Non sono più uno young team, i Mogwai. Ma forse non lo sono mai stati. Anche agli esordi, quasi trent’anni fa, trasmettevano un’idea di gravitas che era l’esatto contrario della sfrontatezza giovanile da rock’n’roll band. C’entrava la musica, che in fondo non è mai cambiata se non per qualche piccolo, progressivo affinamento di una formula dimostratasi vincente persino quando sembrava ormai fuori tempo massimo (come dimostra il surreale numero uno nelle charts del penultimo album As the Love Continues, nel 2021). Ma c’entrava anche il loro modo di presentarsi, tanto normale quanto sottilmente inquietante. Anzi: inquietante in quanto normale. A volte, vedendoli dal vivo, era difficile associare l’aria dimessa da fila all’ufficio di collocamento della band alla ferocia e alla maestosità che sapevano estrarre da quelle alternanze di pieni e vuoti, di arpeggi sospesi e crescendo di devastante potenza. Poi leggi Spaceships over Glasgow, il memoir di Stuart Braithwaite, colui che è molto riluttante a definirsi leader del gruppo ma in definitiva quello è, e scopri che neanche questi improbabili nerd scozzesi si sono negati piaceri ed eccessi tipici del rock’n’roll lifestyle.
Ma appunto, sono passati trent’anni. Dentro e soprattutto intorno a loro è cambiato tutto, tranne una cosa: la musica. Il nuovo disco The Bad Fire – l’undicesimo in studio senza contare le colonne sonore che per i Mogwai costituiscono una sorta di secondo lavoro – si muove all’interno di un format ampiamente sperimentato e codificato, ma lo fa con una eleganza e una sicurezza che solo chi ha una storia come la loro alle spalle può permettersi. E quindi: elegiache cavalcate strumentali, intrecci di chitarre e synth, accelerazioni e pause contemplative. Il menu della casa, insomma, e del resto perché cambiarlo? A tratti sembra di presenziare a un summit tra Boards of Canada, My Bloody Valentine e Godspeed You! Black Emperor.
Questo è il genere di considerazioni che strappa un mezzo sorriso tra il compiaciuto e il perplesso (ci fosse un sottotitolo della voce pensiero sarebbe «ma che sta dicendo, questo?») a Braithwaite, che raggiungiamo via zoom nella sua casa nel Lanarkshire. Con il cappello di lana peruviano in testa e l’aria un po’ malaticcia (influenza di stagione, niente di preoccupante) risponde con gentilezza e quel tanto di reticenza che ti aspetti dal Mogwai capo. Dopo avergli ricordato un lontano concerto torinese in cui Stuart suonò con la maglia della Juve, e aver sottolineato che per il sottoscritto granata aver continuato a seguirli dopo una visione del genere è una ulteriore testimonianza della qualità della loro musica, partiamo dalle circostanze non proprio ideali che hanno fatto da sfondo al nuovo disco.
La lavorazione di The Bad Fire è stata parecchio complicata, ho letto.
Non è stato facile, no. Dopo il tour di As the Love Continues siamo piombati in un periodo terribile. Soprattutto a causa della grave malattia della figlia di Barry (Burns, tastierista della band, nda). Per fortuna l’ha superata e ora sta bene, ma è stato un periodo angosciante. La lavorazione dell’album è stata in qualche modo catartica, ma anche parecchio difficile da gestire. Ci ha aiutato molto John Congleton, a cui ci siamo rivolti per la produzione. John è una vecchia conoscenza, sapevo che avremmo lavorato bene insieme ma il risultato è stato persino superiore alle mie aspettative. Oltre che essere un grande produttore, uno con la sensibilità ideale per ciò che facciamo, è una persona con un fantastico senso dell’umorismo, e dio solo sa quanto ne avessimo bisogno in quei momenti. È venuto in Scozia e si è messo al servizio della band con un rispetto e una immaginazione straordinari, e la musica ne ha giovato.
Musica che non si discosta molto dal vostro stile abituale, anche se mi pare che gli estremi del vostro suono qui siano ancora più pronunciati del solito. C’è molto spazio tra le pause di quiete, spesso condotte dai synth, e le fiammate di noise e distorsione.
È vero, in effetti è un disco giocato sugli estremi. Credo che questo dipenda dalle condizioni in cui ci siamo trovati, dal nostro stato d’animo che oscillava costantemente tra preoccupazione e speranza, momenti bui e altri di improvvisa rilassatezza. Dal punto di vista emotivo, questo è uno dei dischi più intensi che abbiamo mai fatto.
Il titolo è una espressione tipica di Glasgow per dire “inferno”. Mi ha fatto pensare al nuovo album dei Primal Scream, Come Ahead, che ha anch’esso per titolo una frase dello slang locale. Mi sembra di capire che la connessione tra la città e le sue band sia sempre molto forte.
È così, lo è sempre stato. Glasgow è una città dura, ma anche un luogo che ti protegge. C’è un forte senso di comunità tra gli artisti. Alla fine ci si conosce un po’ tutti. Se scendo a prendere il pane mi capita di incontrare altri musicisti, scrittori, registi, è uno stimolo continuo. Il bello è che nessuno se la tira, qui chiunque resta umile anche perché se fai il fenomeno la gente ti rimette in riga subito.
In pezzi come Lion Rumpus viene fuori un’anima molto psichedelica, quasi alla Jimi Hendrix. Avete riscoperto le vostre radici classic rock?
Ehi, a me il classic rock piace! Così come la psichedelia, certo. Invecchiando non mi faccio più problemi, ascolto di tutto senza pensare «questa è roba vecchia» oppure all’opposto «sono troppo vecchio per questa roba» (ride). Per cui passo tranquillamente dalla nuova musica ambient giapponese ai Black Sabbath, dal soul – sto sentendo un casino di soul, in questo periodo – al blues.
Parlando invece di suggestioni extramusicali, ho letto che ti sei appassionato molto a William Blake ultimamente. In che modo la sua opera ti ha influenzato?
C’è una strana coincidenza, a questo proposito. Ho letto un paio di saggi biografici su Blake scritti da John Higgs che mi hanno letteralmente rapito. Higgs è uno scrittore fantastico, autore tra l’altro di un libro sui KLF (si intitola The KLF: Chaos, Magic and the Band who Burned a Million Pounds, nda) che credo sia uno dei più bei libri sulla musica che abbia mai letto e che consiglio a tutti. Beh, insomma, ho contattato John e lui mi ha detto che mentre scriveva i testi su Blake ascoltava i Mogwai. Ciò che mi affascina nella visione blakeiana è il concetto di eternità unito a quello di magia, con il medium costituito dall’arte. L’arte, e in particolare la musica, ti proiettano nell’eternità secondo Blake. Non sono così arrogante da pensare che si possa applicare ai Mogwai, ma è un pensiero che mi conforta.
Non sarà l’eternità, ma trent’anni di storia sono comunque un traguardo importante. Arrivati a questo punto, quanto il passato diventa un peso sulle spalle e quanto invece un patrimonio spendibile?
Un po’ entrambe le cose. Le celebrazioni e gli anniversari tondi sono anche delle opportunità, come quando si va in tour a suonare integralmente i primi dischi, ma cerchiamo di non farci intrappolare dalla nostalgia. Personalmente tendo a guardare sempre avanti: un altro disco, un altro tour, un’altra colonna sonora. Sono orgoglioso di quello che abbiamo fatto in questi trent’anni, ma se ti guardi troppo indietro rimani fermo.
Ricordo che in una intervista vi siete definiti una band calvinista, per dire l’etica del lavoro che vi contraddistingue.
Ahah, credo la definizione fosse di Barry. In effetti siamo sempre molto focalizzati su quello che facciamo, non c’è tempo da sprecare per cazzeggiare. Soprattutto quando arrivi a una certa età. Ma immagino valga per qualunque band.
Come avete vissuto nel 2021 l’esperienza di finire primi in classifica dopo 25 anni di carriera?
Una cosa totalmente assurda, ma non posso negare sia stato un momento esaltante. La settimana dopo credo fossimo già scesi al trentesimo posto o qualcosa del genere, ma è stato comunque gratificante. Ricordo le telefonate di complimenti che arrivavano dalle band con cui ci siamo incrociati negli anni e pure da altre che non abbiamo mai conosciuto, era come se avessimo vendicato il rock alternativo degli anni ’90 (ride). Comunque sia, anche se casuale quell’exploit ci ha dato molta fiducia e voglia di andare avanti.
Ti faccio la stessa domanda che recentemente ho rivolto al tuo concittadino Alex Kapranos dei Franz Ferdinand: riesci a immaginare come sarebbe cominciare l’avventura di una band oggi?
Sinceramente no. Per essere brutalmente onesto, non riesco neppure a immaginare come facciano le giovani band ad andare in tour, nelle condizioni attuali. Economicamente è un bagno di sangue per tutti, per chi è agli inizi e deve ancora costruirsi la propria fan base ancora di più. Anche per noi non è affatto facile, e non abbiamo mai avuto problemi nel riempire i locali in cui suoniamo. Figurati come può essere per degli esordienti. Da questo punto di vista, aver cominciato negli anni ’90 è stata una fortuna.
Con quali band della vostra generazione sentite più vicinanza?
Beh, sono tante. Anche al di là dei rapporti di amicizia personali, come ad esempio quello con gli Arab Strap con cui ci conosciamo da una vita, ho ammirato e in un certo senso sento come dei compagni di strada tanti musicisti e tante band. Penso ad artisti eccezionali come Alan Sparhawk: dio quanto ho amato i Low. E poi tanti altri: Sonic Youth, Stereolab, Bardo Pond, Pavement. Persino i Cure, che non sono della nostra generazione, li vedo come comrades in arms (ride).
Hai fatto pace con quella vecchia etichetta che vi appiccicarono agli inizi, post rock? Quando ti capita di vedervi definiti così ancora oggi, cosa pensi?
Mah, non credo di aver mai capito del tutto cosa significhi. E nessuno ha mai saputo spiegarmelo. Ricordo le prime interviste in cui ci chiedevano se ci identificavamo nella corrente post rock, e io non sapevo cosa dire se non che, sì ok, ci piacevano gli Slint. Quindi? Forse trent’anni fa come modo di inquadrare una certa tendenza musicale poteva avere senso, oggi se ci pensi un po’ tutto è post rock. D’altra parte essere visti come una band che faceva qualcosa di nuovo ci lusingava, lo prendevamo come un complimento. Non mi ci sono mai arrovellato più di tanto, comunque.
Prima hai parlato di brutale onestà. Che è ciò che contraddistingue anche la tua autobiografia. Scrivendola hai imparato qualcosa su di te che non conoscevi?
Forse sì, suppongo capiti a chiunque provi a raccontare le sue memorie. L’effetto principale che ha avuto su di me, alla fine, è l’aver realizzato l’influenza di mio padre su tutto ciò che ho fatto. Ripercorrere gli anni della mia gioventù ha cementato il senso di gratitudine nei suoi confronti, e solo per questo sono contento di aver scritto il libro.