Buzz Osborne è come i suoi capelli: un ribelle al di là delle mode, un outsider come il suo amico Kurt Cobain, che iniziò a bazzicare il mondo della musica in quanto fan dei Melvins. Il suo atteggiamento anarchico, il suo fottersene delle regole gli ha salvato la pelle rendendo la sua band longeva. Non gli piace l’etichetta di fondatore dello sludge metal (il genere che unisce hardcore e grevi affondi sabbathiani) e, a 60 anni compiuti, si prende la licenza di dire esattamente quello che pensa.
Molti hanno conosciuto i Melvins quando nel 1994 sono stati gruppo supporter dell’ultimo passaggio dei Nirvana in Europa. In attesa di ascoltare il nuovo Thunderball e di rivedere i Melvins in concerto a Roma e Milano a fine luglio, la nostra chiacchierata parte proprio da lì.
Quello del 1994 è stato l’ultimo tour dei Nirvana prima del suicidio di Kurt Cobain. Che cosa ricordi di quelle date?
Si trattava di show enormi, mastodontici, molto lontani dall’orientamento delle nostre band. Ne ho un ricordo orribile. Stavano succedendo un sacco di cose nel backstage che non erano sane e i Nirvana erano circondati da persone tossiche, da parassiti. Io cercavo di proteggermi e avrei voluto proteggere anche Kurt ma non potevo. Non mi piaceva Courtney Love, e non mi piaceva il tour manager perché avevano una cattiva influenza su di lui. Nessuno in quel momento era felice. Kurt si trovava in condizioni terribili, era fragilissimo, per cui non mi ha sorpreso la tragedia che è poi avvenuta. I Nirvana dopo le date italiane dovevano suonare a Monaco di Baviera per due sere, ma lo fecero solo per una, il loro ultimo show. Ricordo che non riuscii neppure a guardare l’intera performance tanta era la pena che provavo.
Quando hai saputo della sua morte?
Dopo aver suonato con i Nirvana abbiamo continuato il nostro tour personale in Europa, che sarebbe poi proseguito negli Stati Uniti. Ce lo ha detto una volta atterrati a Boston il ragazzo che è venuto a prenderci all’aeroporto. Non mi ha sorpreso affatto. Non mi sconvolgo mai quando qualcuno con problemi di tossicodipendenza fa quella fine. Anche se si è suicidato, la questione di base è sempre la droga. Ho avuto problemi di alcolismo tempo fa, ma fortunatamente mi sono fermato prima del baratro. Ora non bevo, non fumo, scrivo musica, guardo film e porto a spasso i miei adorati cani.
Pensi che il successo possa uccidere?
Il successo butta addosso una pressione enorme e attira personaggi squallidi, ma tutto dipende dalla persona: un individuo vulnerabile con problemi di tossicodipendenza può non reggere. Il problema di base sono le droghe, a ogni livello della società, perché ti rendono schiavo, fragile, cambiano la struttura della personalità. Non importa se muori di Fentanyl per strada o nella tua villa di Minneapolis come Prince; il problema a monte è sempre la dipendenza.
Mark Lanegan una volta mi disse di aver capito troppo tardi che non era necessario drogarsi per essere creativo.
Infatti, non c’è nulla di romantico nell’uso delle droghe. Può darsi che questa idea sia un retaggio della Beat Generation, degli anni ’60 e ’70, ma posso garantire che si può essere artisticamente prolifici anche senza l’uso di sostanze psicotrope.
Quanto conta la disciplina per un musicista?
È molto importante: io lavoro molto, in modo metodico, perché scrivere canzoni è la mia vita e perché senza una totale dedizione in questo settore non vai da nessuna parte. Ho letto un’intervista a Bob Dylan, uno dei miei miti, dove gli veniva chiesto del perché faceva ancora tour a 80 anni e la sua risposta è stata molto pragmatica: «Perché è l’impegno che mi sono preso molto tempo fa». Per me è uguale e non è stato facile visto che avevo la famiglia contro. I miei genitori pensavano fossi un fallito perché non mi adeguavo alle regole neanche in casa. Mentre mio fratello e mia sorella guardavano la tv, io mi rintanavo in camera mia a leggere i libri di Jack London e ad ascoltare musica. A quel tempo bevevo anche per fuggire da una realtà che sentivo asfittica, poi la band mi ha dato l’opportunità di scappare e allora ho smesso. La musica è stata una via di fuga per tanti della mia generazione: anche Kurt Cobain e Mark Lanegan hanno iniziato a suonare per uscire da uno stato di costrizione sociale e interiore, e dire che loro arrivavano da posti più grandi come Aberdeen e da Ellensburg, mentre io venivo da Morton, che è un luogo davvero sperduto. Quando ho iniziato ad ascoltare musica nei tardi anni ‘70, avevo accesso solo ai Beatles, agli Aerosmith e ai Black Flag, gusto che condividevo con Kurt Cobain.
Ti senti punk?
Ho sempre cercato la totale libertà espressiva. Non mi piace parlare di punk, anche quella è una categorizzazione da cui fuggo volentieri. Anche la musica dei Melvins non è etichettabile: abbiamo sempre mescolato metal e punk, rock e noise, pop e sperimentazione. Ogni album è diverso proprio per evitare di venire bollati da una definizione.
Quando hai iniziato a suonare ti saresti immaginato di essere ancora qui a 60 anni?
No, affatto. Nel 1988, mentre mi dedicavo all’album Ozma e contemporaneamente lavoravo in un ristorante per pagarmi le bollette, ho ricevuto il mio primo assegno di poche migliaia di dollari dalla Boner Records da dividere con Dale Crover per la realizzazione del disco. Eravamo esterrefatti, non avevamo mai visto tanti soldi tutti insieme. Abbiamo deciso di provare a lasciare i nostri lavori per vivere di musica e oggi possiamo dire di avercela fatta, senza mai essere giunti a compromessi e avere abbracciato politiche commerciali.
Eri considerato un po’ il guru della scena alternativa visto che, tra gli altri, hai ispirato proprio Kurt Cobain. Come ti fa sentire?
Non ho mai seguito il mainstream. A metà degli anni ’80 sentivo che mancava qualcosa nella musica, sia nel pop che nell’heavy metal. Mi piaceva l’idea di mescolare la pesantezza dei Black Sabbath con il punk, una cosa che non era mai stata fatta prima. Ci ho visto giusto, ma non potevo immaginare di aver creato un nuovo stile poi etichettato come sludge. Detto ciò, non sono un guru, la maggior parte delle persone a questo mondo non sono interessate a ciò che dico e non sanno neppure che esisto. Sono una persona che lavora da quando aveva 13 anni, quindi il fatto di essere un’icona non mi tocca. Me lo dicono gli altri, ma la mia vita non è mai cambiata. Vivo con Mackie, la mia ragazza di sempre poi diventata mia moglie, e due cani, non amo i social, uso il cellulare solo per le chiamate e quando non suono mi piace giocare a golf. Sono molto bravo e ho giocato spesso con Greg Dulli degli Afghan Whigs che con me perde sempre.
Pratichi altri sport?
Praticavo molti sport da ragazzo, ma detestavo il cliché dello sportivo, così ho smesso. La musica mi ha salvato dall’inerzia, dall’essere un totale outsider, un monito per i giovani di oggi.
Mark Arm dei Mudhoney ti ha citato come una delle sue maggiori influenze.
Conosco Mark dagli anni ’80; lo stimo tantissimo e posso dire che è lui ad avere influenzato me. Mi ha introdotto ai Birthday Party e gli sono molto grato.
Nello Stato di Washington, in quel periodo, le band erano amiche, si sostenevano e contaminavano tra di loro.
Sì, ma non era una cosa pianificata. Non c’era internet per cui, per tenersi informati rispetto alle nuove uscite valeva il passaparola, le cassette che ci si scambiava con gli amici. Si pensa che io ascoltassi la new wave e invece, a parte Gang Of Four e Suicide, amavo Beatles, Cars, Queen, Who, Kiss, Led Zeppelin, Venom, Bathory e alcune cose dei Saint Vitus.
La tua definizione di grunge?
È stata una creazione del marketing. Ci sono state delle band che si sono trovate nel posto giusto al momento giusto senza avere la percezione di fare parte di una scena. Detto ciò, non voglio sminuire nessuno: amo tantissimo i Soundgarden e i Nirvana, più ora di allora. I Pearl Jam li ho sempre trovati più vicini ai R.E.M., mentre non conosco bene gli Alice in Chains. Gli Screaming Trees per me erano troppo psichedelici e l’unica psichedelia che apprezzo è quella dei 13th Floor Elevators, dei Blue Cheer e dei Pink Floyd. Mark Lanegan aveva una voce molto carismatica, ma a volte mi sembrava troppo Jim Morrison anche se adoro i Doors e The End ha molto influenzato la mia visione della musica.
Quindi il grunge è stata un’operazione commerciale?
Molte di quelle band volevano il successo, fare i soldi, avere le groupie proprio come gli Aerosmith e i Mötley Crüe. Il mio non è un giudizio, ma una constatazione di fatto.
E tu invece?
Io amo circondarmi di bravi musicisti con i quali poter crescere e dai quali poter imparare. Un esempio è Trevor Dunn, con il quale ho fatto un tour di recente aprendomi ancora di più alla sperimentazione. Tuttavia devo ammettere di non aver mai ambito a diventare una rockstar e neppure ho il physique du rôle per esserlo.
Ti sconvolge la digitalizzazione della realtà, tu che sei un uomo analogico?
Non mi tocca. Non amo la tecnologia ma non giudico chi ne è schiavo perché ciascuno nella vita fa le sue scelte e ne diventa responsabile. Detesto il buonismo. Ad esempio, non ritengo giusto che debba esserci un welfare sostenuto dalle mie tasse atto a mantenere l’inettitudine altrui: perché dovrei versare i miei soldi per risolvere i problemi sanitari di una persona che ha scelto di usare droghe? Preferisco pagarmi un’assicurazione privata, almeno so dove vanno a finire i miei dollari. Io sono per la liberalizzazione degli stupefacenti perché se vuoi farti almeno non vai ad alimentare il business dei narcotrafficanti, e vale lo stesso per le armi, i medicinali, ecc. Nessuno vuole salvare nessuno a questo mondo, il resto è tutta un’ipocrisia.
Come ti senti rispetto alla nuova situazione politica americana?
La politica non mi ha mai interessato, perché il suo unico fine è quella di proteggere la lobby. Credo che ogni essere umano sia responsabile delle proprie azioni e non debba delegare allo Stato ciò che non va.
Hai un presidente preferito?
Mi piaceva Gerald Ford, perché era membro della Commissione Warren (istituita per indagare sull’assassinio del presidente John F. Kennedy, nda) e perché giocava a football americano. Detto ciò, nessun presidente ha mai cambiato la mia vita, dunque perché dovrei preoccuparmi di questioni che sfuggono al mio controllo?
Ti consideri una persona libera?
La libertà mi fa venire in mente la frase del film Easy Rider che diceva: «Tutti parlano di libertà individuale, ma quando vedono un uomo libero hanno paura». È proprio così. L’omologazione esiste perché le persone amano fare parte di un gregge ed essere guidate, nella vita e nella musica, per questo i Melvins non hanno mai voluto appartenere a una scena.