Trent’anni sono un’era geologica per una band, eppure Paranoia e potere, il disco del 1995 col quale i Punkreas hanno scritto la storia del punk-pop italiano, è ancora qui, a testimonianza di un universo che ormai è scomparso, ma ha dato speranza a tante persone. I Punkreas lo hanno rimasterizzato (uscirà il 21 marzo), pronti a celebrarlo con un tour e una serie di cover d’autore. Ma cosa significa guardarsi indietro e rivedere tre decenni di proteste, sudore e follie al limite della sopravvivenza? «C’è un po’ di inquietudine, ma ci siamo abituati. I figli crescono, gli anni passano, e quei pezzi sono ancora attuali, con la stessa rabbia di allora», racconta il chitarrista Paolo “Noyse”, che si è fatto portavoce della band composta anche da Angelo “Cippa” (voce), Andrea “Endriù” (chitarra), Gabriele “Paletta” (basso) e Paolo “Gagno” (batteria).
«Quando abbiamo ripreso in mano il disco, ci siamo accorti che quell’atteggiamento così diretto e spontaneo oggi è quasi rivoluzionario. L’imperfezione del punk distingue l’uomo dall’intelligenza artificiale». E ancora: «Il punk inglese rifiutava il futuro, noi volevamo costruirne uno migliore. Per questo ci riconosciamo più nei CCCP». La politica? Sempre lì, in un’Italia che cambia faccia ma resta uguale: «Cantavamo già della religione usata come paravento elettorale. Oggi abbiamo Meloni che dice “sono cristiana” e Salvini che brandisce il crocifisso nei comizi. Se riascolti Cadena perpetua, denunciavamo i lager del 2000, che potrebbero essere quelli libici di oggi».
Tra stage diving falliti e voli aerei quasi catastrofici dopo sbronze colossali, i Punkreas hanno rappresentato quello che hanno vissuto: «Un giorno Paletta si è lanciato in mezzo alla folla. Peccato che ha saltato le prime file, si è schiantato sulle seconde e in una capriola mortale si è aperto la faccia». E se oggi i ragazzi sembrano aver perso la voglia di gridare, loro non smettono di sperare che possano svegliarsi: «Hanno tolto tutto a questi ragazzi, il futuro, le ideologie, la pensione. E loro che fanno? Cantano di fumare cannoni, di ragazze come bitch e di soldi. Forse è una forma di protesta, ma ci piacerebbe sentirli urlare qualcosa di più». Della frattura con l’ex chitarrista Flaco invece Noyse non parla: «È come una coppia che si lascia, le dinamiche possiamo capirle solo noi».
Insomma, trent’anni dopo Paranoia e potere è un cimelio da custodire con cura in qualche scaffale, ma torna rinfrescato in studio e dal vivo in tre concerti: il 22 marzo all’Alcatraz di Milano, il 29 al Vidia di Cesena e il 5 aprile al centro sociale Loa Acrobax di Roma. E continua a rimanere un grido imperfetto, ma potente per chi si ostina ancora a immaginare un mondo migliore.
Noyse, guardandoti indietro, cosa si prova a rendersi conto che sono già passati 30 anni da un disco che ha segnato le vite di tante persone e anche le vostre?
C’è un po’ di inquietudine, ma ormai siamo abituati. Avendo figli, li vediamo crescere velocemente e ci siamo resi conto che il tempo passa molto più in fretta di quanto vorremmo. Però, prendendo in mano quel disco e suonandolo di nuovo per intero, come faremo in questo tour, ci siamo resi conto che quell’atteggiamento così punk, così diretto e spontaneo potrebbe essere una via di salvezza in un’epoca come quella attuale che è sempre più artefatta. L’imperfezione del punk distingue l’uomo dall’intelligenza artificiale.
Ma chi erano i Punkreas prima di quel disco?
In estrema sintesi, eravamo dei ragazzi che volevano raccontare il mondo attraverso il punk, sia musicalmente che come attitudine. E ci siamo accorti che ci veniva bene. Quando abbiamo iniziato, nei primi anni ’90, il punk californiano di Green Day, Rancid e Offspring non era ancora esploso e in Italia la scena alternativa era dominata dal metal. Il punk, per noi, era un linguaggio perfetto per esprimere il nostro desiderio di un mondo diverso.
Un punk che però, sia voi che poi tutta la scena italiana, avete reinterpretato.
Sì, era un punk declinato all’italiana. A differenza del punk inglese, nichilista e senza futuro, la derivazione italiana che ci apparteneva era più vicina a CCCP: non un rifiuto del futuro in sé, ma di quello preconfezionato per noi. Non volevamo essere quello che gli altri si aspettavano, volevamo un mondo migliore alternativo con gioia e senza pessimismo. Per questo tanti si sono identificati nella nostra musica e ancora oggi molti giovani ci si rivedono.
Paranoia e potere era un disco analogico. Qual è lo scarto con l’oggi?
Registrare allora significava metterci tanto tempo e tante sessioni dal vivo. Era tutto all’opposto rispetto a quest’epoca in cui i ragazzi registrano in cameretta e poi imparano a suonare i pezzi dal vivo. Noi le canzoni le plasmavamo nel tempo a furia di suonarle, così si arrotondavano o diventavano più spigolose. E quando andavi in studio riuscivi più facilmente a imprimere sulla bobina, visto che c’era ancora la bobina, quell’energia.
E come si riesce a rimasterizzare un disco del genere senza perdere quell’energia?
Quando abbiamo ripreso in mano quelle tracce, inizialmente abbiamo pensato di correggere certi errori tecnici che facevamo al tempo senza neanche accorgercene. C’erano dei brani dove una chitarra suonava l’accordo maggiore e l’altra l’accordo minore. Oggi sarebbero viste come delle castronerie, ma alla fine abbiamo deciso di non correggerle. In un certo senso, siamo stati costretti a disimparare alcune tecniche per preservare l’irruenza che però funziona bene. Ed è qui che il punk diventa umano: un’intelligenza artificiale un errore lo elimina, ma a volte un errore è un’opportunità per scoprire una novità, uno stile o essere originali.
Per caso sto leggendo in questi giorni Come il jazz può cambiarti la vita di Wynton Marsalis, dove spiega che nella prima orchestrina Dixieland si ritrovò a suonare a orecchio insieme a diversi ragazzini, con il risultato «più cacofonico e disarticolato che si possa sentire». Nonostante questo, il direttore Danny Barker, invitandoli a essere se stessi e ad aiutarsi l’un l’altro, alla fine esclamò soddisfatto: «Ecco, questo è il jazz».
Anche il jazz può salvare l’umanità. Quello che dici è vero, lo ripete sempre il nostro batterista, il Gagno, che l’ha preso da qualche jazzista: un errore suonato con incertezza è un errore, mentre un errore suonato con convinzione è interpretazione. Tutto torna.
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I Punkreas negli anni ’90. Foto press
Anche il contesto spesso è influente. Senza i centri sociali sareste stati diversi?
Assolutamente sì! I centri sociali sono stati fondamentali per noi e per tantissime altre band, per tutta una scena alternativa, dai C.S.I. ai Marlene Kuntz, dai Subsonica agli Africa Unite. Erano spazi di enorme aggregazione, sperimentazione e discussione. Purtroppo oggi non ci sono più sparsi in una rete capillare come allora, e ne sentiamo una forte mancanza.
Aca’ toro, La canzone del bosco e Tutti in pista sono tra i brani più famosi dell’album, ma c’è una canzone sottovalutata e che oggi è più attuale che mai?
Per fortuna e purtroppo mi sembrano ancora tutti di un’attualità disarmante. In Falsi preoccupati o I chiromanti parliamo già della fede come di un paravento dietro cui nascondersi per blandire gli elettori. Molto dopo sono arrivati Meloni con «sono Giorgia, sono cristiana», che ha ripetuto anche Trump, o Salvini che a un comizio brandisce un crocifisso. Sono immagini già presenti in quelle canzoni. Così come in Cadena perpetua parlavamo dei lager del 2000, che oggi potrebbero riferirsi a quelli libici per i migranti del torturatore Al Masri che liberiamo per ragioni di Stato non meglio specificate.
Un altro aspetto della musica di quegli anni è cosa volesse dire vendere 50 mila copie fisiche, ma probabilmente molte di più tra bootleg e CD masterizzati e passati da amici e conoscenti sottobanco.
Non solo, all’epoca portavamo noi stessi i dischi nei negozi, visto che le richieste ci sono esplose in mano. Dopo poco hanno iniziato a chiamarci continuamente per rifornirli. Non eravamo preparati, così ci riempivamo gli zaini e andavamo personalmente a portarglieli e non finivano mai di venderli. Chissà quante copie sono girate davvero, altro che 50 mila.
Ma è vero che all’inizio avete rifiutato di iscrivervi alla Siae per protesta?
È vero, non capivamo la gestione dei proventi e quindi, da giovani e anarchici, volevamo restare fuori dal sistema. Poi abbiamo scoperto che, se non fossimo stati iscritti, i soldi delle nostre esecuzioni live sarebbero rimasti comunque alla Siae e nulla sarebbe tornato a noi. Quando abbiamo capito che non facevamo beneficenza, ci siamo iscritti.
Scorrendo la vostra carriera ho notato che nel 2012 avete collaborato con un giovanissimo rapper emergente di nome Fedez. Com’era allora?
Un nostro fan, che diceva di amarci, e voleva assolutamente fare un pezzo con noi. Quando è arrivato in sala prove, ci ha conquistato con un bel sacchetto di plastica con dentro cinque o sei birre. Per noi una presentazione meravigliosa. Era un ragazzo intelligente, simpatico, con uno stile molto fresco. Ci ha fatto sentire le canzoni dell’album Sig. Brainwash e voleva che partecipassimo a una di queste.
E avete accettato?
All’inizio non riuscivamo a trovare una chiave per inserirci, e a livello commerciale non abbiamo mai voluto fare qualcosa per forza, tanto per vendere copie. Ma non volevamo neanche precluderci una strada nuova, visto che faceva dei pezzi interessanti. Alla fine abbiamo trovato una chiave comune nel brano Santa Madonna, dove abbiamo messo in discussione la rappresentazione della donna dominante allora, sia nella società che nel rap, e cioè come un oggetto. Un pezzo che critica sia la visione religiosa che quella dell’hip hop.
Visto che ora è tutto molto più pianificato, schedulato, omologato, almeno all’apparenza, quali sono stati i momenti più punk che avete vissuto come band?
Su questi potremmo scrivere un libro. Un momento davvero punk è stato quando per la prima volta Cippa e Paletta hanno preso l’aereo per andare in Sardegna. Erano terrorizzati, quindi si sono presentati al bar dell’aeroporto per bere qualcosa. Il barista, che il giorno sarebbe andato in pensione, ha offerto tutto. Da lì è iniziato un disastro. Ha tirato fuori una bottiglia di Jack Daniel’s, o qualcosa di simile, e loro se la sono scolata. Così sono saliti sull’aereo in condizioni terrificanti. Ti dico solo che Paletta a un certo punto ha abbracciato la hostess dicendole «dimmi che mi vuoi bene», mentre Cippa è andato nella cabina del comandante al grido di «guido io». Non contenti, mentre stavamo per atterrare ma ancora in volo, si alzano in piedi urlando «un applauso al pilota» e vengono braccati dagli operatori di bordo. E una volta scesi, Cippa e Paletta hanno rubato i salvagenti di bordo. Insomma, siamo stati tutti inseriti in una lista di passeggeri indesiderati. Poi la compagnia è fallita, quindi non abbiamo avuto conseguenze.
Sembra quasi un perfetto videoclip per una delle vostre canzoni.
Manca il finale. La sera in albergo Paletta, con quel salvagente, ha pensato bene di tuffarsi in piscina. Solo che, essendo gonfio, prendeva delle stecche pazzesche senza andare a fondo.
Se aveste filmato ogni follia di Paletta avreste un documentario incredibile.
Ricordo un’altra volta quando, durante un concerto, si è messo a suonare solo una nota ogni tanto e sempre la stessa. Quando cantava non suonava e quando suonava faceva solo quella nota. A un certo punto, però, decide che era l’ultima canzone, anche se non la era, e si butta in stage diving in mezzo alla gente che non se l’aspettava. Infatti cade di pancia con il basso in mano. Dal palco ci affacciamo e vediamo questa scena: lui a terra, che pensa di essere sorretto dal pubblico, e si dà dei colpi di reni come per farsi portare in avanti. Sembrava un pesce fuori dall’acqua. Una scena tragica e comica allo stesso tempo. Nonostante le follie, però, dopo live del genere la gente veniva a farci i complimenti.
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I Punkreas dal vivo oggi. Foto: Ash71
Fate ancora stage diving e pogate oppure vi siete calmati?
Io ho abbandonato per questioni di peso. Non mi sembrava carino con la mia stazza lanciarmi sul pubblico. E anche Paletta ha smesso, perché una volta si è fatto davvero male. Si è lanciato lunghissimo di schiena e con il basso, solo che quella volta ha superato le prime file, che lo hanno solo visto passare, per andarsi a schiantare sulle file dietro che, per pararsi, lo hanno rimbalzato. Lui ha compiuto una capriola mortale cadendo sul basso che gli ha aperto la faccia. Ormai resiste il Gagno, ogni tanto, ma solo a fine concerto e in sicurezza.
In giro si vede qualche erede dei Punkreas?
Più che eredi musicali, ci piacerebbe vedere band con dei contenuti simili ai nostri, con la voglia di protestare, di dire qualcosa. Oggi tutto sembra filtrato dall’Auto-Tune e dal digitale, sembra tutto finto e artefatto. I giovani vivono in una situazione peggiore della nostra, gli hanno tolto tutto, non solo il futuro, persino la pensione. E l’ha fatto la generazione precedente. Avrebbero quindi ogni motivo per prendere un microfono e gridarci dentro la loro rabbia. Mi piacerebbe vederli rivendicare i loro diritti. Invece nella trap, ma non solo, li sento cantare di fumarsi cannoni, delle donne come bitch, di soldi e Rolex. Chissà, forse anche questa è una forma di protesta. Ci avete tolto tutto, valori e ideologie? Allora cantiamo quello che ci è rimasto, che è quella roba lì.
Siccome a Sanremo è stato sdoganato tutto, ci arriveranno anche i Punkreas?
Nella band ogni tanto si apre questo dibattito. Anni fa abbiamo rifiutato il Festivalbar. Al nostro posto andarono i Reggae National Tickets, quando c’era ancora Alborosie. Non accettavamo che fosse tutto in playback, registrato e tagliuzzato. Ogni tanto parliamo di provare a mandare un pezzo per Sanremo. Io sono tra i favorevoli. È in diretta e a determinate condizioni, se sei bravo a non farti sovrastare, ci potrebbe stare. Cippa e Paletta invece sono da sempre contrari. Con il tempo devo dire che mi stanno convincendo, non credo invieremo mai un pezzo.
Prima di chiudere ti faccio un’ultima domanda che riguarda un non detto che, nonostante il vostro silenzio finora, pesa tra i fan della band. Dopo la rottura con Flaco, il chitarrista che con voi ha formato i Punkreas, lui ci ha raccontato la sua versione. Manca la vostra. Dopo diversi anni non è arrivato il momento di chiarirsi?
Io lo sento ogni tanto per questioni burocratiche. Abbiamo deciso di non rispondere su questo aspetto perché riguarda una relazione lunga, bisognerebbe esserne stati coinvolti per capire bene le dinamiche. Non vogliamo mettere al corrente chi non conosce tutta la vicenda di certe questioni che poi verrebbero capite solo parzialmente. È come quando una coppia si lascia. Non sputiamo nel piatto in cui hanno mangiato tutti. È una vicenda soltanto nostra e la possiamo capire solo noi. Come sempre, preferiamo non spettacolarizzare la vita privata.