Benita Madonnini sapeva fin da adolescente di essere destinata a qualcosa di grande. Sentiva di avere talento, un talento che avrebbe fatto parlare il mondo intero.
Non le era ancora chiaro in cosa consistesse, questo talento, ma sapeva di valere, sapeva di essere unica. Sapeva di avere una missione: combattere tutto ciò che riteneva sbagliato, lottare per ciò che la esaltava, regalare una speranza agli sconfitti.
Non nascondeva a se stessa – era troppo smaliziata per farlo – che uno dei moventi della sua ambizione fosse la fame di gloria ma, si diceva, quale progresso universale non è stato compiuto attraverso l’esca della gloria individuale? Si immaginava che, di lì a qualche anno, molte persone l’avrebbero ringraziata per avere migliorato la loro vita.
Ripensava a tutto questo quando, ormai adulta e celebre e potente, osservava le folle che si radunavano nelle piazze e negli stadi solo per ascoltare la sua voce, e si diceva che alla fine l’aveva capito eccome, quale fosse il suo talento: emozionare. Le sue parole erano semplici, immediate, ripetute, memorabili. Chiunque poteva capirle. Parlavano alla parte più vera e profonda della gente.
Madonnini era consapevole di avere qualche difettuccio fisico, come la bassa statura e i capelli un po’ radi, ma il suo stesso successo testimoniava che nessun difetto fisico avrebbe mai dovuto impedire a chicchessia di affermarsi. Quindi si mostrava alla folla osannante con sicurezza e spavalderia.
«Nessuno di loro» – alzava un dito tozzo al cielo – «può impedirvi di trionfare!», gridava alla folla. Gridava: «Guardatemi, io non ho paura di essere me stessa!».
Perché anche quegli ammiratori laggiù, nonostante per anni la società li avesse umiliati, nonostante la storia la scrivano sempre i vincenti, anche loro avevano diritto a un riscatto. «Anzi», concludeva Madonnini, «anche noi ne abbiamo diritto!».