’. Come diceva il computer di ‘Wargames’, in un conflitto l’unica mossa vincente è non giocare

Le canzoni dei Cure ci ricordano che là fuori c’è la guerra

Cure

Foto: Pete Still/Redferns

Quando i Cure hanno suonato le canzoni di Songs of a Lost World dal vivo in streaming al Troxy di Londra si pensava fosse una mossa promozionale, ma era anche un modo per fare beneficenza. Le royalties del disco dal vivo uscito la scorsa settimana verranno infatti donate a War Child, la ONG che si occupa di dare un futuro ai bambini vittime delle guerre. Ecco, i Cure e la guerra sembrano, per i più distratti, due mondi separati. In realtà la band ha più volte trattato temi del genere, tanto in maniera allegorica quanto in modo esplicito, prendendo sempre posizioni chiare. Passiamo dunque in rassegna i brani più significativi in questo senso (nella loro storia ci sono momenti particolari come nel 1989 a Roma, quando fecero una cover di Faith lunga 15 minuti netti, dal testo modificato sul momento, dedicandola ai morti di Piazza Tienanmen con un “Don’t forget” finale da antologia).

Warsong

2024

Partiamo dall’ ultimo album. Warsong è una delle canzoni più esplicite del repertorio dei Cure (l’altra è World War, di cui parleremo più avanti). Con un’intro di armonium sfiatato che cita in un sol colpo sia Untitled degli stessi Cure (presente in Disintegration), sia le canzoni abissali della Nico di Desertshore, il brano è secco come un pugno tirato sulla mascella. Una progressione di basso tonante che sembra raccolga l’eredità di Switch dei Banshees e un testo che rimanda a immagini di pochezza morale: tutto quello che la gente fa è guidato dalla guerra. Smith prende coscienza che non c’è affatto redenzione e che l’essere umano va avanti da secoli con impeto suicida ed accecante come i bordoni del solo di Reeves Gabrels, minimalismo scultoreo fatto di feedback e monomaniacalità. In un modo in cui oramai i musicisti girano la testa quando si tratta di dire da che parte stare, i Cure condannano la guerra e soprattutto chi pensa di essere fuori dalla sua costruzione: ne siamo tutti coinvolti, vittime e carnefici, fin dalla nascita. Ed è necessario prenderne coscienza se vogliamo farla finita con i conflitti e la loro reiterazione.

One Hundred Years

1982

Una batteria elettronica fredda e spietata introduce la mazzata del brano d’apertura di Pornography: One Hundred Years non è solo un capolavoro esistenziale costruito su due note due pericolosamente ravvicinate (e soprattutto su un riff di chitarra copiato di peso da Red Money di David Bowie), ma un assalto sonico-politico. Sfiorando il noise, Robert Smith narra di un mondo che ha le mani sporche di sangue: uomini d’affari, politici, massoni decidono le sorti delle nostre vite mandando tutti al macello, tanto “non importa se moriamo tutti”. Le ambizioni sono sul retro di una macchina nera, doppio senso per sottolineare il fatto che il potere porta direttamente alla bara. Il rimando ai patrioti che vengono massacrati combattendo per la libertà in televisione mette sul piatto la violenza alienante dei media che trasforma ogni cosa in un videogioco, e per la prima volta i Cure sono politicamente scoperti nella frase “all shadows and deliverance under a black flag”, in cui la bandiera nera non è altro che quella dell’anarchia. La guerra, la resistenza, il massacro di vite innocenti passano direttamente nella vita quotidiana, e come in un montaggio serrato si passa dalla violenza dello Stato alla storia di una ragazza devastata dalla morte del padre, come se di base fossimo tutti sotto lo sguardo attento di un cecchino. Sono 100 anni di sangue in cui non si riesce a fermare il perenne assassinio, la cui minaccia porta alla pazzia e alla paranoia. Un brano di una forza incredibile che, non a caso, i Cure hanno suonato in apertura del loro concerto per il Live 8 nel 2005 proprio allo scopo di dare una svegliata al pubblico, che magari si aspettava un incipit con qualche loro successo più leggero e commerciale. Invece One Hundred Years dice le cose come stanno: non c’è nessun bisogno di reggere la falce alla morte, come direbbe Brassens. Non serve spargere altro sangue.

Us or Them

2004

Contenuta in The Cure del 2004, musicalmente risente dell’influenza del produttore Ross Robinson, per cui è tutto teso in zona post hardcore/nu metal sfiorando a volte il noise rock (ovviamente mantenendo la cifra Cure). Nessuno stile potrebbe suonare meglio in una cavalcata che inizia come una sfida alle autorità, con un cantato lacerato e quasi monocorde: “Non c’è terrore nel mio cuore / La morte è con tutti noi / La aspiriamo col nostro primo respiro / E la sputiamo mentre cadiamo”. Smith rifiuta la logica del noi contro loro, del terrore, del “Dio è con noi”. Evidente il riferimento al periodo storico che vede l’Occidente e il mondo arabo in guerra, in un delirio post 11 settembre che sembra risucchiare l’umanità in una paranoia sfrenata. Chiarissime le frecciate agli Stati Uniti che nel nome della loro “giustizia” non fanno altro che seminare ancora più terrore, panico e morte gettando benzina sul fuoco, così anche è evidente la condanna al terrorismo islamico. Il brano è un bel masso tirato contro il palazzo, potente e arrabbiato, che dal vivo rende alla grande soprattutto nel 2008, quando le tastiere erano abolite e il brano era assolutamente dirompente.

Your God Is Fear

2004
The Cure - Your God Is Fear

Uno dei principali motori della guerra è la paura: quella che viene instillata nelle menti della gente, che poi è pronta ad avallare l’operato di qualsiasi macellaio pur di sentirsi salva contro un diverso che non si conosce. Ovviamente nel nome di qualche religione o di qualche credo economico. Alla base di qualsiasi fondamentalismo c’è il terrore che lo alimenta. Scritta nel periodo della Seconda guerra del Golfo, è relegata al lato B del singolo Alt.End e rappresenta il secondo brano a tema guerra dell’anno di The Cure, con la già citata Us or Them. Con quel brano condivide le sonorità tipiche à la Ross Robinson e la voce arrabbiata che è chiaramente ispirata al post hardcore degli At the Drive In: frasi lapidarie come “il vostro Dio è paura” o “lasciati morire” la dicono lunga. Il pezzo è formalmente impeccabile, ma non del tutto a fuoco, probabilmente risente del fatto che in quel momento la band, costretta da Robinson, componeva sui testi e non viceversa. Di buono ha che viene preferita l’urgenza alla rifinitura, cosa che di fatto mette il brano in una luce diversa, quella dell’invettiva politica (e in effetti in molti brani folk di questo genere la musica serve solo come tappeto sonoro atto a veicolare il messaggio del testo).

The Empty World

1984

Dicevamo della guerra che entra nelle nostre menti, deragliandole. The Empty World, ispirata dal romanzo di Penelope Farmer Charlotte Sometimes che ha dato vita all’omonimo brano dei Cure, è il quadretto di una ragazza folle che nella sua mente ha un vero e proprio esercito che la imprigiona in un mondo vuoto. La canzone si fregia del ritmo marziale di Andy Anderson, sulla cui marcetta si dipanano bassi allucinogeni e flautini di piombo, in un’atmosfera alla Lewis Carroll. La protagonista, in sogno, combatte con dei soldatini in una guerra in cui è morto il figlio della sua tutrice, probabilmente la Prima guerra mondiale. Inclusa in The Top, la prova più psichedelica dei Cure, è uno dei brani più toccanti e misteriosi del lotto, proprio per l’aura ambigua tra l’onirico e il claustrofobico che è la perfetta descrizione della minaccia bellica e della pazzia da essa indotta (la protagonista arriva addirittura a sentirsi orgogliosa di combattere nel suo delirio). È tornata da un bel po’ nelle scalette della band dopo un periodo di oblio, segno che forse i tempi grigi che corriamo sono maturi per rivalutarla come attualissima.

World War

1980

Presente nella semiraccolta Boys Don’t Cry creata appositamente per il mercato americano, World War è uno dei primi brani scritti dal tridente Smith/Dempsey/Tolhurst in piena era Three Imaginary Boys. Scelta più dal produttore Chris Perry che dal gruppo (Smith la ripudierà), è uno di quei brani in cui l’influenza di Hendrix è più palese (soprattutto nel delirio chitarristico nell’intermezzo, nel cantato e nei feedback relativi) ed è raramente suonato dal vivo. Eppure nel suo sound diretto e nell’arrangiamento scarno che punta al sodo si sentono addirittura echi del grunge che verrà. Il testo è ancora più esplicito (perfetto nella sua ingenuità adolescenziale) e senza mezzi termini dice come stanno le cose: nella guerra mondiale “non c’è vincitore, né sconfitto, solo un amico morto”. La distruzione non fa altro che seminare odio fratricida tanto da far resuscitare vecchi fantasmi che ribussano alla porta con fare manipolatorio.

Fight

1987

I Cure sono famosi per i loro brani esistenziali, il che non vuol dire disimpegno, ma passare dritti nella cruna dell’ago della metafisica: con Fight per la prima volta sono espliciti nella necessità di combattere, ma non in senso offensivo quanto difensivo. In poche parole, resistenza: alla depressione, al mondo che schiaccia, agli orrori della vita e appunto della guerra. Mai arrendersi dice Smith, mai lasciarsi sopraffare. Sopra un riff epico (pare farina del sacco di Porl Thompson) il brano è uno dei più sentiti inni all’autodeterminazione mai scritti dai Cure.

Killing an Arab

1980

Se c’è un brano in cui è definita l’inutilità della guerra, questo è Killing an Arab. Un brano che sarebbe bastato, e in effetti basta e avanza, a eternare i Cure. Un minimalismo che taglia come un rasoio, un pezzo di devastante crudezza ispirato a Lo straniero di Camus e in particolare al momento dell’assassinio dell’arabo sulla spiaggia in cui oramai l’alienazione del protagonista, pistola alla mano, è irreversibile: “Tutto quello che io posso scegliere è lo stesso: assolutamente niente”. Ecco, la guerra è principalmente alienazione riguardo al valore delle vite umane: e se all’inizio Killing an Arab rimaneva nel solco dell’esistenzialismo – non necessariamente quindi riferito a un discorso bellico – ecco che con le Guerre del golfo e l’11 settembre ha assunto nuovi connotati, profetici. Viene infatti improvvisamente accusato di razzismo e di instillare odio contro gli arabi: inutilmente i Cure applicheranno adesivi sulle compilation in cui il brano è contenuto per dissuaderne ogni interpretazione distorta, ma sarà inutile. Sul pezzo si abbatterà la censura che porterà a una revisione del titolo, che diventa Killing Another. Le versioni dal vivo, una volta passate le polemiche, sono di una potenza e di una rabbia devastante.

The Waling Wall

1984

In un contesto come l’attuale in cui il massacro dei palestinesi è sotto gli occhi di tutti, questo brano assume un nuovo significato. Ispirato da Smith durante un tour coi Banshees in Israele, racconta della sua visita al Muro del pianto. Nella musica, una versione psichedelica delle arie mediorientali già sperimentate in Killing an Arab, si sente la minaccia degli avvoltoi che sovrastano la sacralità del luogo. Si evoca probabilmente anche l’Intifada. Questa terra promessa che è nello stesso tempo luogo spirituale e motivo di spargimenti infiniti di sangue sembra terribile. D’altronde Gerusalemme secondo Smith “respira come un uomo che muore”, come gli effetti sonori che aprono e chiudono il pezzo, un incessante rantolare che ricorda esseri umani strangolati nell’agonia di un conflitto, quello mediorientale, intriso di eterno e irrisolto dolore.

Dredd Song

1995
Dredd Song (From Judge Dredd Ost)

Probabilmente la canzone più sottovalutata dei Cure, perché vista come un prodotto su commissione e non separabile dalla colonna sonora del film Dredd: la legge sono io, è in realtà da considerarsi la sorella minore di Fight, in cui i Cure ribadiscono apparentemente concetti fondamentali: che per trasformare i sogni in realtà bisogna sempre combattere, per quanto faccia male, che non bisogna dirsi che è finita, che non ci si deve mai arrendere. Ovviamente gli appassionati sanno che una figura come Judge Dredd, il superpoliziotto distopico dei fumetti, nasce come grottesca parodia di un’America sempre più virata verso lo stato di polizia e che rappresenta non un modello ma l’anti-modello per eccellenza. Quindi probabilmente nel testo – cosa che forse non si è colta appieno – frasi ambigue come “solo il debole ricorda di dimenticare” sono coerenti con la ferrea logica malata del personaggio (ricordiamo in questo senso anche l’illustre precedente “Io sono la legge” degli Human League di Dare, di cui Smith è sempre stato sperticato fan), tanto che dietro alla sfilza di “never say” piuttosto perentoria, imperativa e “marziale” si nasconde l’invito a disertare. Perché come diceva il computer del film Wargames nel quale la guerra atomica sta per essere scatenata da un videogioco, «l’unica mossa vincente è non giocare». Oppure, come fanno i Cure, suonare a scopi benefici ricordando sempre che siamo tutti nella stessa trincea: “Per quanto difficile possa essere / Per quanto doloroso possa essere / Credi in me / Come io credo in te”.

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