Jovanotti, ma come fai a essere così? | Rolling Stone Italia
Quasi come Dumas

Jovanotti, ma come fai a essere così?

Sempre ottimista, sempre pieno d’energia. «Per me è proibito lamentarmi». Lorenzo racconta il nuovo disco e molto altro, dalla scoperta del ‘Corpo umano’ alla vodka coi gangster del Caucaso. Spiega cos’erano veramente i summit di potenti a cui ha partecipato e parla della sparizione del senso del tono e del contesto, di quelli che fanno le esegesi sataniste dei suoi testi, della sua ossessione per la libertà

Foto: Ghidini

Non è facile stare al passo di Jovanotti. Ogni suo ritorno è una sfida lanciata prima di tutto a se stesso. Con Il corpo umano Vol. 1, che esce il 31 gennaio, alza ancora l’asticella, trasformando una tragedia sfiorata, che lo ha messo faccia a faccia con i limiti del corpo, in 15 canzoni che celebrano la vita in tutte le sue contraddizioni, dal dolore alla gioia più sfrenata, portando l’ascoltatore a ballare sulle fragilità umane e a perdersi nei ritmi di un mondo senza confini.

«Ho capito di avere un corpo solo quando si è rotto», ci ha raccontato Lorenzo, riferendosi all’incidente in bici a Santo Domingo che lo ha messo per la prima volta di fronte a qualcosa di inaspettato: «In quel momento ho scoperto i miei limiti, ma anche il valore del cambiamento. Tutto questo è diventato musica». Perché, come ammette, «il mestiere di chi fa canzoni è una fortuna e una condanna: tutto diventa materia per scrivere». E così alterna i toni leggeri della dance a riflessioni più profonde. In Fuorionda canta “Quel giorno in ambulanza ho capito che si muore”, ma lo fa su un ritmo che ti spinge a ballare. «Quella frase puoi sentirla solo se vuoi. Altrimenti è un invito a danzare su tutto, anche sulle tragedie». Questo il cuore del Corpo umano: accogliere i contrasti, celebrare la vulnerabilità e guardare avanti con entusiasmo. Con questa vitalità ritrovata, con intermezzo Sanremo, torna nei palazzetti e alle date annunciate ne aggiunge due al Forum di Assago il 12 e 13 maggio.

Ma Jovanotti è anche un osservatore critico del presente. Così in questa intervista riflette sui social e sul modo in cui hanno stravolto la comunicazione: «È sparito il contesto, viviamo un eterno presente. Le opinioni si trasformano in sentenze. Questa polarizzazione ci sta condizionando nei comportamenti». E sul caos creato dalla sua dichiarazione su Mozart e Tony Effe («in fondo sono colleghi»): «Era un’iperbole, ma sembra che nessuno sia più in grado di capire il tono». Anche se, subito dopo, ne sforna un’altra prendendo spunto da Montecristo: «Alexandre Dumas era il reggaeton dell’epoca». Non bisogna stupirsi, per lui la divisione tra cultura alta e bassa «è una cazzata». Anzi, «qualcosa che ci hanno inculcato, ma di cui dobbiamo liberarci». Fra le tracce più sorprendenti c’è Celentano, che racconta un episodio surreale: un incontro con dei gangster nel Caucaso tra neve, vodka scadente e cori: “Italiano ohoh, Ferrari Celentano ohoh”. Mentre, prendendo spunto dall’America di Trump e Musk, ricorda il favoleggiato summit tra potenti al quale ha preso parte e che ha scatenato i complottisti quando disse che l’aveva colpito l’assenza della politica: «Oggi in parte ci siamo arrivati, ma è emerso che è sempre stato così. È sorprendente solo se ti vuoi sorprendere». E ormai ci ha preso gusto a scuotere le convenzioni per ricordarci che l’esistenza è una danza, e lui vuole ballarla fino all’ultimo respiro.

Ho origliato l’intervista precedente e hai detto che un artista non dovrebbe parlare delle sue canzoni. E mi è venuto in mente il libro di Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?
Esatto, vedi, mi citi uno che ho letto e riletto e continuo a leggere e rileggere. Be’, sì, io mi sento inadeguato quando parlo delle mie canzoni. Cerco di dire cose intelligenti, ma non sono mica tanto sicuro che si possano dire delle cose intelligenti. Cioè, che le possa dire soprattutto uno che le ha fatte, le canzoni. Perché le canzoni per me sono la mia vita, io ci sto dentro e prendono il sopravvento, ma non è che io abbia il controllo su di loro. Non dirigo praticamente nulla, sono un osservatore di quello che accade dentro di me e poi cerco di dargli una forma. Mi piace di più sentire cosa ne pensano gli altri, e apprezzo assistere a cosa scateneranno. Questo sì.

Non si può avere il controllo delle canzoni, come non si può avere il controllo della vita. Ne hai avuto la riprova dopo l’incidente in bici a Santo Domingo.
È strano perché… questo è qualcosa che di solito dice uno molto più giovane di me. Nel senso che sono arrivato a 57 anni senza avere una vera coscienza del mio corpo. Il mio corpo era quello che era, l’ho vissuto come una specie di assoluto, perché non mi ha mai dato problemi particolari, non si è mai fatto sentire, diciamo così. E quindi, quando si è rotto l’ho scoperto, ho scoperto di averlo, ho capito che ha dei limiti, ho provato il dolore, le difficoltà, anche le prospettive negative che erano da mettere in conto, cioè il fatto che non si sarebbe potuto rimettere a posto. Per fortuna è successo. Ma tutte queste cose qui, per chi come me fa le canzoni, diventano materiale, materia di scrittura. Questa è una fortuna e un po’ una condanna, no? Cioè il fatto di fare un mestiere in cui tutto alla fine si trasforma in musica.

Jovanotti - Fuorionda

Infatti in Fuorionda canti: “Quel giorno in ambulanza ho capito che si muore / Ed è stata la prima volta che il protagonista ero io”. Però lo canti su ritmi dance. Un bel contrasto danzare su una tragedia sfiorata.
È un contrasto, sicuramente, ma altrimenti sarebbe stata veramente una canzone drammatica. Sarebbe sembrato un film di Lars von Trier. Invece il ritmo dance ti fa sentire quello che dico solo se lo vuoi sentire, quella frase la percepisci nel suo significato solo se lo vuoi. Ma puoi anche far finta che non l’abbia detta. Però la dico, perché l’ho provata esattamente così. Come si dice? Sono sempre gli altri che muoiono, o che si fanno male, o che devi chiamare per dirgli: “Come stai, posso fare qualcosa per te?”. Trovarsi al centro di quella vicenda come protagonista non l’avevo messo in conto, non mi era ancora capitato.

Ma in quel momento hai davvero avuto paura di morire?
Sì, ho avuto davvero paura di morire, perché è stato un incidente veramente molto brutto. Quindi il rischio di setticemia in quel Paese lì, in quel momento lì, in quella struttura sanitaria d’emergenza in cui mi son trovato, era molto molto serio. Tanto che mi son preso un batterio che mi è rimasto dentro l’osso e che mi ha creato problemi successivi. Per cui, insomma, sì. Era abbastanza grave quella situazione.

E qui rispuntano fuori i tre misteri che da sempre ruotano intorno a Jovanotti: come fai a essere sempre così ottimista, ad avere tanta energia e ad amare così intensamente?
Sono tre misteri per gli altri, ma anche per me. Non è che siano dei misteri per gli altri e che io abbia la chiave d’accesso per capirne il segreto. Io non ce l’ho la chiave. Io sono questa cosa qui. Per cui non è che sono sempre positivo, diciamo che sono il terzo figlio in famiglia, quindi il terzo figlio di solito è quello che si ritrova già tutto fatto, quello che arriva quando la festa è già iniziata. Mettiamola così. Quindi si deve adeguare e sviluppare uno sguardo diverso su quello che lo circonda. Il mio credo che sia uno sguardo che mi è capitato, perché non è che ci ho messo della volontà. Mi ci son trovato dentro. Ho capito che funzionava di più usarlo che non usarlo. E non posso lamentarmi.

Dopo quello che hai raggiunto non ti è concessa la lamentela?
Per me è proibito lamentarmi. Io non ho questo diritto. Non ho concesso a me stesso questo diritto, perché nella vita mi sono successe cose che non mi permettono di lamentarmi. Ho realizzato una passione, faccio quello che mi piace fare, e quindi, per forza di cose, devo avere uno sguardo positivo sul mondo.

Anche stavolta, nel Corpo umano, riesci a unire in perfetto equilibrio l’alto e il basso. Il reggaeton e Alexandre Dumas, come nel singolo Montecristo.
Ok, ma qual è l’alto e qual è il basso dei due? Me lo devi dire te! Dumas all’epoca era popolarissimo. No, perché adesso noi pensiamo che Dumas abbia fatto parte di chissà quale élite culturale, ma Dumas in realtà scriveva romanzi per il popolo, per la gente, per cui era il reggaeton dell’epoca, cioè scriveva il romanzo popolare del suo tempo. Dumas erano le serie televisive dell’Ottocento. Se ci fosse oggi, sono sicuro che Dumas scriverebbe Succession o I Soprano, con ogni probabilità. Per cui si tratta proprio di letteratura popolare.

Insomma, l’alto e il basso dipende da che punto lo si osserva?
Per me questa cosa dell’alto e del basso è proprio una cazzata! Nel senso che è una cosa che andrebbe contestualizzata. Il reggaeton ha dentro degli elementi fantastici, c’è dentro un sacco di creatività. Pensa a Bad Bunny, che è uno bravissimo, è uno che mette insieme dei mondi con altrettanta sensibilità e innovazione. Questa cosa dell’alto e del basso è un qualcosa che ci hanno inculcato, ma di cui dobbiamo liberarci completamente. Poi non vuol dire che non ci siano le cose brutte, però sai, a volte definire una cosa alta, darle un’aura, è anche un trucco per fartela piacere quando invece, nella realtà, ti accorgi che non ti arriva niente.

Foto: Ghidini

«Mozart e Tony Effe in fondo sono colleghi», hai detto a Belve scatenando grandi polemiche.
Era chiaramente un’iperbole. Sai cosa mi sembra che sia successo oggi? Che tra le cose che si sono perse, e sono tante, c’è il senso del tono. Le persone hanno perso la capacità di leggere il tono di quello che viene detto. La stessa frase, pronunciata in un modo o in un altro, è una frase diversa. I social network, però, condizionano soprattutto questo aspetto perché polarizzano e perché estrapolano. Quindi, eliminando il contesto, non riesci mai a capire davvero il tono e quindi il significato. Questa è una grande questione, quella della fine del contesto. Non c’è più il contesto, non c’è più un prima e un dopo.

Viviamo in un eterno presente scrollando i feed dei social?
Tutti sono concentrati su quello che accade adesso. E questo rispetto anche, per esempio, all’iperbole: si è perso il senso della figura retorica. Però, detto questo, io confermo quella frase. Nel senso che Tony Effe fa musica, Mozart faceva musica, io faccio musica. Anche 4’33” di John Cage è musica, anche se è silenzio. Per cui, in realtà, nella musica siamo tutti colleghi. Poi uno potrà giudicare cosa rimarrà nel tempo, e questo mica lo posso stabilire io. Mozart è rimasto nel tempo, Tony Effe lo vedremo. Per adesso è un mio contemporaneo.

Un’esperienza molto umana, e fuori dal contesto dei social, la canti in Celentano. Che non è un omaggio al Molleggiato, ma il racconto di un tuo viaggio in bici nel Caucaso dove ti ritrovi a una cena assurda con dei gangster, “brindando con la peggior vodka mai assaggiata”, mentre ti urlavano “italiano ohoh, Ferrari Celentano ohoh”.
È una storia vera quella. E la canzone è una sorta di documentario. Lì era veramente una situazione estrema, perché io ero in bicicletta e stavo attraversando l’Armenia per raggiungere l’Iran. Avevo un visto d’ingresso e, non so perché, questi gangster mi hanno circondato con dei suv e poi sono stati molto gentili. Probabilmente perché hanno pensato che fossi matto. Io ero là in bicicletta, era pure inverno, c’era un freddo cane, nevicava, e di solito gli italiani non si vedono in giro in quelle zone a fare quello che stavo facendo io. A parte questo, mi hanno invitato a cena, e quando hanno scoperto che ero italiano c’è stata proprio una festa. Continuavano a chiedermi: “Ma sei italiano?”. E nel frattempo, mentre mi offrivano “la peggior vodka mai assaggiata”, mi urlavano: “Italiano ohoh, Ferrari Celentano ohoh”.

Uno strano animale l’essere umano, che analizzi nello Scimpanzé tra conflitti e tensioni, in una sorta di chiamata all’azione danzante contro quello che succede nel mondo.
È il mio modo di farlo. Io cerco sempre di non giudicare. Lo dico pure nella canzone. Esiste una questione oggi, che è quella della trasformazione di un’opinione in una sentenza. Un’opinione non è una sentenza. Un’opinione è un’opinione. A me piace molto la libertà. La libertà è per me un’ossessione e un tema fondamentale. Tutti devono dire quello che vogliono, pensare quello che vogliono, desiderare quello che desiderano. Però metterci anche un po’ di consapevolezza non è che guasterebbe. Per questo dico che il mondo dei social ci sta condizionando nei comportamenti. E sarebbe sano perlomeno avere un po’ di attenzione rispetto al modo di utilizzarli. Sia come utenti, che anche come spettatori di quelle cose.

È la seconda volta che torni sui rischi dei social. Hai avuto una brutta esperienza in particolare, oppure è una questione che ti sembra ancora poco affrontata?
Qualcosa che mi ha fatto male no, ma a volte rimango stupito dalla follia che può raggiungere l’essere umano. Nel senso che, per esempio, ci sono dei siti dove analizzano le canzoni e fanno le esegesi sataniste dei miei testi. E quindi mi dico: la gente è proprio matta, ma che cos’ha nel cervello? Ma cosa si prendono? Poi, però, ci rido sopra. Anche se, immaginando le loro vite, un po’ di malinconia mi viene. Quando vedo le stanze dove fanno i video, il background che hanno, quella cosa lì mi fa tenerezza. Prima dei social network uno non era esposto a queste cose. Oltre al fatto che ci portano a pensare che tutto ci riguardi.

Ogni tanto, come dice Alessandro Baricco, bisogna “lasciare andare”?
Ma certo, però sei esposto continuamente a cose che accadono in giro per il mondo, nelle case, nella vita della gente, quando in realtà, a me, la vita della gente riguarda, ma solamente delle persone che conosco, a cui posso fare una telefonata e dire: “Come va, posso fare qualcosa per te?”. Invece questa sensazione così allargata è pericolosa, ci può sopraffare e, quindi, è un lavoro che uno deve fare su se stesso, o almeno provarci.

Jovanotti - Montecristo

Da allora non ne hai più parlato, ma dopo quello che sta accadendo in America devo chiedertelo. Nel 2015 hai raccontato di essere stato invitato a un summit blindato dove erano presenti le “80 persone più importanti del Pianeta per decidere il futuro”. E ti sei stupito perché, fra gli invitati, non c’era neanche un politico: “Le decisioni non le prende più la politica”, avevi aggiunto. E si erano scatenati i complottisti.
È una cosa pazza! Da quel racconto che ho fatto, qualcuno ha iniziato a dire che facevo parte delle lobby mondiali. Tutte cazzate. Ero stato invitato al Google Camp. Mi hanno invitato per due anni e ci sono andato volentieri perché ho potuto ascoltare dei panel di persone in gamba. Poi non sono più andato perché c’è un turnover. Mi aveva colpito il fatto che fra premi Nobel, CEO di grandi aziende e attivisti per i diritti umani, non ci fosse neanche un politico. La politica non era rappresentata, questo mi aveva fatto pensare, e l’avevo esposto a quei ragazzi, che alcune decisioni sul futuro del mondo venissero prese da altre parti. Ma non mi sembra di aver detto niente di speciale.

Oggi, però, con Elon Musk al fianco di Donald Trump, sembra che quella debolezza della politica sia sempre più evidente. Non serve neanche più riunirsi in segreto?
In parte ci siamo arrivati, sì. Nel senso che, forse, è emerso il fatto che è sempre stato così. Che, semplicemente, le decisioni sono sempre state prese in quel modo. Comunque, le grandi potenze economiche sono spesso potenze private che influenzano poi le scelte anche pubbliche. Ma non è niente di sorprendente, no? È sorprendente se ti vuoi sorprendere, o se cerchi una conferma nelle notizie e qualcosa che ti rassicuri. Ma nel mondo non c’è niente che ti rassicuri per davvero, in particolare attraverso la comunicazione.

È anche una critica diretta agli organi di informazione?
Sì, perché l’idea che la comunicazione, oggi, sia soprattutto funzionale a rassicurare le opinioni che le persone già hanno mi sembra una condizione tragica. Perché in realtà la funzione della comunicazione, attraverso la stampa, è di farti cambiare idea. Invece in questi anni mi sembra che tutto sia costruito per confermarti quello che già pensi. Io non voglio conferme di quello che penso, voglio qualcuno che mi illumini, che mi dia una visione che non ho saputo sviluppare, che mi faccia sapere qualcosa che io non so. Altrimenti, se voi giornalisti mi dite solo quello che so, a che cosa servite? A niente.

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