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Il contemporaneo è una danza a ritmo di rave

Tra antico e moderno, un "attacco di danza" potrebbe salvarci. Costringendoci a tornare alle radici rituali del nostro essere comunità: la connessione con il corpo, individuale e plurale

Michele Rizzo, HIGHER-xtn.-Photo-by-Maarten-Nauw, courtesy of the artist and Stedelijk Museum, Amsterdam.

Michele Rizzo, 'HIGHER-xtn.'

Foto: Maarten Nauw. Courtesy of The Artist and Stedelijk Museum, Amsterdam

 “Attacchi di danza”, che bella espressione. La si trova piuttosto frequentemente nei fogli di sala degli spettacoli di danza contemporanea. Parola-chiave di svariate sinossi che raccontano che lo spettacolo in scena nasce dall’intento del coreografo di recuperare una qualche forma rituale di danza pubblica, che sia popolare, legate a feste agresti o culti religiosi, o un ballo che anima le cerimonie religiose o civili, fino ad arrivare alla forma di danza libera più vicina a noi, il rave.

Te lo immagini uno che a un certo punto è preso da un attacco di danza e non si riesce a fermare? Una cosa contagiosa, che dilaga in fretta e ne prende un altro, e poi un altro, fino a quando un’intera comunità si ritrova a danzare insieme allo stesso ritmo, con lo stesso respiro, con la stessa foga e la stessa voglia di spingere al massimo il corpo per provare a uscirne: una forma di s-ballo e di delirio collettivo che ha accompagnato e acceso momenti fondamentali della vita dei nostri antenati arrivando fino a noi. Noi che sempre meno ci ritroviamo a celebrare le nostre tradizioni attraverso il ballo, ma che riproponiamo quel tipo di rituale nella vita notturna, nei club, nei boschi o in luoghi sperduti alle porte delle città.

Per questo è curioso che, negli ultimi anni, il rimando a forme di danza collettive sia sempre più presente nei lavori di coreografi anche molto diversi fra loro per stile, estetica, tipo di ricerca: ma perché questo binomio danza contemporanea / rave?

Prendiamo come esempio lo spettacolo di Mette Ingvartsen, The Dancing Public, iniziato durante la pandemia: in un momento di crisi globale la coreografa inizia a immaginarsi uno spettacolo che potesse essere in qualche modo catartico, in reazione a un periodo di isolamento e solitudine forzata. Da qui inizia ad approfondire il fenomeno medievale delle coreomanie, episodi di delirio collettivo in cui intere comunità si trovavano a ballare insieme senza riuscire a fermarsi. Giovani, anziani, bambini, alcuni di loro prede di veri e propri attacchi isterici, altri per sfogare il malessere dovuto a una condizione di estrema povertà, debolezza e fatica.

Mette Ingvartsen, the_dancing_public_@hans_meijer

Mette Ingvartsen, ‘The Dancing Public’. Foto: Hans Meijer

Ballare, ballare, portare il corpo al limite di sopportazione dello sforzo fisico fino a svenire, a volte fino a morire: partendo da questo scenario, Mette costruisce un solo di movimento selvaggio e parola che interpreta in mezzo al pubblico, lasciando aperta la possibilità di farsi contagiare o di rimanere solo a guardare. La sua azione vuole mettere in discussione il nostro rapporto con la danza e il bisogno di uno spazio dove potersi fisicamente sfogare, dove sentirsi liberi e vivi. Necessità che dopo la pandemia è stata più forte che mai, ma che continua ad avere (sempre più) senso in questo determinato momento storico, vissuto sempre più come individui che come collettività. Sempre più isolati e rapiti dal lavoro, dalle dinamiche dei social e dall’assottigliamento della capacità di relazionarsi con l’altro.

Mette Ingvartsen The Dancing Public @Jonas Verbeke

Mette Ingvartsen, ‘The Dancing Public’. Foto: Jonas Verbeke

Molto più formale e decisamente meno toccante, ma comunque con un intento simile, il nuovissimo lavoro di Marcos Morau de La Veronal, presentato pochi giorni fa al festival FOG di Triennale Milano Teatro: intitolato Totentanz, tradotto “Danza macabra”, lo spettacolo del coreografo spagnolo passa dall’iconografia al reale, mettendo in scena una danza della morte eseguita dai suoi eccellenti danzatori, qui abitanti di un aldilà che è una via di mezzo fra un ospedale e un macello, insieme a dei burattini spaventosamente umanoidi che fanno da partner e da alter ego ai personaggi vivi.

Marcos Morau Totentanz, FOG 2024 @Lorenza Daverio

Marcos Morau, ‘Totentanz’, FOG 2024. Foto: Lorenza Daverio

Questa danza della morte è la “antenata di ogni rave”, come si legge nel foglio di sala, e torna qui a interrogarci su chi siamo e dove stiamo andando, in una sorta di seduta spiritica che celebra la fragilità della vita e che, sul finire, esplode con un improvviso cambio di scena in cui un sacerdote-chirurgo arriva sul palco in perizoma di paillettes a ballare come un pazzo su un brano techno (un’altra vittima di attacco di danza?).

Marcos Morau, Totentanz @Lorenza Daverio

Marcos Morau, ‘Totentanz’. Foto: Lorenza Daverio

La scelta non è delle più riuscite e impressionanti, ma chiaro è l’intento di urlare la necessità di uscire da uno stato di morte in vita, di riprendere possesso del corpo, la voglia di sentirsi vivi e di sentire il sangue che pulsa nelle vene, di spingersi oltre la stasi della quotidianità e di riprendersi uno spazio in cui esistere con tutta la potenza dell’essere umano, dell’essere umani.

Giacomo Borlone De Buschis, Danza macabra e Trionfo della morte, Oratorio dei disciplini, Val Seriana.

Giacomo Borlone De Buschis, ‘Danza macabra e Trionfo della morte, Oratorio dei disciplini’, Val Seriana. Foto: press

Molti altri potrebbero essere gli esempi, molti altri gli artisti, conosciuti o meno che riprendono l’immaginario legato alle danze collettive, su tutti quello dei rave. E poi chi attua il processo anche solo sul piano estetico, pensiamo al fenomeno La Horde – collettivo che sta sfornando un successo dopo l’altro. O a Michele Rizzo, Anne Imhof… quindi, perché?

La direzione sembra essere piuttosto chiara: se è vero che l’arte serve a farti vedere qualcosa che non vedi del tuo presente, allora la danza contemporanea sta cercando di urlarci che dimenticarsi di celebrare determinati momenti delle nostre vite, e di farlo collettivamente, è uno dei tasselli che sta portando al completo isolamento dell’individuo, auto-barricato dentro mura fatte di dati, immagini, numeri sul conto corrente, dipendenza dal lavoro e dal sentirsi abile nel produrre profitto. Uno stato di morte in vita, quasi meno augurabile della morte effettiva.

E allora svegliatevi e buttate lo sguardo oltre il muro, guardate questi corpi poco vestiti che ballano vicini e mescolano respiro, sudore, odori, potenza, energia e fatevi contagiare da ciò che rimane di quegli attacchi di danza che hanno scandito i cicli naturali e dato importanza ai momenti di passaggio di chi è stato prima di noi. E che, in qualche altra forma, continuiamo a portarci dentro.

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