Fa quasi strano voler raccontare di un festival e parlare e ragionare di musica proprio nei momenti in cui l’uomo più ricco del mondo, invitato al party d’insediamento dell’uomo più potente del mondo (che coppia!), pensa sia un’idea divertente simulare due volte il saluto romano fascio per arringare la folla, coi corifei che danzano sull’ambiguità del «lo voleva fare, ma no non lo voleva fare»: sono quei momenti in cui, d’istinto, ti pare più importante rivolgere la tua attenzione su possibili derive disastrose delle sorti del mondo piuttosto che su risibili faccende di musica. Cioè, chi cazzo se ne frega della musica più o meno indipendente, qua stiamo rischiano l’apocalisse.
Beh: sarebbe un errore. Sarebbe un errore perché certe volte proprio nutrirsi di musica ed esplorare le sue vie può portare d’un tratto a un po’ di energie e ispirazioni, e accidenti se ne avremmo bisogno per contrastare certe narrazioni. Non vorremmo caricare Eurosonic di troppe implicazioni ma in realtà sì, vorremmo anche farlo: che esso sia un festival musicale pop-rock-e-dintorni ancora semi-sconosciuto tra le gente comune, conosciuto e frequentato per lo più da addetti ai lavori, la dice lunga su una serie di cose. Ad esempio, su quanto ancora non siamo in grado di fare sistema, in Europa, tolti eventualmente quei tre giorni in cui diventiamo tutti pazzissime per l’Eurovision (sotto l’egida del trash, naturalmente, che unisce molto più delle idee, dei valori, degli obiettivi concreti). Quello sì, ma costruire strutturalmente un ecosistema per cui le nazioni europee musicalmente si indagano, ascoltano, supportano a vicenda ci pare un’ipotesi buffa, per non dire sciocca.
In realtà le politiche culturali, anche e soprattutto nel campo della musica, sono una cosa potenzialmente molto seria e strategica. In Italia abbiamo un surplus di disinteresse e disillusione in tal senso, perché siamo abituati al fatto che le istituzioni quando si occupano di certe faccende non capiscano assolutamente nulla, sostenendo pochissimo e malissimo chi non è legato al carrozzone della classica e della lirica e, in misura minore, del jazz, e ignorando invece bellamente il resto (quando proprio non si mette ad ostacolarlo a colpi di ordinanze generate da chi pensa ancora che il rock – categoria onnicomprensiva dai confini infiniti – e/o l’elettronica siano musiche da drogati e capelloni, foriere di sedizioni e allarmi sociali: che a rendersi conto che è ancora così, ed è davvero così, forse allora davvero ce lo meritiamo il Musk fascistone e il Trump che spadroneggia sparando fanfaronate fuori tempo… Ma ok, non divaghiamo, peraltro Musk come noto con una musicista ci ha fatto pure dei figli, chiamandoli come canzoni degli Autechre, chissà se Giorgia – non la cantante – sa chi sono gli Autechre e cos’è la chetamina, quando si trovare a prendere un caffè con Elon).
I fatti: attivo da quasi quarant’anni – prima edizione nel 1986, l’anno prossimo si festeggia il quarantennale – Eurosonic è un festival abbastanza assurdo. Per gli appassionati: un SXSW meno shabby chic, ma più organizzato, con un sacco di freddo e nebbia in più. Per tutti gli altri: un fenomeno abbastanza incredibile per cui in una cittadina più piccola di Verona, Bari o Firenze (Groningen raggiunge a stento i 240 mila abitanti) è possibile creare un filotto di tre sere in cui c’è musica in una ventina e passa di venue in contemporanea, venue tutte raggiungibili a piedi fra loro e tutte perfettamente attrezzate per ospitare dei concerti anche al di là del festival. Incredibile. Manco Milano, la tanto decantata capitale italiana dei show live e dell’economia legata alla musica, potrebbe ambire a tanto, anzi, cara grazia se riesce ad ambire a un quinto di tutto ciò.
Quel che è peggio, la musica in questione è praticamente rappresentata quasi solo da band non locali, da band non della stessa nazione che ospita il festival e, soprattutto, da band non particolarmente conosciute, per non dire proprio completamente sconosciute, rispetto a mercati che non siano quello di loro provenienza: insomma, un gigantesco showcase di talento diffuso, non un sabba di soliti noti consolidati e/o di cover band che garantiscono incassi sicuri. Quest’anno, per dire, i concerti complessivi sono stati oltre 300 in quattro giorni. Lo ripetiamo: la sensazione di uscire di casa e avere davanti un programma in cui puoi scegliere fra 22 venue diverse, con ciascuna che ospita tre, quattro live tra cui puoi scegliere, è spaesante. Spaesante ma, fidatevi, bellissima.
Bellissima perché torni a percepire la musica come scoperta, come esplorazione, come curiosità, come viaggio fra stili e suggestioni, non solo come ribattuta edonistica dei propri gusti, delle proprie competenze, della propria necessità di esserci e di farsi vedere – approccio quest’ultimo che sta facendo la fortuna dei live negli stadi e nei palasport, buon per loro e per le megacorporazioni che le organizzano, ma sta ammazzando completamente il circuito dei locali più legati alla passione e meno ai business, ai numeri, alle economie di scala. A Groningen, ai concerti di Eurosonic, la gente ci va davvero. I locali, si riempiono. È una situazione vera, vibrante, non solo un progettone bello calato dall’alto senza reale riscontro tra le altre persone.
Ma non è solo questo. E qui torniamo a Trump e Musk. Eurosonic, lo dice il nome stesso del festival, è una bandiera dell’orgoglio sano dell’essere europei e dell’investigare, censire e supportare i talenti che ci sono in giro per l’Europa, mettendoli in connessione fra di loro. Nel farlo, fa capire a tutti noi che non è necessario essere rinchiusi in una bolla autarchica di rapper più o meno malandrini che scopiazzano gli americani o nei soliti noti, o altra faccia della stessa medaglia nei prodotti del intrattenimento globalizzati ed ottimizzati per funzionare allo stesso modo in qualunque parte del mondo. No. C’è anche un’altra via. Un’altra vita. Ed è gustosa.
In una parola: Eurosonic è una figata. È una figata perché ti fa scoprire e capire che avrebbe molto più senso capire che succede nelle altre capitali europee e fare sistema a vicenda, piuttosto che rivolgersi sempre e solo ai due paesi anglofoni per eccellenza o al consolidato prodotto di casa propria. E ti fa anche scoprire che artisti che da noi si sentono (o sono!) già arrivati e riempiono club e palasport, una volta superati i confini del Brennero, del Tarvisio o di Ventimiglia ripartono da zero, si rimettono in gioco, vengono giudicati su parametri molto puri che vanno al di là del chiacchiericcio superficiale radiofonico, della capacità dei rispettivi social media manager, della paraculaggine sull’intercettare lo zeitgeist nazionalpopolare hipsteroso; il focus torna sulla musica. Sì. Sulla musica. Su quanto è buona quella che fai. E quanto bravo sei a tradurla su un palco.
Bello, evviva. Per far stare in piedi un festival così hai però bisogno di due cose. La prima, un pubblico meravigliosamente curioso, attento, voglioso di ascoltare, giudicare e scoprire ciò che non conosce, e a Groningen, per uno strano allineamento di pianeti (uno di questi, l’essere da sempre città universitaria), questo c’è. La seconda cosa, inutile minimizzarlo, è comunque un supporto economico delle istituzioni. Fondi. Bandi. Progetti.
Se ne parla ancora troppo poco, perché ci si concentra su ciò che della UE è detestabile (dalle politiche monetarie troppo restrittive all’ossessione per la burocrazia, passando per il greenwashing sulla mobilità calato dall’alto su cui poi lucrano i salvini, minuscola d’obbligo): si tende a dimenticare quanto l’Europa sia un contesto molto più civile e culturalmente stimolante di moltissime altre parti del mondo, e questo anche grazie a una serie di progetti tipo Creative Europe ed European Talent Exchange, dove sì con qualche spreco e qualche errore – errare è umano – ma comunque con grande capacità e visione vengono individuati e premiati progetti e network di autentica qualità e purezza d’intenti.
In un’epoca in cui i social e le grandi corporation globali dell’intrattenimento ci vogliono ridurre a tribù litigiose con gli occhi fissi su uno schermo e il culo imbullonato al divano, in cerca più di conferme delle proprie opinioni che di curiosità verso quelle altrui, un evento come Eurosonic è una meravigliosa boccata d’ossigeno. Ti apre gli occhi, ti conduce lì dove ormai da tempo non hai più voglia di andare. Nell’arco di un weekend ti esalti per una band math jazz polacca (i Kosmonauci) o per un gruppo psych-kraut-stoner portoghesi (i Maquina), così come ti rendi conto che musicisti di casa nostra bravissimi come Indian Wells – uno poco meno bravo di Jon Hopkins e Max Cooper, o forse altrettanto bravo – suonano finalmente di fronte a 500 persone attentissime e partecipi, che mostrano apprezzamento, anche se ‘sto Indian Wells mai lo hanno sentito prima in vita loro, e non invece di fronte ai soliti 50/100 appassionati di nicchia che ormai si conoscono tutti fra di loro, così sfigati da andare anche ai concerti di un connazionale e non solo ad un dj set di Hopkins o Fred Again o Four Tet (di nuovo: ormai agli eventi di musica si va più perché fa figo andarci, che per il contenuto musicale in sé, questa è la metastasi che stiamo attraversando). C’è del bello, in giro. Tanto. E ci stava e sta passando sotto il naso spesso, troppo spesso, senza che ce ne accorgiamo, con noi sempre più inerti.
Una gran boccata d’ossigeno tutto questo, scusateci se insistiamo su questa definizione: è che davvero rende l’idea su come ci siamo sentiti e cosa abbiamo sentito per un weekend lungo, nelle nebbia olandese. Eurosonic è prima di tutto un festival per addetti ai lavori, come confermato dalla parte diurna, dove oltre 500 tra promoter, manager, organizzatori, addetti alle politiche culturali e giornalisti si incontrano e confrontano formalmente in vari panel e workshop, o informalmente per i fatti loro tra gli spazi dell’Oosterport, palazzone che ospita due venue che già da sole ci fanno salivare dall’invidia (nelle prossime settimane in programma gente come Mogwai, Kamasi Washington, Agnes Obel, Fink…) più una miriade di sale minori e bar.
Lì capisci che esiste un ecosistema imprenditoriale legato alla musica che non è per forza solo quello dei grandi conglomerati multinazionali che decidono tutto nei loro uffici dalle ampie vetrate, anche se ad Eurosonic c’è qua e là spazio pure per quello (com’è giusto che sia). In generale però armandosi di pazienza e voglia di fare il manager dell’artista italiano può tentare di capire come affacciarsi sul mercato francese, spagnolo o ungherese, e allo stesso modo vari artisti d’ogni parte d’Europa provano a farsi notare da un po’ di operatori di casa nostra, che in questo modo mettono mano su contenuto di valore (ancora) a basso costo.
Notazione importante: quest’anno, in questa edizione 2025 di Eurosonic, l’Italia era addirittura Focus Country, insomma, era la scena musicale più attenzionata: un live (apprezzatissimo!) di Daniela Pes ha aperto infatti il festival e dalla nostra terra sovranista dominata da trapper è arrivata quasi una ventina di act, incredibilmente nessuno a fare musica urban – tranne BigMama, che peraltro ha rappato in italiano di fronte a centinaia di persone incuriosite al Forum traducendo i propri testi in inglese tramite i visual – e tutti peraltro capaci di fare e farci fare buona figura, chi più chi meno. Sarà il nostro provincialismo, ma calati in un contesto come Eurosonic appare più chiaro come i Post Nebbia se fossero inglesi saremmo qua a celebrarli molto di più, o se Okgiorgio fosse americano sarebbe il nuovo reuccio del clubbing evoluto; e di Indian Wells già abbiamo detto. Molto più costruttivo ragionare su tutto questo che indignarsi per il successo di Tony Effe e Baby Gang (e/o trattarli come se fossero dei fenomeni della musica, e non dei semplici, interessanti e forse divertenti fenomeni di costume). No?
Al di là delle considerazioni culturali, contano anche quelle economiche: per il nostro mondo musicale sarebbe vitale iniziare ad essere apprezzati anche a Parigi (qualcuno già ci riesce, storicamente in Francia c’è sempre attenzione per il nostro cantautorato di qualità, vedi Colapesce, Dimartino, Motta…), ma pure a Varsavia, Budapest, Porto, Lione, Amsterdam, Vienna, Tallinn, aprendo le prospettive dei propri sbocchi di mercato, visto che in Italia pare tutto colonizzato o dai soliti noti, o da (finti) hooligan immersi nell’Auto-Tune. La ricaduta positiva sarebbe soprattutto interna, più eventi, più lavori, più professionalità, più fatturati, più attrattività dei territori: e infatti la Regione Puglia è stata capofila quando, ancora sotto la gestione Vendola, ha iniziato a intercettare i fondi europei (che c’erano e ci sono: basta farsi lo sbattimento di domare la burocrazia necessaria per farne richiesta) dando vita a Puglia Sounds, i cui effetti positivi si sono riverberati negli anni e continuano a farlo, con ora anche la Regione Emilia Romagna (soprattutto) e la Regione Sicilia (sta iniziando) che tentano di approfittarne.
Sarebbe bello peraltro ci si muovesse non in ordine sparso, ma più uniti e coesi; ed in effetti in questa edizione 2025 di Eurosonic per arrivare ad essere Focus Country si è lavorato per consorziare diverse realtà politiche e territoriali, quelle almeno disposte ad ascoltare e buttarci qualche soldo. Essere la nazione protagonista nel più importante evento legato al rock indipendente in Europa è tra l’altro il coronamento dell’ottimo lavoro portato avanti negli ultimi anni da Italia Music Export, la miglior intuizione avuta dalla SIAE nell’ultimo ventennio e passa, ovvero un ufficio specifico preposto ad esportare con competenza reale e spirito d’iniziativa proattivo la musica italiana più viva ed interessante in Europa e nel mondo, ufficio guidato con mano intelligente da Nur Al Habash. Ma evidentemente qualcuno si deve essere spaventato dall’aver fatto le cose troppo per bene, affidandole a persone competenti, e guarda un po’ Italia Music Export sta subendo da qualche mese un processo di ridimensionamento e semi-smantellamento che boh, lascia perlomeno perplessi. Non sarebbe né la prima né l’ultima volta che l’Italia punisce le cose migliori e più contemporanee che fa, lì dove invece lascia sempre serenamente in pace e liberi di prosperare i pingui, eterni carrozzoni che da anni non ottengono risultati, ma sfornano solo gite-premio a spese dei contribuenti in giro per il mondo.
Ad ogni modo: ad Eurosonic capisci che l’Europa esiste, ha idee, anche nella sfera musicale; le ha anche se non sei sotto il cappello protettore dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Forse lei stessa poi ci crede a metà, quando si tratta di uscire dalla bolla di un evento di questo tipo e dei bandi di concorso di Creative Europe. E ci crediamo soprattutto a metà noi pubblico, quando invece dovremmo farlo molto di più, dovremmo andarci a cercarle, le cose. Dovremmo avere la curiosità di capire cosa succede non solo a Brixton e New York, ma anche a Belgrado, Bruxelles, Praga o Helsinki: ne verremmo fuori arricchiti.
Invece, dando spazio solo alla globalizzazione e agli appetiti delle corporazioni multinazionali, che giocano solamente al gioco del mainstream globale o prettamente locale, ad arricchirsi sono sempre i soliti. E usano come utili idioti i sovranisti che strillano all’orgoglio nazionale, quelli per cui l’Europa è il nemico: il bello è mischiarsi, il bello è la diversità che si intreccia con uno spirito d’appartenenza, dà molto più gusto, anche se impedisce i profitti più voluminosi e le economie di scala. C’è un mondo, lì fuori, attorno a noi: molto più vasto e stimolante dell’inneggiare a Tony Effe e dileggiarlo, del tirare fuori ancora dopo sessant’anni i Beatles, dello stravedere per Taylor Swift o Sabrina Carpenter (o denunciarne la vacuità). Sì, a Groningen a metà gennaio fa freddo e c’è un umido che ti vengono le branchie al posto dei polmoni, ma vi garantiamo che da Eurosonic torni contento, torni con un entusiasmo rinnovato. Fateci un pensiero. Tanto Musk, quando gli farà comodo, quel braccio farà finta di non averlo mai steso; e Trump e il trumpismo, da un’Europa che prende coscienza di sé nella sua interezza e si rende conto di essere un bel posto sia socialmente culturalmente, hanno solo da temere.