‘Grand Theft Hamlet’: essere o non essere? Giocare, forse | Rolling Stone Italia
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‘Grand Theft Hamlet’: essere o non essere? Giocare, forse

‘Amleto’ nel mondo di ‘Grand Theft Auto’? Succede in un documentario (im)possibile appena arrivato su MUBI. Abbiamo incontrato la coppia sul set (e nella vita reale) Sam Crane e Pinny Grylls. Per parlare di follia, creatività, Covid e, ovviamente, Shakespeare

‘Grand Theft Hamlet’: essere o non essere? Giocare, forse

Un’immagine di ‘Grand Theft Hamlet’

Foto: MUBI

C’era una volta Second Life. Ve lo ricordate? Era quasi vent’anni fa, per alcuni mesi tutti volevano investire in immobili virtuali, fare eventi promozionali in questo mondo “altro” che in realtà in pochi riuscivano a vedere, navigare, vivere, perché le connessioni veloci ancora non erano diffuse capillarmente e, a dirla tutta, non erano abbastanza veloci per quell’ambiente che era decisamente troppo avanti con i tempi. In realtà, come è oggi l’intelligenza artificiale, era un mondo in versione Beta, si trattava solo del teaser di quello che sarebbe poi accaduto, ovvero la creazione di altri mondi in cui far fare alla gente quello che gli riesce meglio: spendere soldi. L’industria del videogioco è quella che ha saputo sfruttare nel modo più efficiente questa possibilità, soprattutto perché ha le capacità tecniche per creare, gestire, espandere questi pianeti.

Come accade in Grand Theft Auto, uno dei franchise più fortunati della storia videoludica, di cui erano appassionati i due amici Sam Crane e Mark Oosterveen, entrambi attori di quelli “normali”, ruoli secondari da poche pose al cinema, qualcosa di più rilevante a teatro, magari protagonisti in qualche commedia che va in scena in teatri fuori dal West End londinese. Comunque in grado di tirare fuori uno stipendio più che dignitoso dalla loro arte e dal loro talento. Fino al marzo del 2020: arriva il Covid e tutto si ferma, cinema, teatro. La vita anche si ferma. Ma non quella nel mondo online di GTA. Basta avere il proprio avatar per rubare macchine, spararsi addosso a vicenda, esplorare una falsa Los Angeles dove a un certo punto ci si può imbattere in una replica perfetta dell’Hollywood Bowl. Un posto magnifico per fare uno spettacolo. Anche non in carne e ossa. Sam e Mark ci pensano sul serio: Amleto, come palco il mondo altro, nel cast tutti quelli che dal gameplay vogliono passare al semplice play, o jouer come direbbero i francesi.

Questo è Grand Theft Hamlet, più che un documentario un trattato di filosofia e una seduta di psicanalisi, tutto girato usando le registrazioni delle ore passate a organizzare, provare e realizzare la folle idea di questi Fitzcarraldo digitali, e anche se non si sono dovuti tirare appresso una barca su una montagna, ciò non vuol dire che sia stato semplice. Lo sa bene Pinny Grylls, regista e montatrice del film, nonché compagna di Sam, che ha quindi vissuto quest’esperienza su diversi livelli di realtà e, in fondo, anche di non-realtà, intesa come il quasi rasentare la follia, quella in cui il lockdown stava gettando un po’ tutti noi, e l’ossessione di un compagno deciso a portare a termine quella che ormai vedeva come unica ragione di vita. Ne è venuto fuori un film bellissimo e impossibile, che dal 21 febbraio è disponibile su MUBI.

Ne ho parlato con Sam e Pinny, e la nostra conversazione l’ho cominciata facendo loro quello che considero sempre un grande complimento, e cioè che sono due pazzi di cui abbiamo, perché la pazzia è la fonte della creatività. E subito dopo la domanda: quanto è stato difficile realizzare questo film? «Molto, perché stavamo cercando di fare due cose contemporaneamente. Sam di mettere in scena Amleto in Grand Theft Auto e io di fare un film su questo tentativo. Quindi, nell’estate del 2022, siamo quasi impazziti davvero», ci tiene a precisare Pinny. «È stata una sfida», prosegue Sam. «Avevamo tanto materiale perché registravamo ogni sessione di gioco, centinaia e centinaia di ore. Il lavoro di montaggio di Pinny è stato una cosa incredibile».

GRAND THEFT HAMLET | Official Trailer | Coming Soon

«Ho iniziato a montare quando Sam è tornato a lavorare a teatro. Stava facendo Harry Potter and the Cursed Child nel West End, ma il lavoro si è interrotto quando è cominciato il lockdown. È stata anche la ragione per cui ci siamo avventurati in questo progetto. I teatri erano chiusi e non poteva fare il lavoro che ama fare. Così gli è venuta questa idea folle. Quando rientrava la sera guardavamo il montato e ne parlavamo insieme. È stato… intenso». Anche a livello familiare, perché come può accadere quando si vive in una condizione di duplice realtà, si iniziano a confondere confini e personalità. La fusione tra videogiochi e cinema non è certo una novità, ma Grand Theft Hamlet va oltre, è la prima volta che viene realizzato un documentario all’interno dell’ambiente di gameplay, e non solo degli inserti o una parte di esso, ma nella sua interezza. Un concetto profondo, che permette di osservare una vera falsa realtà guidata da sentimenti tangibilissimi. Cosa di cui si sono resi perfettamente conto Sam e Pinny.

«Mi ha sconvolto quello che stavamo cercando di realizzare in tutti i diversi livelli di realtà», racconta Sam. «Fare un film dall’idea di mettere in scena un’opera teatrale, ovvero la rappresentazione di una storia vecchia di 500 anni, al cui all’interno c’è un’opera teatrale, in un mondo virtuale usandolo come set, fingendo di essere ciò che non si è come persone e come attori, mentre la stessa opera, Amleto, parla di persone che indossano maschere, il che si adatta perfettamente all’essere in forma di avatar. Ma la cosa vera era l’autenticità delle emozioni delle persone dietro l’avatar, che filtrava in questo mondo digitale passando attraverso la storia shakespeariana che stavamo cercando di raccontare».

Ho sempre pensato che a volte la creatività abbia bisogno di un posto tranquillo per poter deflagrare ai suoi massimi livelli. E non c’è stato niente che abbia reso possibile un ambiente più adatto a questa esplosione del periodo di lockdown. Ho condiviso questa riflessione con Sam e Pinny. «Hai ragione. C’era anche una concomitanza economica: il governo britannico aveva messo degli strumenti a disposizione di determinate categoria, come la cassa integrazione. Ma noi no, non potevamo guadagnarci da vivere», ci tiene a sottolineare Sam, che come tutti i lavoratori dello spettacolo ha passato un brutto periodo a causa del Covid. In Gran Bretagna, in particolare, la situazione è stata drammatica, visto che l’industria dell’intrattenimento passa soprattutto attraverso i teatri e la stagione dei festival musicali estivi. «Di contro, la banca ci aveva sospeso il mutuo e non potevamo spendere niente, quindi ci siamo trovati improvvisamente in una strana condizione, perché avevamo tempo e spazio per pensare, sviluppare e realizzare questo progetto e anche la tranquillità economica per dedicarci ad esso. E per essere chiari, in realtà il film è costato, il fatto che fosse realizzato in un ambiente virtuale non vuol dire che si potesse fare gratis».

«Avevamo la percezione del rischio, come se in ogni momento fossimo consapevoli che non avrebbe funzionato, e in effetti stava per crollare tutto a un certo punto», ricorda Pinny. «Ma alla fine è andata bene. Il contesto della pandemia e il tempo che si è dilatato ci hanno permesso di divertirci, ma anche di pensare al mondo in modo diverso. Spero che dal film traspaia il profondo bisogno che soprattutto Sam aveva di dare un senso a tutto questo. È stato lui a spronarci, perché aveva bisogno di questo progetto. E credo che questo dica qualcosa di universale su come cerchiamo di andare in profondità per andare avanti quando siamo in crisi». E c’è ancora gente che pensa che i videogiochi facciano male…

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