«Sono in attesa dell’uscita di questo album, quindi sempre con un po’ di… ansia non è la parola giusta, però c’è un bel clima di attesa. So già che non succederà nulla, ma è un piacere averlo prodotto, composto, ragionato e scritto. Sono cose che ti tengono vivo. È un album frutto di molti pensieri».
Dalla sua vecchia casa di montagna in mezzo ai boschi sull’Appennino di Reggio Emilia, dove vive da più di trent’anni, Massimo Zamboni risponde alle domande con un tono gioviale ed entusiasta. In uscita oggi, P.P.P – Profezia è Predire il Presente è un album dedicato a Pier Paolo Pasolini, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della morte. Tra le tante domande e considerazioni, c’è modo anche di parlare di quello che lui stesso, un po’ scherzando, definisce «annus mirabilis», il 2024 appena trascorso, che ha visto l’inatteso (a dir poco) ritorno on the road dei CCCP – Fedeli alla linea.
P.P.P – Profezia è Predire il Presente è il titolo del tuo reading-concerto dedicato a Pasolini. Come mai hai deciso di farlo diventare un album?
Il progetto l’avevo in mente da alcuni anni, ma non ero mai riuscito a trovare la modalità per renderlo pubblico, finché la fondazione Vieusseux di Firenze non mi ha proposto di mettere in scena questo spettacolo-reading di canzoni a settembre dello scorso anno, con alcune repliche fino a Natale. In questo album ho poi messo tre canzoni nuove: La rabbia e l’hashish, Cantico cristiano e Tu muori. Inizialmente pensavo di limitarmi allo spettacolo, poi mi sono reso conto che tra inediti e arrangiamenti particolari, i brani di Giovanna Marini (Lamento per la morte di Pasolini e Beati noi, nda) e di José Afonso (Grândola vila morena, nda) c’era un carattere di novità tale da meritare un’uscita discografica. Quindi ci siamo buttati e ora mi ritrovo con quest’album che spero servirà a far circolare lo spettacolo, e che quest’ultimo servirà a sua volta a far circolare la parte discografica.
Nel materiale stampa dici che ancora oggi non possiamo prescindere dall’intelligenza di Pasolini, «da quel suo sguardo che taglia come un laser ed è capace di offrire squarci di una compassione profondissima». Cosa dice Pasolini a noi che viviamo nel 2025, 50 anni dopo la sua morte?
Ci chiama in causa e ci obbliga a confrontarci con la nostra vita quotidiana, più che con la nostra passione politica o la nostra vita sociale. Credo che il suo sia uno sguardo frontale, a tu per tu. Quando uno muore come lui, sacrificandosi, chiede a te cosa fai, cosa pensi, come vivi. Sento molto questo sguardo pressante, e sento la mancanza di un pensiero che sappia raccontarci l’oggi. La sua grande capacità, inedita per la maggior parte degli intellettuali, è quella che ho racchiuso nel titolo dell’album: la capacità di leggere il presente. Il futuro ce lo costruiamo nella nostra mente, poi semmai saranno gli eventi a smentirlo. Ma la capacità di leggere il presente non ce l’abbiamo né io, né tu. L’interpretazione del presente è un’arte difficilissima, siamo troppo pieni dell’essere in un certo tempo per poterlo anche decifrare. Sarebbe un grandissimo appiglio, un grandissimo sollievo, poterlo leggere attualizzato.
Qual è il significato di un pezzo come Cantico cristiano? Qual è il suo legame con Pier Paolo Pasolini?
È arrivato durante le registrazioni, legato a una poesia di Pasolini sulla crocifissione. Nella mia testa le parole di queste canzoni si legano sempre al mondo pasoliniano. Pasolini si era autocrocifisso, nel senso che il suo percorso doloroso, solitario e sempre più staccato da tutto e da tutti, eppure così dentro al mondo, doveva terminare con una tragedia. Ho iniziato a pensare alla forma del cantico cristiano: una parte del mondo di Pasolini è cattolica. Ho anche riflettuto su cosa significa per me cantico cristiano, una frase del testo dice “potessi dir l’effetto che mi fa un cantico cristiano alla mia età”. Io non credo di essere cattolico, anzi: non sono praticante in nessun modo. Lo sono stato da ragazzo come tutti. Eppure, se io dovessi entrare in una chiesa e ascoltare un cantico cristiano, qualcosa si smuoverebbe. Non qualcosa di dottrinale, di confessionale, ma posso ammettere che c’è una scossa.
Hai detto che da ragazzo sei stato cattolico, come tanti in Italia hai avuto questa formazione. Quando hai smesso di esserlo?
Ho smesso in maniera traumatica con l’ingresso trionfale della politica. Attorno ai 17-18 anni. Ero molto osservante, molto rigoroso. Tra una partita di pallone e una messa domenicale avrei sicuramente scelto quest’ultima. A un certo punto c’è stata un’esplosione, non saprei chiamarla diversamente, e mi sono aggrappato alla politica e alla cultura, e del mondo cattolico mi sono sbarazzato più velocemente possibile.
E non ci sono stati ritorni? Te lo chiedo pensando a un certo tuo compagno di band.
Siamo persone complesse.
Nel libretto accluso all’album racconti il tuo primo incontro con Pasolini, avvenuto grazie a un libro, Canzoniere italiano. La poesia dell’altra Italia, i testi poetici popolari delle regioni italiane, da lui compilato e da te trovato nella libreria dell’assemblea nazionale degli studenti FGCI a Rimini, nel 1975. In seguito ti ha sempre accompagnato nel tuo percorso di uomo e di musicista o ci sono stati momenti in cui te lo sei “dimenticato” per poi riprenderlo?
Nel periodo dei CCCP, in cui dovevamo ribaltare completamente il mondo come lo conoscevamo, avevo abbandonato la lettura di Pasolini, salvo scoprire un suo scritto brevissimo in cui parlava di un trenino che percorreva la provincia di Reggio Emilia. Gli era capitato di vivere a Scandiano per motivi di lavoro di suo padre. Noi facevamo le nostre prove in una casa di campagna, a Fellegara, davanti alla quale passava proprio quel trenino: il Reggio Emilia-Scandiano. Leggere quello scritto, in quella casa, davanti a quella ferrovia, in qualche modo me l’ha restituito vicino. Da lì ho cominciato a rileggerlo, dopo quattro-cinque anni in cui l’avevo perso di vista. Prima gli scritti giornalistici, poi la saggistica. Era ciò di cui avevo più bisogno: una spiegazione del mondo. È stato molto forte per me. Poi i film, come tutti, e i romanzi poco: sono un pessimo lettore di romanzi, fatico molto a leggerli. La poesia invece è stata una scoperta tardiva: avevo letto tutto quello che si deve leggere, ma la poesia l’ho approfondita grazie a questo spettacolo ed è stata la scoperta più importante.
Il nesso tra Giovanna Marini e Pasolini lo spieghi molto bene tu nel libretto («Così colta, intellettuale, e pure così vicina al mondo popolare di cui è stata narratora e narratrice, cantora e cantrice, cantatrice. Quasi automatica la sua vicinanza con Pasolini»). Io però mi domando come e se il giovane Massimo Zamboni ha portato con sé Giovanna Marini nelle sue prime esperienze musicali. Penso ovviamente ai CCCP. A me sembra difficile trovare una connessione, ma magari tu mi smentirai.
Musicalmente nei CCCP la Marini non c’era, ma intellettualmente sì, sempre. Io e Giovanni abbiamo pubblicato con i Dischi del Mulo un album di Giovanna Daffini, una delle cantanti popolari preferite da Giovanna Marini, che avevamo invitato a cantare a Gualtieri, lì dove viveva la Daffini. È sempre stata una presenza che non abbiamo mai espresso musicalmente. Cantare Giovanna Marini con la mia voce lo trovo un grande lusso, e la possibilità di chiudere un cerchio. Certo quando avevo 16, 17 anni e andavo a tutti i suoi concerti non avrei mai pensato che un giorno sarebbe stato possibile. Ne vidi anche due in un giorno in due luoghi diversi, perché in provincia di Reggio era frequentissimo incontrare lei, Ivan Della Mea, il Nuovo Canzoniere Italiano, gli Inti-Illimani, la musica di quegli anni.
Al termine del libretto, citando il Pasolini di “Io so. Ma non ho le prove”, il suo articolo uscito sul Corriere della Sera, dici che noi sappiamo anche che il potere logora chi ce l’ha. Puoi spiegarmi meglio questo concetto?
Trovo ripugnante la frase di Andreotti secondo cui il potere logora chi non ce l’ha, che immagino pronunciata mentre si trova circondato da intervistatori che sorridono e gongolano per la sua intelligenza e la sua acutezza. Trovo tutto questo vomitevole. Mi basta guardare la faccia di chi l’ha pronunciata, così come mi basta guardare la faccia di chi detiene il potere oggi per pensare che non facciamo parte della stessa categoria umana e che evidentemente il potere li ha logorati parecchio. Sono persone orribili e ce l’hanno scritto in volto.
Ora ho capito meglio, forse nel libretto era solo una suggestione.
Sto cercando di non vivere con asprezza rispetto al mondo che mi circonda, ma non sempre ci riesco. A volte preferisco suggerire che dire.
Ci sono stati altri intellettuali che hanno svolto per te lo stesso compito di Pasolini, con la stessa forza e intensità?
Secondo me Berlinguer è una figura di questo tipo. Mi è capitato di pensare a lui mentre lavoravo alla colonna sonora di un film sui funerali di Berlinguer (Arrivederci Berlinguer! di Michele Mellara e Alessandro Rossi, nda), e quindi ho dovuto approfondire molto più di quanto lo conoscessi prima. Anche in Berlinguer c’è quest’idea dello spendersi, del sacrificarsi fino alla fine. Anche se la sua morte è pubblica, diversissima da quella di Pasolini, imparagonabile. Però il dare tutto di sé lo trovo molto simile. E poi in questo Paese ci sono stati intellettuali di ogni intelligenza: Giovanna Marini, Andrea Pazienza, Benigni… tanti altri. Nessuno ha avuto la stessa determinazione di Pasolini nell’arrivare fino in fondo, ma questo non si può chiedere a nessuno. La vera domanda è: perché dovremmo accettare lo stesso percorso di solitudine e dolore che Pasolini ha accettato per questo Paese? Se lo merita? Questa è una domanda essenziale, secondo me. Io non credo che meriti questo spendersi. È la cosa peggiore che possiamo dire del Paese in cui viviamo. Pasolini l’ha accettato.
Mi ha colpito che tra i grandi intellettuali di questo Paese tu abbia citato Roberto Benigni.
Sono quelle intelligenze capaci di passare da Televacca alla Divina Commedia a memoria o all’esegesi dell’inno di Mameli e allo scherzo alla Carrà. Abbracciare quest’arco enorme non è da tutti. È una persona antica, scolpita in un tronco d’ulivo, non uno di quegli intellettuali tutti belli puliti intelligenti che col microfono in mano sanno in che telecamera guardare per fare bella figura.
Inevitabile chiederti come è andato l’anno appena trascorso, quello del ritorno dei CCCP.
È stato un anno di grandi impennate, mai previste prima. Assolutamente impreviste. Si è messa in moto una catena strana che è cominciata con poche chiacchiere al tavolino. Piccole frequentazioni, la sorpresa di riconoscersi l’uno negli occhi degli altri. Questo ha dato origine a una specie di valanga che è diventata la mostra, i concerti di Berlino e il tour in Italia. Senza ragionamento, senza pianificazione, senza progetto. È stato proprio un arrendersi alle cose che stavano capitando attorno a noi. Io trovo che sia la modalità migliore per porsi: non è un progetto di reunion, sarebbe ridicolo. Qualcuno può pensarlo, o pensare che sia una questione di soldi. Ma il pensare questo dà solo testimonianza di una pochezza di visione. Il pubblico che abbiamo visto davanti a noi, numerosissimo, era composto anche in buonissima parte da ragazzi molto giovani, a cui abbiamo parlato di Mishima e di Majakovskij e che non avevano la minima idea di chi fossero. Per questi ragazzi quei due nomi risuonano e diventano loro, aiutandoli a vivere e pensare che il mondo può anche cambiare e si può vivere meglio. È stato molto rinfrancante, sia per noi sia per il pubblico. Non ho la minima idea se ci sarà un seguito, non credo. Però è stato un abbandonarsi a quello che doveva capitare.
Mi pare di capire che non ci sono programmi.
Non c’erano neanche l’anno scorso e l’anno prima: c’è stata come una chiamata. Nei prossimi giorni ci vedremo per chiacchierare e vedere che cosa si dice. Non so cosa faremo, sicuramente non faremo il gruppo musicale che prepara tour o pubblica album. Mi sembrerebbe molto strano: ognuno di noi ha i suoi impegni e le sue cose. Io continuo a scrivere e comporre canzoni. Ogni spettacolo su Pasolini è una conquista, ogni spettacolo dei CCCP non ha questo carattere perché è qualcosa che è avvenuta o avviene, mentre a me piace strappare qualcosa al futuro, così come fa questo album.
Mi pare però che tu non escluda la possibilità.
A questo punto sarei sciocco a escluderla. Già tre anni fa sarebbe stato impensabile ipotizzare tutto quello che poi è accaduto.
Alla presentazione della mostra dei CCCP avevate escluso di fare concerti.
Eravamo assolutamente convinti. Non avremmo mai pensato a Berlino e a un tour in Italia.
Quasi un anno fa ho intervistato Umberto Negri a proposito del suo libro Io e i CCCP e a proposito del vostro ritorno. In quell’intervista ha detto che gli sarebbe piaciuto far parte della reunion, ma voi non gliel’avete chiesto, e che gli sarebbe piaciuto vedere riconosciuto il suo ruolo nella storia del gruppo, anche come autore di alcune canzoni. Vuoi dirgli qualcosa?
È meglio di no, credo. A queste domande lui dovrebbe essere in grado di dare una risposta da sé.
Sui social molti invocano il ritorno dei CSI. È fantasia o è una possibilità?
Fa parte delle cose del mondo. Non lo so. Prima ci vuole la vita e poi ci vuole l’arte. Amo le canzoni dei CSI, tantissimo: mi sembrano qualcosa di inarrivabile. Sono sbalordito da quello che abbiamo messo in musica: quello che è uscito è molto superiore alle nostre capacità, non so in quale stato fossimo mentre componevamo quelle canzoni. Non ascolterai mai niente del genere in giro per l’Italia. Non lo dico per sovrastima di quello che abbiamo fatto: lo considero un dato naturale, un’evidenza. Perché questo ritorno possa accadere bisogna che la vita ci riporti lì, certo cominciamo ad avere una bella età.