Siamo tornati a litigare sui film, ed è una bellissima notizia | Rolling Stone Italia
Mai come quest’anno

Siamo tornati a litigare sui film, ed è una bellissima notizia

Da ‘Emilia Pérez’ a ‘The Substance’ ad ‘Anora’, ci si accapiglia su tutto quel che esce o quasi. E la discussione diventa non più solo cinefila, ma anche (soprattutto) culturale, identitaria, generazionale. E va bene così

Siamo tornati a litigare sui film, ed è una bellissima notizia

Zoe Saldaña in ‘Emilia Pérez’ di Jacques Audiard

Foto: Lucky Red

“Mai come quest’anno”, diceva mia nonna di ogni cosa, ogni anno, e quindi non valeva mai niente, o valeva sempre tutto. Ed è perché ormai sono diventato mia nonna forse (o senza forse), ma mi pare che mai come quest’anno si litighi sui film, e ci si polarizzi (ma su cosa non lo si fa, oggigiorno), e che dello stesso titolo uno dica “capolavoro assoluto” e l’altro “boiata pazzesca”, in continuazione, e ognuno è convinto di aver ragione (ma su cosa non lo si è, oggigiorno).

E c’entra appunto il fatto che la polarizzazione riguarda tutto, e c’entrano al solito i soliti social, e in molti casi c’entra principalmente il fatto che chiunque pensa di arrivare per primo nel momento in cui il film lo vede lui, anche se l’hanno già visto in centomila. E se in centomila o quasi hanno detto per primi che il film è bellissimo, allora quel chiunque che lo vede per ultimo dirà che no, vi siete sbagliati tutti, fa cagare: si veda il caso Emilia Pérez – e di M tra le serie. (A volte succede il contrario, raramente ma succede. I centomila che vedono il tal film per primi dicono che fa cagare e chi arriva per ultimo grida al capolavoro o quasi: Babygirl, in questo senso, è un caso di studio).

C’entra il fatto – parlando sempre di Emilia Pérez – che i film diventano altro, transfert identitari (nessuno ha l’accento messicano!), o addirittura gender study (sempre Audiard ma anche, ancora, Babygirl), tutta roba che esula dallo specifico filmico, come diceva quello là, e che indica qualcos’altro, altri bisogni che non sono di certo il dibattito da cineforum (se non per alcuni casi – umani – di studio anche loro).

C’entra il discorso generazionale. Certi Gen Z, qualunque cosa significhi, non accettano Parthenope o Diamanti, per come mostrano il femminile con occhio ora troppo maschio etero cis ora troppo gay, e noi anziani (sono diventato mia nonna) proviamo a contestualizzare, riperimetrare, consigliare di leggere l’ultimo delizioso Francesco Piccolo (Son qui: m’ammazzi, appena uscito per Einaudi, parla di maschi nella letteratura italiana e un po’ ovunque). Ma poi ci scocciamo, e non diciamo niente, e va bene così. E lasciamo che s’accapiglino tra loro: il vero film femminista è Babygirl, no è The Substance, no fermi tutti è Nosferatu, da alcuni ribattezzato Yesferatu (mi ha fatto molto ridere). Qualcun altro di questi con la zeta nella generazione, a inizio anno, s’è addirittura inventato Babyratu, risposta di nicchia a Barbenheimer.

C’entra, su tutto, anche il cinema, che non è dettaglio da poco in tempi – decenni – in cui si dice che il cinema è morto, e intanto è morto David Lynch, che forse è la stessa cosa. Gli esperti seri, gli analisti degli incassi e delle curve, vi diranno che non è vero, che da dopo il Covid – ma pure prima – le sale non si sono più riprese, e difatti quelle che resistono sono pochissime, oppure sono diventate dei bistrot con lo schermo, per poter sopravvivere sbicchierando tra un Angelo Duro e l’altro. (Dalla mia esperienza di presentatore/moderatore/animatore di dibattiti da cineforum – vedi sopra – non credo sia tutto così limpido, ma anche qui poi mi scoccio, e non dico niente, e va bene così).

C’entra il cinema, dicevo, e il fatto che, almeno così pare a me, al cinema ci si va, si cerca l’evento, qualunque cosa significhi, e il film che fa discutere, qualunque cosa significhi pure questo. Mi pare anzi che, almeno in questa stagione qua, si parli più di film che di serie. E mi pare un momento di libertà assoluta per chi i film li guarda, , e pure per chi i film li fa, anche in quel caso cercando l’evento, provocando la discussione. “Ma perché non posso fare un film che dura più di tre ore, chi l’ha deciso?”, dice (più o meno) Brady Corbet chiacchierando con Sean Baker nel loro episodio di Directors on Directors su Variety. Altri due film i loro – The Brutalist e Anora, pure questi per alcuni capolavori e per altri filmetti – che si sono ritrovati frontrunner da Oscar senza avere regole da Oscar, anzi facendo entrambi quel che gli pare in termini di registri, scelte economiche, casting, e appunto lunghezza.

E allora anche il pubblico fa quel che gli pare, e litiga, e tifa, e uno dice che l’ultimo Almodóvar è splendido, e l’altro che fa schifo, e tu non capisci niente, no sei tu che devi restare a casa a guardare Squid Game. E cosa resterà domani – di questi film, di questi dibattiti – chi lo sa, intanto io so solo che mai come quest’anno…