Negli ultimi anni nella scena rap italiana è emersa con forza una nuova generazione di artisti cresciuti in comunità razzializzate. I rapper di seconda generazione, come vengono solitamente etichettati, hanno conquistato per la prima volta nel nostro Paese un ruolo rilevante. Un fenomeno di empowerment che racconta di un Paese profondamente cambiato, soprattutto tra i più giovani. Con il successo di artisti come Baby Gang si è anche fissato un canone musicale, estetico e comunicativo ben definito. Si è così affermato un rap che tende a descrivere senza filtri contesti di estrema marginalità sociale, legati alla micro-criminalità, e che si avvale di sonorità in voga nella scena francese, in particolare a Marsiglia, oppure derivate dalla drill inglese. In questo quadro vivace ma piuttosto uniforme è emerso Sayf, il rapper di cui la scena italiana aveva bisogno per cambiare registro, e aprire ad una rappresentazione meno monolitica dei giovani provenienti da comunità di persone razzializzate.
Ieri è uscito Se Dio vuole, un EP di nove brani del rapper italo-tunisino. Nel raccontare la figura di Sayf è opportuno partire da un elemento estetico, solo apparentemente superficiale: i capelli. Il rapper classe 1999 sfoggia infatti dei lunghi rasta. Mi rendo conto che questo potrebbe sembrare un dettaglio terribilmente superfluo, eppure non lo è. I rasta, in un certo senso, manifestano l’estremo disinteresse che il rapper dimostra all’idea di dover aderire a dei modelli prescritti. «Credo che la cosa che si percepisca nella mia musica è che non c’è una reference», mi racconta. «Il pubblico si accorge che quello che faccio è spontaneo. Io faccio le cose alla buona, ma non nel senso che le faccio a caso, nel senso che faccio quel che mi sento di fare, senza preclusioni mentali».
Cresciuto in Liguria in una famiglia composta da madre tunisina e padre italiano, il rapper ha convissuto con questa duplice identità, costruendone una propria, che non è semplicemente la somma delle due. Sayf è infatti figlio di molteplici influenze, che vanno al di là del suo doppio passaporto. Cresce all’interno di una scena artistica rigorosa come quella genovese, ma non ascolta solo rap. «Mi piace tutta la scena rap europea e non solo, però non è il mio pallino. Ascolto la samba e la cumbia tanto quando le canzoni melodiche italiane. Anche qui non c’è nulla di predefinito. Non lo faccio questo perché mi voglio distinguere dagli altri, lo faccio perché sono così». Queste molteplici influenze creano un cocktail innovativo di riferimenti a cui attingere. Di brano in brano, il rapper cambia stile e sound, sorprendendo l’ascoltatore e proponendo un approccio alla musica molto poco dogmatico.
A fare da collante ad un percorso apparentemente disomogeneo come quello di Sayf c’è il suo tone of voice, forse l’elemento più riconoscibile del rapper. Nonostante abbia vissuto momenti difficili, come racconta nell’intro di Se Dio vuole, l’approccio di Sayf alla vita è propositivo e a tratti leggero. Il rapper ligure osserva la realtà, ma non sembra esserne sovrastato. Ne viene fuori un rap molto meno cupo rispetto a quello dei colleghi. «Cerco sempre di prendere il buono dalle cose. Credo che le persone mi associno comunque a un immaginario, passami il termine, maranza. Lo fanno perché questo è il mio background, le situazioni sono le stesse e io non voglio assolutamente dissociarmici. Diciamo che semplicemente voglio parlare anche di altre cose della vita, non solo delle tarantelle. Negli ultimi anni molti rapper hanno fatto a gara a chi ce l’aveva più lungo. A me sinceramente non interessa. Io sono un ragazzo tranquillo e la racconto per come l’ho vissuta io».
Sayf ha dunque un approccio che si allontana dallo stereotipo del rapper duro e violento, anche nel racconto della vita quotidiana. Ha per esempio uno sguardo nei confronti delle donne e del sesso molto meno machista di altri suoi colleghi. «Le donne vanno amate tutte», mi dice facendosi una risata. «Sai, non è che io mi voglia vendere come il rapper che parla di tipe, non fa per me. Diciamo che è un tema che ci sta e cerco di farlo sia scherzandoci sopra che andando più a fondo». Nell’EP due dei quattro brani inediti parlano di donne: Occhialata Carrera, dove emerge uno sguardo ironico e disincantato nei confronti della sessualità, ed Egoista, il pezzo più melodico del progetto, in cui affiora il tema del possesso nelle relazioni.
Il percorso di Sayf, che oggi appare giunto a maturazione, lo ha portato a definire sempre di più questa sua personalità eclettica. Non è sempre stato così. Racconta quanto per lui sia stato lungo questo processo evolutivo. «Lo dico in alcuni brani, io sono uno che si vuole godere la vita e ho sempre provato a farlo nel suo piccolo. Per fortuna ho incontrato una persona come Helmi che mi ha sempre spinto a fare meglio e mettermi in discussione». Helmi Sa7bi è un rapper italo-tunisino, insieme a Sayf, Sossy, Marvin e Vincè, ha fondato il collettivo Genovarabe. «Più in generale, il progetto Genovarabe mi ha aiutato tantissimo. Innanzitutto abbiamo fatto qualcosa di nostro in città. Noi abbiamo rapporti fraterni con tutti i rapper di Genova, ma è stata la prima volta in cui abbiamo espresso la nostra identità come qualcosa di diverso nel panorama della scena rap. Poi, è stata una occasione per capire meglio chi ero, forse a questo serve far parte di un collettivo».
Se Dio vuole, che poi non è altro che trasposizione italiana del termine arabo Inshallah, introduce al pubblico una figura potenzialmente innovativa per la scena rap italiana. Il prossimo passaggio, inevitabile, sarà trasportare questo immaginario sul palco. Avverrà l’11 aprile in Santeria a Milano, quando Sayf si esibirà per la prima volta dal vivo.