Se è vero che la personalità di un individuo inizia a manifestarsi intorno ai tre anni d’età, Donatella Rettore decide di spaccare il millisecondo mostrandosi per quella che è nel giorno esatto del suo terzo compleanno. È l’8 luglio 1958 e un’orchestrina sta intrattenendo i clienti accaldati nel dehors del Florian, il più antico caffè al mondo, in piena Piazza San Marco a Venezia. In qualche modo, la piccola peste riesce a divincolarsi dalle braccia della madre, salire sul palco e gridare: «Ecco a voi, Mike Bongiorno!». La piccola folla scoppia a ridere, compreso il padre Sergio.
Da quel momento, la giovane star inizia a esibirsi regolarmente al bar, sfoggiando una precocissima cazzimma che rimane illibata tutt’oggi. «Per mia madre invece il palco era qualcosa di sacro», mi racconta Dona, come la chiamano tutti, mentre le verso nel bicchiere la sua birra preferita, sarda e non filtrata. «Era un’attrice goldoniana di teatro, si sentiva un’artista dotta». Finché gli spettacolini della figlioletta rimangono uno scherzo tra bambini, come la sua prima band i Cobra (!), allora tutto fila liscio. Quando però, a 15 anni, arriva la prima occasione di fuggire da Castelfranco Veneto per un ingaggio ufficiale nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, è proprio la madre Teresita a opporsi.
Ma la storia, come sappiamo, parla chiaro: nulla, che siano i collegi delle suore, le madri preoccupate, il sessismo di stampo patriarcale dell’industria musicale italiana, le malelingue, il tempo o persino il cancro può fermare il putiferio iconoclasta che porta il nome di Rettore. E proprio Antidiva Putiferio è il nome che Donatella ha scelto per il suo ritorno discografico a 14 anni dall’ultimo Caduta massi. Un disco che, ognuno dica poi quel che vuole, è giovane e ribelle come la donna che lo ha firmato.
Con i 70 anni dietro l’angolo, non è semplicemente sorprendente che una persona possa rimanere così biologicamente florida artisticamente. È proprio un ceffone in faccia alle leggi della natura che l’energia frizzante, l’entusiasmo, l’innocenza maliziosa e provocatrice di una ventenne possa mantenersi intatta in un essere umano. Ho 35 anni e chiacchierare con Rettore per un’ora su un divano di uno studio fotografico di Milano mi ha fatto sentire vecchio e in colpa. Mi ha schiaffato in faccia la prova che si può diventare grandi senza diventare pallosi. Che ce la si può fare ad avere qualche ruga e continuare lo stesso a far ridere le persone come quando sei sicuro di te come le persone nel fiore degli anni. Anziché provare quel misto di compassione, noia e imbarazzo quando parli con qualcuno che ha almeno 40 anni più di te. Rettore non ha età, sarà giovane per sempre.
Ribelle come nei ’70, quando scandalizzava le signore impellicciate di Sanremo lanciando caramelle sul pubblico, oltraggiosa come negli ’80, quando cantava a un’Italia ancora radicatamente democristiana capolavori pop che parlavano di cazzi e suicidio (Kobra e Lamette): ma allora dove sta il segreto di questa longevità spirituale? «Non c’è nessun segreto, è questo il segreto». Basta semplicemente controllare ogni mattina di non aver perso la naïveté, quella innocenza da bambino su cui Camus giustamente rompeva tanto il cazzo ai suoi lettori adulti. Beninteso: è la stessa energia che poi causa a Donatella delle plateali culate a terra nel tentativo di scalare un albero e abbracciarlo «per carpirne le energie». La stessa che le fa dimenticare completamente la lista della spesa prima di andare al mercato. La stessa che la tiene ostinatamente, con il gelo pungente o il caldo torrido, in un prato ad addestrare i suoi tre meravigliosi Collie.
Scrive tutti i giorni, ma su un bloc-notes. Il computer non le piace, anche perché le dà fastidio la luce dello schermo. Molto meglio il verde, i cani, la buona musica e chi non le rompe le scatole. In questo senso, il brano del 1995 intitolato Lasciamo vivere gli abeti, coloriamo le suore potrebbe essere un buon titolo del suo manifesto.
A coronamento di una vita straordinaria c’è probabilmente uno dei sodalizi artistici e sentimentali più longevi della storia della musica italiana, quello col marito e produttore Claudio Rego. Un record, penso imbattuto, che si traduce in 50 anni di dischi incredibili scritti a quattro mani. Non mi vengono in mente esempi di coppie che possano reggere il confronto. «Dai, ma anche Carmen Russo e suo marito. Però loro sono ballerini. Sono comunque artisti». Mogol e Battisti? Fruttuoso magari, ma affettivo ben poco. I due si stavano sul cazzo, alla fine. «Ma anche durante, mi sa. Io ho conosciuto entrambi: Lucio era un’anima leggera, l’altro un po’ meno». Allora per forza dev’essere lei, l’Antidiva Putiferio che dopo cinque ore di shooting fotografico, pose e cambi vestiti si siede pimpante al divano per chiacchierare. Birretta in mano e parlantina facilissima. Piccola nota: alla fine dell’intervista ci sono delle bestemmie. Per cui, per correttezza, ho sostituito dove necessario la lettera D con la X.
Foto: Gianluca Fontana per Rolling Stone Italia
Ci si fa mai l’abitudine a questi shooting eterni?
Quando sono creativi, interessanti e con persone talentuose come Gianluca Fontana è un piacere. Anche perché ultimamente i fotografi latitano. Finalmente, dopo tanti anni, ne ho rincontrato uno!
Latitano? A me sembra l’opposto. Ormai tutti fotografi.
Ah beh, io ti parlo di quelli veri, quelli bravi. Uno di questi è donna, si chiama Virginia Bettoja, anche lei è molto talentuosa. Ma se ti dovessi dire, vedendo le foto che mi scattano magari ai concerti, spesso sono bellissime ma non so di chi siano. Quando poi fai la foto in posa, sul set, quasi sempre viene bruttissima, orribile. Robe che dici: «Ma tu, di tutte le foto che hai fatto, proprio questa dovevi scegliere?». Ti mettono in posizioni assurde. Dal basso verso l’alto inquadrandoti praticamente solo la cintura e tagliando via la testa. Ma che cazzo di foto sono? Ma non si può fa’ de mejo? Sono tutti fotografi, ma hanno perso il gusto dell’inquadratura. Ecco perché ora, prima di farmi fotografare per le riviste o per il web, vado a ricercarmi i lavori di chi mi dovrà scattare. Anche perché, dei miei fotografi storici, due sono morti e uno ha il Parkinson, povero. Gente capacissima, guarda, un peccato.
Quindi sei antidiva anche mentre sei in posa sul set?
Certo. Io sono l’esatto opposto di una diva. Io vado al mercato, solo che poi combino casini. Mi scrivo su un foglietto la lista della spesa prima di andarci. L’attacco al frigorifero e pian piano ci aggiungo le cose che mi servono tipo, che ne so, i detersivi. No? Poi esco di casa con questa Schindler’s List e per prima cosa mi dimentico di portare le borse di tela e i sacchetti. Per cui arrivo al mercato e me li fanno giustamente pagare. Sai, quelli biodegradabili che ci metti metti dentro una mela, si buca subito il sacchetto e viene fuori dall’altra parte. Ma vabbè. Insomma, arrivo lì e vengo attratta dalle bancarelle, i negozi, le luci, il vociare della gente che mi chiama, mi saluta. Quindi perdo completamente la concentrazione e finisco per comprare tutto l’opposto di quello che mi serviva. «Oh, ma guarda che bello quel cuscino!». E invece dovevo comprare i broccoli e i fagioli. «Uh, ma queste lenzuola stanno benissimo sul mio letto!». E poi torno a casa e non c’è niente da mangiare. E allora Rego dice: «Vabbè, vado io a far la spesa al supermercato che è aperto fino alle 9».
In effetti, nel 1981 cantavi “cancellatemi la diva”.
Sì, e anche “ghigliottinatemi la diva” perché era “stufa del male che dicono di lei”. E non hanno mai smesso. Le malelingue ci sono sempre state. Ora ci sono pure in formato virtuale, digitale.
E infatti il nuovo album si apre con la title track, che sostanzialmente è un’invettiva contro l’alienazione da social.
Ormai sembra che tutti per forza debbano avere un’opinione su tutto. Per crearsi un’opinione però bisogna documentarsi, bisogna leggere e non i messaggetti. Non bisogna seguire gli influencer, bisogna leggere Italo Svevo, Coelho.
Tu cosa leggi di solito?
Un po’ di tutto, ma prediligo i libri di Maria Luisa Frisa perché parla del costume, della società e della moda. È una professoressa molto preparata, molto dotta, che insegna a Ca’ Foscari e che non si ferma alla semplice immagine. Dietro l’immagine c’è un cuore, un pensiero, una pancia. C’è sempre un lavoro, spesso di più teste, atto a suscitare piacere nell’osservatore. I social tendono ad appiattire questa cosa, tant’è che non li uso. Io compro i giornali. Avevo cominciato a usare Facebook o Instagram, ma poi ho delegato tutto al mio ragazzo web. È il mio assistente per i social, ma io lo chiamo il ragazzo web. Gli mando delle storie e dei video e lui sa cosa si può postare e cosa no. Altrimenti io posterei tutto, anche quando casco. Io sono una che casca. Quest’anno per esempio sono cascata da un albero.
Oddio, Donatella. Cosa ci facevi sull’albero?
Io mi arrampico. Lo volevo abbracciare per prendere delle energie positive.
Ah, e che albero era?
Un tasso.
Ah, quindi una pianta estremamente velenosa.
È velenoso il tasso?
Minchia, sì. Lo chiamano l’albero della morte. L’unica parte commestibile è la polpa rossa della bacca quando è matura. Ma anche lì devi stare all’occhio a non mangiare il semino che sta all’interno, anche quello mega velenoso.
Beh, infatti è stato un albero cattivo con me. Io pensavo che ci fosse un ramo sotto il piede, invece non c’era. Ho mollato gli artigli e sono andata lunga. Se cerchi il video lo trovi ancora secondo me. A momenti mi spacco la schiena.
Foto: Gianluca Fontana per Rolling Stone Italia
Comunque mi è piaciuto molto questo ritorno al Veneto, dai riferimenti allo Spritz in Disco Prosecco feat. BigMama alla storia di Malamocco, che in realtà in pochi conoscono.
Non la sa nessuno perché i veneti sono un po’ mistici. Non sono solo bigotti. Negli anni ’70/’80 sono ridiventati un po’ bigotti e adesso lo sono meno. Nell’antichità, però, quando mangiavano solo poenta e c’avevano la pellagra, pregavano. La sera si riunivano davanti al fuoco, quando ancora era una regione fredda e umida, e la sera chiamavano i morti. Mentre la polenta e le castagne erano sul fuoco. E pare che questi morti li vedessero davvero, sui muri e un po’ ovunque. Anch’io da ragazza ho trovato la mia tomba.
In che senso, scusa?
Ho trovato la mia tomba, ad Assisi, che è un posto magico. Questa cosa è tanto tempo che non la racconto. Eravamo in tournée, la mia prima da solista coi miei ballerini (il Rally canoro presentato da Corrado nell’estate del 1979, nda). Un giorno siamo andati a Vasto e siamo stati tutto il giorno al mare. Soffiava questo vento costante, quasi una voce: uuuuh… Allora, devi sapere che io non entro nei cimiteri.
Io invece li adoro.
Di che segno sei?
Mi dicono Ariete ascendente Ariete.
Maria vergine, sei fuori di testa! Però io ti devo piacere, perché sono strana anche io.
Infatti mi piaci tantissimo. Scusami l’interruzione: c’era un cimitero.
Dopo tutto il mare burrascoso, il mare, la sabbia, ho visto questo bellissimo posto verde. Era il cimitero del Commonwealth, un cimitero di guerra con tutti i soldati inglesi, quindi protestanti, sepolti lì. Non era un cimitero tipo i nostri, con le lapidi tutte diverse. Erano tutte croci identiche, messe in fila. Ho trovato tra queste tombe quella di Thomas George Pembling, morto l’8 luglio del ’44. Io sono nata l’8 luglio.
Sì, ma tu sei nata nel ’55.
Aspetta, non finisce qui. Io poi sono andata nel tabernacolo del cimitero a vedere chi fosse questo Pembling. Sai no che c’è il libro, il registro dei caduti? Viene fuori che era un tenente della Royal Air Force e sotto il nome c’era l’indirizzo di casa sua. Me lo sono segnato e quando sono andata a Londra sono andata lì. Era sotto Natale. Gironzolando lì intorno per il quartiere ho trovato un gattino che al collare aveva una pallina col numero di telefono. Allora ho preso in braccio questo bellissimo gatto nero con la pallina rossa perché era chiaro che era scappato da casa di qualcuno. Aveva una voce che sembrava un bambino. A un certo punto si apre una porta, vedono il gatto e mi ringraziano «Thank you!». E m’invitano a entrare. Era la famiglia Pembling. Mi hanno offerto il pudding, mi volevano dare 50 sterline, ma ho declinato gentilmente.
E non gli hai detto niente della tomba?
No, niente. Probabilmente ho visto in quella casa delle mie figlie, delle mie nipoti di un’altra vita.
Foto: Gianluca Fontana per Rolling Stone Italia
È comunque un disco che parla di vita, ma anche di morte.
Sì, amore e morte, è fondamentale. Sono platoniana, vivo il momento con spensieratezza. Lontana da ciò che mi opprime
Dal Veneto infatti, a una certa, sei fuggita. Eri una ragazzina.
Sì, perché mi dicevano: «Beh, sì, brava. Canti bene. Ma di lavoro cosa vuoi fare?». Io già a tre anni cantavo. Ho scoperto a quell’età la musica dal vivo grazie alle orchestre della Fenice. Non l’ho scoperta con la televisione, ma con la meraviglia di vedere i fiati, gli archetti. Il giorno del mio terzo compleanno, sono riuscita a sgattaiolare dalle braccia di mia madre, salire in qualche modo sul palco e urlare: «Ecco a voi Mike Bongiorno!». L’intero pubblico è scoppiato a ridere, compreso mio padre che era lì. Quello è stato il compleanno più bello della mia vita.
Tua madre tra l’altro era un’attrice di teatro.
Sì, e pure goldoniana. Questa cosa del palco ce l’aveva molto più lei di me. Lei si sentiva un’attrice dotta. Goldoni era ironico, a tratti erotico, ma comunque raccontava cose importanti. Quindi era un’artista seria a tutti gli effetti. Io a 15 anni già stavo sul palco, non a Venezia ma a Salerno, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, per fare Ippolita e Giulietta come ruoli. Pensavano che avessi 18 anni. Poi però hanno dovuto chiedere a mio padre il permesso per iscrivermi alla Camera dei lavoratori dello spettacolo.
E tuo padre ti ha dato il permesso, quindi.
Mio padre sì, ma mia madre no! Allora io le ho detto: «Se non mi fai andare, io spacco questo vetro» e lei mi ha sfidato: «Spaccalo, allora!». E io l’ho spaccato. Mi sono anche fatta male tagliandomi. E così mi ha dovuto accompagnare lei allo spettacolo, nel giorno di pausa del teatro di mia madre che era il lunedì, perché mio padre lavorava.
Tu comunque sei stata una delle prime a cantare contro il sistema patriarcale, già nel tuo secondo album del ’77.
Sì, Il patriarca è una bellissima canzone. Sentivo tantissimo il peso del patriarcato su di me. Il mio produttore e capo, Roberto Dané, che era anche il produttore di De André, era profondamente misogino. Io sono l’unica donna che abbia mai prodotto e gli stavo proprio sulle palle. Non mi facevo mettere i piedi in testa. Poi in realtà nella vita ho trovato anche tanti uomini che mi hanno aiutato e voluto bene come sorella, come figlia. E adesso anche come mamma.
Tra questi c’era anche Elton John, no? Ti ha scritto due canzoni.
Oh, Elton John non mi sopportava! Cioè, era contento di collaborare e tutto. Però io ero una ragazzina esuberante e iperattiva dal Veneto. Lui c’aveva i suoi boys e i cazzi suoi, figurati quanto tempo poteva sopportarmi. Una mezz’oretta me la dedicava anche. Mi faceva anche una suonatina al piano dicendomi: «Senti se ti piace ‘sto pezzo». Però, dopo un po’ che eravamo a bere la birra o il tè mi liquidava con un: «Bye, Dona, I got my own business. Ciao ciao!». Al che un giorno gli ho chiesto di consigliarmi un posto per far ginnastica. Sai, da italiana, nessuno lì mi conosce, quindi non mi prendeva nessuno. Allora Elton mi ha detto: «Ti chiamo George Michael e ti porta lui». E allora George mi ha portato gratis nella palestra più lussuosa di King’s Road, a Chelsea. Mi ha anche detto: «Ti capisco, Donatella, io sono greco. Anche a me prima non mi prendevano». Poi tutti gli altri invece ci provavano, eh. Quelli della Rocket (etichetta fondata da Elton John, nda) che non erano gay facevano un po’ i cascamorti con me. Io li mandavo a quel paese.
A questo punto ci portano le birre, che provvedo subito a versare nei nostri bicchieri.
Tu bevi solo birra?
No, bevo anche il rosso.
Non il bianco e il Prosecco?
No, perché non è più il Prosecco di una volta. Troppi diserbanti. Se vai nelle colline asolane trovi le famiglie disperate, ma lasciamo perdere perché qui si toccano tasti dolenti. Io preferisco un bell’Amarone della Valpolicella e sono contenta. Pochi anni fa ne ho bevuto uno dell’85 ed era spaziale. Mi piacciono i rossi stagionati, che sanno di frutta frossa e di legno.
Però Disco Prosecco c’è.
Sì. Inizialmente non avevo pensato a BigMama come collaborazione, ma a Dito (nellapiaga, nda). Perché Dito ormai fa parte di me. Abbiamo anche cantato insieme dieci giorni fa, quando si è rotta un dente. Sono uscita io dal palco, il pubblico ha applaudito, lei si è mossa e si è presa una microfonata sul dente, che si è scheggiato. Povera. Ora però è già a posto, anche perché pare che suo zio sia il più bravo dentista di Roma. Buono a sapersi! Però alla fine BigMama è un’ottima soluzione. Ha molto talento, è una forza della natura.
Beh, è stato comunque uno spasso il duetto con Ditonellapiaga a Sanremo nel 2022.
Sì, ci siamo divertite un sacco.
Foto: Gianluca Fontana per Rolling Stone Italia
Che mi dici del tuo primo Sanremo nel ’74?
Vabbè, ma lì andavo ancora a scuola, non capivo un cazzo. Io quell’anno volevo fare il Festival di Castrocaro, però mi avevano detto che per quello era ormai tardi per iscriversi. Allora mi hanno detto: «Se vuoi ti mettiamo nelle giovani di Sanremo». Mi hanno buttato dentro perché dovevano fare numero. O almeno, credevano che con me avrebbero fatto solo numero. Se vai a vederti i giornali dell’epoca, erano venuti tutti da me per sentire quello che dicevo. Nessuno si cagava i big perché c’ero io che facevo il putiferio.
E che mi dici del secondo, nel ’77? Quando hai cantato Carmela lanciando caramelle sul pubblico, che non la prese molto bene.
Lì conta che erano tutti maschi in gara. Due donne. La terza donna c’era, che era Antonella Ruggiero, ma faceva parte di una band di maschi, i Matia Bazar. L’altra donna oltre a me era Daniela Davoli, che cantava canzoni d’amore. E poi c’ero io, che cantavo Carmela, che è una canzone partigiana della rivoluzione spagnola. Certo che si sono incazzati, perché le caramelle non le ho lanciate come se fossero fiori. Le lanciavo come se fossero molotov. «Vaffanculo alle pellicce!». Però ora, se posso essere sincera, tutti parlano male di Amadeus. Io però posso parlarne solo bene. Ha avuto anche il culo di fare il Sanremo più sofisticato e contemporaneo di sempre: quello del Covid. Non c’erano più le signore impelliciate tra il pubblico, quelle dell’alta società che vanno lì per sfoggiare il nuovo gioiellone acquistato. Per far vedere l’ultimo gatto morto che si sono messe attorno al collo.
Certo, quelle a cui non frega un beneamato cazzo della musica.
Esattamente. Grazie a quel Sanremo pandemico, ci siamo liberati dei soliti vecchi, che erano sempre gli stessi. Così facendo ci siamo goduti gente assurda come Achille Lauro. E poi cantare Splendido splendente con La Rappresentante di Lista senza pubblico è stata una goduria allucinante. È stato bello anche il 2022. Lì ok, stavano tutti sull’attenti e abbiamo fatto 10 mila tamponi, però ci parlavamo tra cantanti, capisci? È stato bellissimo chiacchierare con Elisa, Giusy Ferreri, Noemi. Con Malika siamo diventati culo e camicia. Devi capire che Sanremo non è mai stato così prima di allora. Non parlavamo mai. C’erano gli uffici stampa, i manager, le etichette che si mettevano sempre tra gli artisti.
La pandemia per te non è stata solo rose e fiori, però. Come hai scoperto del cancro al seno?
Era un periodo che in realtà stavo benissimo. Però comunque ho fatto una visita di controllo dalla mia dottoressa, che a un certo punto mi fa: «Mmm, non mi piace questo sassolino che sento qui». Ma come? Il Pap Test era posto, tutto il resto a posto. «Eh sì, ma questo sassolino non mi piace. Lei domani va a fare ecografia e mammografia». Mi hanno fatto fare una seconda ecografia per sicurezza, dopodiché mi hanno direttamente fatto l’ago aspirato. Era febbraio 2020. A marzo mi hanno ricoverato e operato all’Istituto Oncologico Veneto. Era il 5 marzo. Avevano chiuso tutto. Castelfranco era il deserto. Era bellissima, tutta illuminata, col castello medievale in bella vista. Era tutta per me, per Claudio e per i Collie. Io nella vita ho avuto amiche e colleghe che un giorno stavano bene e l’altro avevano un cancro spaventoso e in poco tempo se ne sono andate.
Per questo bisogna sempre farsi i controlli.
Tu pensa che il giorno che mi hanno ricoverato ho voluto andare sola. Non volevo che Claudio stesse male. Io sono sicura al 100% che in quel periodo lui piangesse sempre, ma me lo nascondeva. Però io lo vedevo che aveva sempre gli occhi rossi e gonfi di chi ha appena pianto. Poi invece dopo l’operazione è venuta fuori una bellissima primavera. Siamo sempre stati fuori, coi cani, al sole.
Foto: Gianluca Fontana per Rolling Stone Italia
Tu giri tranquillamente per Castelfranco?
Sì, io giro e fino a che mi garba faccio tutti i selfie. Se mi rompono le palle li mando a fare in culo. Anche perché io ho i cani al guinzaglio che mi tirano e mi guardano come per dire: allora, che stamo a fa’?
Sono tre Border Collie?
Due Border Collie e un Rough Collie, che è la stessa razza di Lassie. I primi due sono da agility dog, il Rough invece è da concorsi di bellezza.
Io invece ho un bassotto a pelo ruvido che ha un problema con gli uomini. Se sei una donna tutto ok, se sei un uomo sconosciuto ti morde.
E allora ha capito tutto! Comunque io sono istruttore ed educatore cinofilo, se ti serve. Prima di ricevere nel 2023 il diploma honoris causa in Management delle risorse artistiche e culturali allo IULM di Milano, mi sono iscritta alla scuola di Massimo Perla per diventare istruttore di cani. Perché ho pensato che nella vita bisogna sempre avere un piano B. Sono diplomata da interprete simultanea, ma dovrei fare aggiornamenti e cose perché le lingue cambiano. Insomma, dal 2001 ho questa passione che è davvero liberatoria. Continuo ad addestrare e addestrarmi, perché anche l’addestratore ha bisogno di altri occhi che lo guardino. Il bello di fare l’agility dog, quindi il percorso a ostacoli, è che lo fai al gelo, col caldo torrido, sotto la pioggia, ma lo fai con passione. Il più insidioso è il caldo. Bisogna farlo nelle ore della sera, perché il cane rischia il colpo di calore. Io però sono astigmatica e ci vedo poco. Quindi devo fare la conduzione con gli occhiali e mi danno molto fastidio.
Tu bestemmi spesso? Perché io mi porto sempre nel cuore quel video dove, alla fine di un live nella tua regione, urli al pubblico: «Sangue del mio sangue! Evviva il Veneto, porco Xio!» Quel video mi riempie di gioia ogni volta.
Questa è una cosa che mi porto dall’infanzia. Quando ero piccola, di fronte a casa mia, stavano costruendo una palazzina. Avrò avuto anche lì tre anni. Stando alla finestra a guardare i muratori che lavoravano. Puoi immaginartelo: le parole che sentivo più spesso erano Xiocan, porco Xio e, onestamente, la più bella e liberatoria di tutte: porca Maxonna. Un bel giorno di Pasqua arriva a casa nostra il prete. Allora fa per avvicinarsi e darmi la benedizione col battocchio. Solo che mi prende in pieno nell’occhio con l’acqua santa, io lo guardo e dico: «Xiocan!». Oh, voleva portarmi alla Madonna del Caravaggio, dove gli esorcisti portano i posseduti dal demonio. «La bambina è maledetta! È posseduta!». E mia mamma che cercava di spiegargli che stavo solo ripetendo quello che sentivo dire ai muratori. Ecco, se un giorno faranno un film su di me, vorrei che la scena di apertura fosse quella. Una bambina di tre anni coi capelli biondi, ricci e sudati che guarda il prete e gli bestemmia in faccia.
Foto: Gianluca Fontana per Rolling Stone Italia
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Foto: Gianluca Fontana
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RS producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion editor: Francesca Piovano
Talent stylist: Federica Reali
Stylist assistant: Camilla Perruccio
Make up artist: Maddalena Brando per Making Beauty
Hair styling: Sergio Castiglia per Grant Hairdresser
1st photographer assistant, lights: Fernando Avila
2nd photographer assistant, digital: Arnaldo Abba