‘FolleMente’ Paolo Genovese: «Solo le idee possono battere l’algoritmo» | Rolling Stone Italia
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‘FolleMente’ Paolo Genovese: «Solo le idee possono battere l’algoritmo»

Il regista torna al cinema con un film che può ricordare ‘Perfetti sconosciuti’ (e che potrebbe superare quegli incassi). Una lunga chiacchierata tra high concept, IA, ispirazione, John Landis e Steven Spielberg. E la libertà di usare i successi solo per ricominciare sempre da capo

‘FolleMente’ Paolo Genovese: «Solo le idee possono battere l’algoritmo»

Paolo Genovese con Vittoria Puccini ed Emanuela Fanelli sul set di ‘FolleMente’

Foto: 01 Distribution

Su una parete della CMA, l’agenzia fittizia (ma verosimilissima) di Call My Agent – Italia, è affisso il poster del remake cinese di Perfetti sconosciuti. È il memento per tutti gli agenti: si erano fatti scappare Paolo Genovese come cliente e lui subito dopo aveva girato quello che sarebbe diventato non solo un campione d’incassi al botteghino, ma anche un caso di costume e un benchmark per la commedia a venire.

Nove anni dopo – e molti lavori in mezzo – Genovese torna, apparentemente, sul luogo del delitto. Perché avviene ancora tutto in una casa e in una notte. E perché alla base c’è ancora un forte high concept, come si dice in gergo. Un uomo (Edoardo Leo), una donna (Pilar Fogliati), un primo appuntamento. Che però verrà condotto da quello che si agita nella testa di lui (i quattro diversi “sé” nel suo cervello: Rocco Papaleo, Marco Giallini, Claudio Santamaria e Maurizio Lastrico) e di lei (cioè i corrispettivi femminili: Claudia Pandolfi, Emanuela Fanelli, Vittoria Puccini e Maria Chiara Giannetta).

L’idea viene prima di Inside Out, dopo uno spot girato per la Rai più di vent’anni fa. Ed è cambiata, nel tempo, anche alla luce delle nuove sensibilità nel mettere in scena il rapporto uomo-donna. Anche di questo parliamo durante una lunga chiacchierata a pochi giorni dall’uscita nelle sale (il 20 febbraio con 01 Distribution) di un film che si candida a nuovi grandi incassi. È il limbo in cui il film non è più del suo autore e ancora non è del pubblico, «un momento difficile», attacca subito lui, «quello in cui decidi che il film è pronto ma in realtà non sei tu a sceglierlo, sono i tempi, l’uscita… Io, e penso qualunque mio collega, un film non lo mollerei mai. Poi è giusto che a un certo punto succeda, se no diventa un rapporto tossico, ma non finiresti mai di cambiare, di toccare… La prima visione col pubblico è sempre molto emozionante, soprattutto con le commedie: lì hai il segnale chiaro se la parte di commedia funziona o no, e quello non lo sai finché non vai in sala».

Edoardo Leo e Pilar Fogliati in una scena del film. Foto: 01 Distribution

Mi viene in mente Christian De Sica, che dice sempre che il test su ogni cinepanettone era andare a vederlo al cinema in mezzo alla gente.
Ho questo ricordo di tantissimi anni fa, quando uscì Acqua e sapone di Verdone. Ero un fan assoluto di Verdone, e andai a vederlo credo all’Adriano. A pochi minuti dai titoli di testa, vedo due persone che entrano a sala spenta e si vanno a sedere due posti dietro di me. Erano Verdone e un suo amico. Mi ricordo che ero emozionatissimo ad avere Verdone dietro mentre guardavo il suo film.

Lasciare al pubblico un film come FolleMente, che nasce da una tua idea di più di vent’anni fa, è sentimentalmente più difficile?
In realtà succede con tutti. Nel momento in cui giri un film azzeri tutto: da dove è venuta l’idea, com’è cambiata, eccetera. Hai solo la tua storia in mano e sul set vai dritto, le scene son quelle, pensi al tuo lavoro con gli attori. Poi arriva il montaggio, che è una fase fondamentale perché ti permette di cambiare la narrazione. Non è che un film orrendo diventa un capolavoro o viceversa, ma spesso col montaggio può guadagnare o perdere moltissimo. È lì che fai le scelte che danno il risultato finale. Non è una scienza esatta, è tutto soggettivo, e in quella fase scegli di fare il film che, prima di tutti, convince te.

È un’affermazione totalmente anti-algoritmo.
Io sono abbastanza dubbioso e perplesso sull’uso e l’efficacia dell’algoritmo, perché è esattamente l’opposto di quello che dovrebbe essere il cinema. L’algoritmo, per quanto efficace, si basa su tutto ciò che è stato; per semplificare: su tutto ciò che è piaciuto. Invece il cinema e l’arte in generale dovrebbe essere tutto ciò che ancora non sappiamo potrebbe piacerci. E in quell’alea di rischio ma di novità sta spesso la fortuna di un film. L’algoritmo si ferma all’oggi, al fatto, e rielabora una quantità di informazioni già acquisite, come l’intelligenza artificiale. Se non andiamo oltre e non rischiamo, non produciamo niente di nuovo. Non è un caso che tantissimi capolavori sia italiani che internazionali che all’inizio non dovevano essere prodotti proprio per un ragionamento di tipo alogoritmico – “È una cosa nuova, non piacerà” – poi sono stati dei grandi successi. Per una serie di cose mie, sto rivedendomi John Landis e mi studiavo la sua autobiografia, dove racconta che i suoi film più assurdi come Un lupo mannaro americano a Londra non voleva produrli nessuno. “Che cos’è? Parte come una commedia, poi diventa un  horror, ma sono due generi che non possono essere associati”, pensavano all’epoca. L’algoritmo avrebbe acceso una lucetta rossa: “Errore! Errore!”. Landis ebbe una difficoltà folle a produrre quel film, che oggi invece è un cult.

Quanto è cambiata in più di vent’anni l’idea di FolleMente? Anche alla luce della rappresentazione dei sessi – e del sesso – che è mutata col tempo.
È cambiata tantissimo. Al di là di quello spot di tanti anni fa (una pubblicità per il canone Rai girata insieme all’allora “socio” Luca Miniero, nda) che ha ispirato il soggetto, il gioco di esplorare le menti dei personaggi è stato usato spesso, penso per esempio a Woody Allen. Ma in FolleMente in particolare, essendo il fuoco sul rapporto di coppia, bisognava tener conto del fatto che in questo momento storico il ruolo dell’uomo e della donna è cambiato velocemente e profondamente, ridefinendo tutto anche in modo grottesco. Adesso un incontro a due diventa un po’ come una escape room: hai tutti gli indizi, ma se sbagli una cosa sei fuori. E questo per me si prestava molto a ironizzare. La commedia ha la forza di guardare con sarcasmo alla società, ed è tanto più forte quanto più i cambiamenti della società ci toccano da vicino. Penso sia stato un po’ il motivo del successo di Perfetti sconosciuti: era un momento in cui gli smartphone stavano stravolgendo la nostra vita, quindi un racconto che ironizzasse e anche drammatizzasse quel tema poteva funzionare. Stesso discorso per FolleMente: nel momento in cui il rapporto di coppia si sta ridisegnando, è interessante giocarci. Le idee non hanno valore in assoluto, sono più forti quanto più sono legate al momento storico in cui vengono generate. Forse oggi un film sugli smartphone sarebbe obsoleto o quantomeno diverso, perché in otto anni il nostro rapporto coi media è stato completamente stravolto.

Paolo Genovese con, da sinistra, Vittoria Puccini, Emanuela Fanelli, Pilar Fogliati, Maria Chiara Giannetta e Claudia Pandolfi. Foto: Fabio Lovino

Viviamo, oggi, nell’epoca dell’iper-identitarismo, del riconoscersi in categorie precise e anche dell’offendersi se non siamo rappresentati a dovere. Quanto bisogna essere sensibili e in ascolto nei confronti di tutto questo, senza però al tempo stesso rischiare di autocensurarsi?
Bisogna essere assolutamente in ascolto, altrimenti diventiamo miopi e indifferenti alle trasformazioni. Però bisogna anche tenere conto del ruolo del cinema nella società, e fare attenzione al politicamente corretto, perché c’è il rischio che diventi ideologico. Prima c’era la censura, che oggi è definita politicamente scorretta, ma il rischio è che si usi il politicamente corretto proprio per censurare, il che crea un circolo vizioso. Penso che molto stia alla sensibilità dell’autore e al contesto in cui certe tematiche vengono affrontate. Non possiamo ignorare gli enormi passi avanti in tema di inclusività e di rispetto che sono stati fatti, ma allo stesso tempo non è possibile non poterci più scherzare, giocare, ridere sopra.

Torniamo al rapporto uomo-donna.
La donna oggi rivendica di più, ed è sacrosanto. Il suo ruolo ha avuto giustamente una grande evoluzione, si è affermata, ha conquistato posizioni, fa valere i propri diritti. Quindi anche nel mio film la donna è molto più agente. Però il meccanismo delle diverse personalità sia nella testa della donna che in quella dell’uomo ha dato a me e ai miei sceneggiatori (Isabella Aguilar, Lucia Calamaro, Paolo Costella e Flaminia Gressi, nda) la possibilità di rappresentare entrambi a 360 gradi. La nostra donna dentro di sé è abitata, si interroga su ogni tema. Non dice: “È l’uomo che deve portare il vino”, pensa: “Forse dovrebbe farlo l’uomo, ma dipende dalla circostanza”. La cosa interessante è che questo film, pur nella leggerezza della commedia, vuole buttare un sassolino e ragionare sulle diverse possibilità che esistono, e su quanto non dobbiamo tracciare una linea netta e invalicabile su tutto ma valutare ogni situazione, che può essere personalizzata, soggettiva. Non dobbiamo dare sempre un valore assoluto alle cose, ma cercare di essere più flessibili, e soprattutto di distinguere e comprendere i contesti.

Anche l’uomo in questo film è abitato, come dici tu. Soprattutto da una maggiore fragilità.
Abbiamo raccontato l’inadeguatezza dell’uomo in questo momento, che è un dato di fatto: il suo ruolo millenario è cambiato in maniera così veloce negli ultimi anni da portarlo necessariamente a uno spiazzamento e alla necessità di rieducarsi, e questo avviene nella società in modalità diverse. C’è una parte che rifiuta il cambiamento, ed è un fatto; un’altra che lo osserva in maniera distaccata, come a dire: “Sì, il patriarcato è assurdo, ma a me non riguarda, non sono così”, e dunque in qualche modo se ne tira fuori; e una terza parte che accoglie in pieno il cambiamento ma non sa esattamente come gestirlo. Da queste diverse dialettiche nasce uno scontro che è molto curioso.

Come hai apparecchiato la tavola per i tuoi attori, anche per farli scontrare su questo nodo fondamentale?
Capire il cast giusto è il lavoro principale del regista, soprattutto nella comicità di situazione. C’è la comicità di battuta, che pure mi piace molto. Penso a Pieraccioni, Siani, Aldo Giovanni e Giacomo, con alcuni di loro ho anche lavorato. Lì quando viene la battuta ti rendi subito conto se è divertente o meno, mentre la comicità di situazione è più un’alchimia che costruisci: puoi ridere semplicemente perché un attore alza gli occhi al cielo, ma è perché la situazione che hai costruito ti porta a farlo; e questo non lo sai mai perché succede, è una magia. Anche in FolleMente non sapevo esattamente dove il pubblico avrebbe potuto ridere, e qui entra in gioco l’alchimia del gruppo, per la quale fai un lavoro in base alla tua esperienza e ai provini. Ho pensato che la parte folle sarebbe potuta essere ben interpretata da Rocco Papaleo, perché ha quella vena di follia, invece quella più razionale l’ho data a Marco Giallini perché mi sembrava curioso trovare un attore che siamo abituati a vedere come commissario romano e coatto, o in scene violente alla ACAB, nel ruolo dell’intellettuale: era una bella contrapposizione. E credo che Edoardo Leo riesca a mettere sia la parte di commedia sia il romanticismo, che era esattamente il tono del film. Di Pilar invece ti puoi innamorare, ma allo stesso tempo è molto divertente. Sono le mie convinzioni, ma possono anche essere disattese. Questo è il mio diciassettesimo o diciottesimo film e mi è capitato di sbagliare, di scegliere un attore e rendermi poi conto che le mie considerazioni erano sbagliate, e non perché non fosse bravo, ma perché non era giusto per il ruolo.

Queste sono le classiche cose che dite, e poi noi però non possiamo mai chiedervi i nomi.
Purtroppo no (ride).

Le diverse parti nel cervello del protagonista Edoardo Leo: Marco Giallini, Claudio Santamaria, Maurizio Lastrico e Rocco Papaleo. Foto: 01 Distribution

Sulla commedia romantica mi hai anticipato tu. Farla in questo Paese sembra sempre un azzardo, forse è un genere che ci spaventa, ma tant’è che non abbiamo mai costituito un nostro canone.
Forse spaventa perché non abbiamo degli attori fortemente connotati in questo senso. Uno come Hugh Grant non ce l’abbiamo, perciò è difficile creare quel mondo di commedie meravigliose alla Notting Hill, Love Actually, e prima ancora C’è posta per te, Harry, ti presento Sally… Non è un genere facile da fare perché è pieno di trappole, rischi lo smielato. Io ogni tanto mi ci sono avventurato, sia nel dramma romantico con Supereroi che nella commedia romantica più classica, e FolleMente lo è. Oppure ho fatto film dove dentro c’erano storie romantiche: Tutta colpa di Freud, lo stesso Immaturi… Però ti confesso che non è mai facile.

Sia per il soggetto che per la composizione formale, al pubblico FolleMente non potrà non ricordare Perfetti sconosciuti. Come si vive il lascito di un film che non solo è stato un grande successo di box office, ma ha anche segnato il costume?
Qualcuno potrà pensare a Perfetti sconosciuti, è inevitabile. E sia chiaro, io sono felicissimo di Perfetti sconosciuti. Il desiderio di ogni autore è avere almeno un film che venga ricordato, e quello è stato un enorme successo anche internazionale, con remake in tutto il mondo. Ma non ti devi far condizionare, altrimenti smetti di fare film: non puoi sempre pensare che devi fare come quella volta, o addirittura meglio.

Diventa un’altra forma di algoritmo.
Sì, è una trappola in cui non devi cascare, e io penso di non esserci cascato. Dopo Perfetti sconosciuti tutti mi spingevano a fare il sequel, o una serie, era il modo facile per rifare qualcosa che era andato bene. Però io non ho voluto, sarebbe stato un errore: non avevo più niente da dire su quella storia, l’avrei fatto solo per fini commerciali. Non devi rimanere ancorato a un successo, quello che devi fare – ed è giusto farlo – è ragionare sul perché quel film è andato così bene, ma non per fare qualcosa di simile: per capire cosa ha toccato. Evidentemente c’era una buona sceneggiatura, un tema estremamente attuale e una narrazione che permetteva una forte identificazione in quel momento. Avrei voluto avere questi elementi in una nuova commedia, e penso che FolleMente li abbia. C’è un tema a forte identificazione, una buona sceneggiatura e un’idea. Anche se dopo il treno dei Lumière i mondi sono stati davvero esplorati tutti, è difficile trovare un’idea mai fatta. Una nave che affonda? Titanic. Due vite parallele? Sliding Doors. I viaggi nel tempo? Tantissimi, da Ritorno al futuro a Non ci resta che piangere. Quello che puoi fare è trovare un nuovo punto di vista, una nuova storia adatta al momento. Penso che FolleMente ce l’abbia. È un film completamente diverso da Perfetti sconosciuti, ma c’è un filo rosso che li unisce.

FOLLEMENTE di Paolo Genovese - Trailer Ufficiale HD

Parlando di idee originali, oggi sembrano quasi rifiutate dall’industria. Si preferisce andare sul sicuro, come dicevi tu: sequel, serie “tratte da”, adattamenti di libri famosi, e anche tu con I leoni di Sicilia ne sai qualcosa.
Sì, ultimamente vengono prodotti tantissimi remake di film stranieri, o sequel, o film tratti da romanzi. E il rischio è che la creatività non si impegni più di tanto, quando invece è un momento in cui dovrebbe essere al massimo, soprattutto considerato l’arrivo abbastanza preoccupante dell’intelligenza artificiale nella revisione della scrittura delle storie. Oggi quello che deve essere fresco è proprio il contenuto, e non mi vengono in mente così tante idee originali che vanno in questa direzione. Squid Game lo è stata, e infatti ha sparigliato tutto.

Che autore è Paolo Genovese oggi?
Ho la fortuna di sentirmi molto libero. Sono grato perché mi è sempre stato permesso di raccontare le storie che volevo senza mai dover seguire il tracciato fatto. Se vedi i miei ultimi film sono molto diversi, pure abbastanza schizofrenici. Dopo Perfetti sconosciuti ho fatto The Place che era al limite dello sperimentale, e poi Supereroi che è un dramma, e Il primo giorno della mia vita che parla addirittura di suicidio. Sono tutti distanti anni luce tra loro, e ora torno a fare una commedia che fa ridere. Il prossimo film sarà ancora sulle coppie ma più d’autore, con un punto di vista ancora diverso, una specie di tranche de vie, un’osservazione della realtà con cui finora non mi sono mai misurato. Non mi piace quando dicono che un autore deve avere uno stile sempre uguale per poter essere riconoscibile, così da vedere in ogni film che è lui. Il mio riferimento assoluto di autore è Spielberg, uno che ha fatto di tutto dallo Squalo a E.T. al Colore viola, film così diversi che se arrivasse un extraterrestre forse non riconoscerebbe la stessa mano.

E nemmeno l’algoritmo saprebbe come comportarsi.
Andrebbe in tilt. Spielberg è quello che sconfiggerà l’algoritmo.

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