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Parlare di Spotify per parlare dei padroni della musica

Le canzoni non sono più arte e nemmeno artigianato. Sono contenuti, prodotti. Nel libro ‘Mood Machine’, Liz Pelly si chiede: come facciamo a liberare la musica dall’influenza delle piattaforme di streaming, della cultura dell’algoritmo, degli artisti fake?

Parlare di Spotify per parlare dei padroni della musica

Illustrazione di Matthew Cooley

Quand’arriva dicembre Liz Pelly, che da una decina d’anni dedica saggi e analisi a Spotify e ai suoi meccanismi, attende il giorno di Wrapped in preda a un misto di orrore e speranza. Orrore perché quando gli utenti postano le statistiche dei loro ascolti fornite dalla piattaforma, ha l’impressione d’essere sommersa da pubblicità fatta gratuitamente a una multinazionale. Speranza perché negli ultimi anni Wrapped ha fornito l’occasione per denunciare le pratiche di un’azienda che, come sostiene Pelly nel libro Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist, ha danneggiato le vite di tantissimi musicisti e ascoltatori, trattando la musica «come un prodotto più che come una forma d’arte». Nell’ultimo anno le critiche sono state ancora più aspre e quindi Wrapped è diventato per Pelly «un monito del fatto che non è una questione secondaria riflettere sui problemi che ascoltatori e musicisti devono affrontare nell’era dello streaming».

Di questo parla Mood Machine, che è in parte un’indagine sulle procedure interne dell’azienda e in parte un trattato in cui Spotify serve per «addentrarsi in un panorama più ampio» fatto di potere, politica, lavoro e capitalismo della sorveglianza. «Scrivendolo ho capito che quello in corso non è un dibattito per decidere qual è la piattaforma di streaming più etica. La domanda non è: quale app posso usare in alternativa a Spotify, Apple Music o Amazon Music? La domanda è: come possiamo ridurre il potere delle aziende nei confronti della musica e della cultura? Come posiamo ridurre al minimo l’influenza delle multinazionali sulle nostre vite?».

Per gran parte degli anni ’10, quando viveva e lavorava in uno spazio artistico chiamato Silent Barn a Brooklyn, Pelly ha fatto parte della scena legata alla musica indipendente di cui parla in Mood Machine. Chiunque abbia familiarità coi suoi scritti non sarà sorpreso del giudizio espresso nel libro sulla piattaforma e sullo streaming in generale. «La storia di Spotify» scrive «è la storia di zelantissimi e opportunisti tecnocrati del XXI secolo, di miliardari e delle loro tecnologie sopravvalutate che si guardano attorno in cerca di problemi da risolvere, ignorando le macerie sociali che si lasciano alle spalle».

Il lavoro di Pelly contribuisce da tempo ad alimentare la conversazione su questi temi. Mood Machine non fa eccezione: prima ancora che il libro uscisse, un estratto pubblicato da Harper’s ha spinto Jack Antonoff a commentare che l’idea che i servizi di streaming svalutino la musica «riassume perfettamente la situazione».

Hai parlato con qualcuno di Spotify per scrivere il libro?
Per me era più importante riportare punti di vista che non vengono riportati spesso dai media tradizionali: quelli dei musicisti, degli organizzatori, dei ricercatori, di chi lavora nelle etichette indipendenti. Non hanno la stessa visibilità di un addetto stampa di Spotify. Volevo raccontare la storia vera dell’impatto che questa azienda ha avuto su musicisti e ascoltatori. Spotify ha già raccontato la sua versione in tante occasioni. E poi, sai, avendo lavorato nei media so che i portavoce delle grandi aziende non sono granché disponibili a parlare del funzionamento delle organizzazioni che rappresentano. Ho cercato di usare le mie preziose 90 mila parole per proporre un altro tipo di narrazione.

La tua esperienza e il tuo background legati alle scene e agli spazi DIY hanno influenzato il tuo punto di vista, nello scrivere il libro?
Per quanto un giornalista cerchi di essere obiettivo, i suoi valori emergono sempre dai suoi scritti. Uno degli aspetti che trovo più interessanti è il modo in cui i servizi di streaming sono diventati parte integrante della cultura indipendente, nonostante siano oggetti misteriosi. Pochi sanno come funzionano e invece uno dei valori della musica indipendente e dell’etica DIY è la trasparenza dei processi. Mi sono domandata cosa vuol dire essere indipendenti in un’epoca in cui le grandi piattaforme, in palese contrasto coi valori che stanno alla base della musica indipendente, si sono insinuate nelle nostre vite.

Vedo un atteggiamento di rassegnazione nei confronti delle piattaforme di streaming e della cultura dell’algoritmo, un atteggiamento che apre la strada all’idea che non esistono alternative. Le scene musicali indipendenti fanno capire alla gente che questa della mancanza di alternative è un falso mito. Far parte della cultura musicale indipendente significa mettere in discussione i centri di potere per creare spazi di discussione su cosa significa essere indipendenti.

Cos’hai scoperto sul conto dell’azienda che ti ha sorpresa?
La storia dei cosiddetti artisti fake gira dal 2015 o dal 2016. Avevo dato per scontato che si trattasse di imbroglioni fai-da-te che cercavano di fregare il sistema. Storie del genere, di singoli truffatori dei servizi di streaming non mi hanno mai stato interessata particolarmente. Concentrarsi sui singoli imbroglioni mi è sempre parsa una distrazione dal raggiro sistemico che è in atto. E invece scoprire che i cosiddetti artisti fake fanno in realtà parte di una strategia concepita all’interno di Spotify, dove c’è un piccolo team che s’interfaccia con questi specifici licenziatari, e che questo programma ha addirittura un nome mi ha sorpresa tantissimo.

A rischio di fare una domanda stupida, hai trovato qualcosa di buono sul conto di Spotify durante il tuo lavoro?
Dato che Spotify è una app con più di 600 milioni di utenti, è una lente importante attraverso la quale osservare i problemi che devono affrontare gli ascoltatori e i musicisti oggigiorno. Ma non è che sia l’unica azienda del settore musicale a meritarsi delle critiche. Spero che questo libro possa spingere a un confronto anche con altre realtà influenti nel campo della musica. Era importante per me interpellare non solamente i musicisti che si sono trovati in difficoltà nell’era dello streaming. Ho parlato anche con gente che ha guadagnato parecchio con lo streaming. Non sono solo i musicisti che non fanno soldi a criticare il sistema. C’è chi guadagna una discreta quantità di denaro, ma si sente troppo vincolato alle piattaforme e quindi muove critiche di diverso tipo.

Metti che un lettore che sa poco di streaming prenda in mano il libro: cosa speri ne tragga?
Mood Machine è un libro sullo streaming musicale, ma l’ho anche pensato come un libro che parla di come funziona il potere. Sarebbe bello se ispirasse a riflettere più a fondo sulle abitudini di ascolto. Le nostre vite migliorano quando ascoltiamo con attenzione o entriamo in connessione con la musica in modo profondo e non solo come vibe. Da tempo si riflette sull’impatto del consumismo sull’arte. Questo libro è una voce fra le tante di una grande indagine che è in corso e che andrà avanti in futuro. Ecco, questa cosa mi rende felice.

Da Rolling Stone US.

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