David Johansen non era come gli altri musicisti dei New York Dolls, band che non ha inventato lui, ma di cui è di fatto diventato il simbolo il giorno del 1971 in cui il bassista Arthur Kane e il batterista Billy Murcia hanno bussato alla porta di casa sua. Johansen è cresciuto in un ambiente medio borghese di Staten Island, con una madre bibliotecaria e un padre assicuratore e amante dell’opera. Ma aveva altre idee per la testa, cose più artistiche, ragion per cui s’è trasferito nell’East Village.
Li ho visti per la prima volta alla Oscar Wilde Room del Mercer Arts Center. Era il dicembre 1972. Sono entrato scettico, sono uscito talmente conquistato da convincere mia moglie ad andare a vederli una settimana dopo, stesso locale, ancora più gente. Da quel momento non abbiamo perso alcuna occasione di vederli, da una cena di Newsday per la band alle session del disco di debutto prodotto da Todd Rundgren per l’etichetta Mercury, dov’erano protetti da Paul Nelson, guru del folk diventato eccentrico A&R.
Al Mercer spopolavano, ma la verità, come scrissi su Newsday, era che la forza disperata, sfatta e unisex di Johansen non aveva grandi chance di far presa su un pubblico rock irriducibilmente maschile e bloccato ideologicamente tra un Regno Unito che cavalcava l’onda della Beatlemania e un’America impantanata nel post folk. E pur essendo considerati oggi grandi dischi, né il debutto del 1973 New York Dolls, né il seguito del 1974 Too Much Too Soon – prodotto da Shadow Morton, che fino a quel momento aveva fatto un solo lavoro davvero importante, col leggendario girl group delle Shangri-Las – sono entrati nella Top 100. L’ultimo pezzo del secondo album riassumeva alla perfezione quel che Johansen avrebbe fatto fino alla morte. S’intitolava Human Being e aveva un ritornello che diceva “se mi comporto come un re è perché sono un essere umano” (breve nota personale: quei versi erano il titolo che avevo proposto per una raccolta di scritti che alla fine è uscita come Grown Up All Wrong, ma era un po’ lungo, dicevano alla Harvard University Press).
Dopo il flop del secondo album, i New York Dolls non sono spariti del tutto dalla circolazione. Hanno continuato a esibirsi in varie occasioni, una con la band rimaneggiata e i musicisti vestiti completamente di rosso, un’altra nel maggio 1976 al Max’s Kansas City col chitarrista Syl Sylvain unico altro membro originale. La recensione che fece mia moglie Carola Dibbell per il Village Voice racconta com’era Johansen in quel periodo: «Troppo intelligente per non sopravvivere e troppo intelligente per essere noioso» e dotato di una «considerevole tenerezza». In quell’occasione fecero forse per la prima volta Frenchette («come il condimento per l’insalata», diceva Johansen): “You call that loving French / But it’s just Frenchette / I’ve been to France / So let’s just dance”. Era ovvio che sarebbe rimasto in giro anche quando la sua band amata da un piccolo gruppo di adepti sarebbe stata kaput.
I New York Dolls non hanno sfondato per varie ragioni, non ultimi i casini interni, che tipicamente minano qualsiasi impresa collettiva. Più che del professionismo c’era della follia nel gruppo, che ha perso il batterista Billy Murcia per un’overdose di tranquillanti. È stato sostituito da Jerry Nolan, il musicista tecnicamente più preparato di tutti quanti morto una ventina d’anni dopo. In quanto a Kane, era a stento capace di suonare il basso e Syl Sylvain non era un granché dal punto di vista tecnico. Johnny Thunders aveva un suono di chitarra originale tanto da farsi una carriera fuori dai Dolls, soprattutto coi suoi Heartbreakers, fino alla morte nel 1991 avvenuta per overdose (di cosa esattamente è materia controversa). Johansen ha continuato a incidere e a esibirsi alla faccia dei benpensanti dell’America profonda che aveva offeso, contribuendo ad alimentare due importanti movimenti culturali.
Il primo è l’orgoglio gay. Non conosco i dettagli della vita sessuale dell’uomo che nel 2004 ha detto al pubblico di Rikers Island (io c’ero) che aveva cercato di convincere Syl che «quello che abbiamo fatto negli anni ’70 non era propriamente sesso». So che dopo i Dolls ha avuto un’immagine pubblica etero soprattutto con la terza moglie Mara Hennessey, che lo ha assistito nella lotta contro il cancro che alla fine lo ha portato via. Una cosa è certa, nella sfida allo sciovinismo etero del rock, il giocoso carattere pansessuale dei Dolls non è stato meno influente della studiata ambiguità di genere di un David Bowie o del coming out festoso di un Elton John.
Il secondo movimento è il punk. In buona sostanza, i Dolls erano “rock”, con l’aggiunta di un pizzico di “and roll”, ma i pezzi veloci e il sound casinoso hanno anticipato la musica che si stava cominciando a sentire al CBGB nel momento in cui loro stavano svanendo dopo Too Much Too Soon. E per allargare il quadro all’America in generale, il fatto che avessero scelto di vantarsi orgogliosamente d’essere di New York nel nome ne ha fatto il simbolo di un ipotetico movimento chiamato Make America Mad Again.
Quando alla fine i Dolls sono spariti, Johansen ha continuato ad avere una carriera solista lunga, varia e soddisfacente. Tra il 1977 e il 1982 ha pubblicato quattro dischi per lo più notevoli che includevano gemme come Girls, Funky but Chic, Wreckless Crazy, Bohemian Love Pad, Heart of Gold e la succitata Frenchette. Non molto tempo dopo ha inventato il suo doppelgänger chiamato Buster Poindexter, presenza fissa nel giro dei club di New York. Era un padrino del punk che amava ogni declinazione del pop. E quando ha messo assieme una nuova versione dei New York Dolls per un album del 2005 che nessuno immaginava potessero uscire e che era esteticamente ambizioso, ha trovato un titolo profetico: Some Day It Will Please Us to Remember Even This, un giorno ci farà piacere ricordare pure questo.
Gli altri due dischi dei New Dolls non erano all’altezza, del resto che cosa mai poteva esserlo. Quando nei panni di Buster Poindexter ha girato il bel documentario di Martin Scorsese al Cafe Calisle Personality Crisis: One Night Only era consapevole di avere il cancro che lo ha poi ucciso. Avevo dei dubbi sul fatto che i musicisti delle house band che si guadagnano da vivere in locali troppo costosi come il Carlisle potessero rendere giustizia a un volgare rock’n’roller come David Jo, anche se in versione Poindexter. E invece quel set è il perfetto coronamento di un film per cui essere grati.
Scorsese potrebbe far uscire il concerto integrale come opera a sé stante, ma mancherebbero i piccoli dettagli che risultano preziosi per chi ammira David quanto me, come la modesta statua di Buddha nel giardino dietro casa sua e di Hennessey che nel film è abbinata a una disquisizione di Johansen su come gli è venuto in mente il titolo Maimed Happiness, felicità monca, una citazione di William James, e un testo che dice “Sei umano, mi spiace per te”. D’accordo, i primi due album dei Dolls sono capolavori ingiustamente sottovalutati, ma era ovvio che Johansen non si sarebbe mai fermato lì.