Pupi Avati: «A 86 anni ho finalmente fatto il cinema» | Rolling Stone Italia
La via degli angeli

Pupi Avati: «A 86 anni ho finalmente fatto il cinema»

«Finora avevo solo fatto i film», dice il regista al suo primo lavoro in bianco e nero: ‘L’orto americano’. Un noir, un horror, un omaggio ai cult che ha amato. Un incontro privato prima di un incontro pubblico. Per parlare di storie, di jazz, di senso della vita e di chi non c’è più (ma gli parla ancora)

Pupi Avati: «A 86 anni ho finalmente fatto il cinema»

Filippo Scotti nell’‘Orto americano’ di Pupi Avati

Foto: Elen Rizzoni

Ogni incontro pubblico e privato con Pupi Avati è uno show. E pure presentare con lui a Milano il suo ultimo film – L’orto americano, nelle sale dal 6 marzo – diventa un meraviglioso campionario di pupiavatismi collaudati: quando corteggiava le ragazze, e poi il lavoro da rappresentante di farmaci negli ospedali, e alla fine mi chiede se «posso raccontare cos’è per me il senso della vita?». E poi sorride: «Perché del film abbiamo parlato, se sono venuto da Roma a Milano devo dare qualcos’altro a questo pubblico». E via di colline ed ellissi (chi c’era sa; chi non c’era lo trova qui). «Però adesso basta: se volete altre storie, venite agli eventi che faccio a pagamento».

In realtà del suo ultimo film ha grande piacere di parlare. Perché a 86 anni, «ho avuto per la prima volta la sensazione di fare il cinema», mi dice nell’incontro privato prima di quello pubblico. L’orto americano racconta di un giovane scrittore (Filippo Scotti) che nella Bologna dell’immediato dopoguerra vede una ragazza americana, se ne innamora, va a cercarla al di là dell’oceano tra segreti, sparizioni, vecchie case cigolanti. Poi torna in Emilia e quelle storie lontane si intrecciano a quelle che aveva lasciato lì. È un film molto bello, di grande felicità visiva e narrativa, girato in bianco e nero, anzi noir. «L’idea del bianco e nero è stata di mio fratello (Antonio, il suo storico produttore, nda)», racconta Pupi. «Ha letto la sceneggiatura e ha detto: “Questo è un film da fare in bianco e nero”, e in effetti è così. Il bianco e nero ti riporta al cinema che ti ha formato, nell’immagine ma anche nel suono: abbiamo messo anche la sega suonata con l’archetto, che era quella di Siodmak nella Scala a chiocciola. Ho cercato di rifare quel cinema lì».

Pupi Avati. Foto: Elen Rizzoni

«E poi c’è questa combinazione: io aspettavo di fare questo film», va avanti Pupi. «Che è una cosa molto strana, ti sembrerà presuntuoso. Il primo giorno sul set eravamo a Cinecittà con Filippo [Scotti] e Rita Tushingham, io guardavo la scena e non mi piaceva, poi mi son girato verso il monitor e ho detto: “Cazzo, stiamo facendo il cinema”. Mi sono caricato di entusiasmo: per la prima volta dopo 54 film stavo facendo il cinema. Avevo fatto i film, ma mai il cinema. È stata una rivelazione, una scoperta, un regalo. Perché il cinema che amo è quello lì, e prima o poi volevo mettere la macchina da presa in quel modo lì, usare il 25, cioè la lente di cui parla Hitchcock a Truffaut, quella che ha usato sempre, con cui ha fatto Psycho… È una cosa che pensavo da allora: quando avrò la possibilità di fare un film così? O di fare come Gregg Toland con Orson Welles le buche dove mettere la macchina da presa… Tutte cose alla base del cinema, anzi del cinematografo. Cos’è il cinema? È questa roba qua».

Poi Pupi ci ha messo i suoi trucchi, i suoi orrori. L’orto americano è un horror alla sua maniera, girato anche on location nella casa in Iowa che fu di Bix Beiderbecke e che Avati ha comprato parecchi anni fa. «Il dettaglio del vaso sepolto nell’orto» – non vi svelerò di certo io cosa c’è dentro – «è assolutamente orrorifico, in un noir di quell’epoca non l’avresti mai trovato. Quella scena è stata oggetto di grandi riduzioni: all’inizio era lunghissima, ma poi ci sembrava che il film sarebbe stato associato solo a quell’immagine lì, e non volevamo».

E ci ha messo, nell’Orto americano, la sua vita, le sue storie, quelle che racconta nei suoi incontri pubblici. «Sono sempre i personaggi che ti raccontano le storie, ma sì: io sono lui, quello scrittore lì. Anch’io come lui parlo con i morti. C’è questa parete a casa mia che si chiama “la via degli angeli”, ci sono 250 piccole fotografie delle persone che non ci sono più e che hanno avuto un ruolo nella mia vita, e quelle foto sono destinate ad aumentare. L’ultima a entrare è stata Eleonora Giorgi. Sono parenti, persone con cui ho avuto uno scambio amicale o con cui ho lavorato, e con le quali cerco di tenere aperto un ricordo, se non altro. Mi aiutano a lenire l’angoscia che una persona della mia età è destinata a vivere, perché quando arrivi a ottant’anni diventa tutto un po’ complicato, ti privi del futuro. Alla mia età non puoi più dire “farò”. Cosa farai? Forse un altro film, ma chi lo sa. È tutto molto per aria, e allora questa angoscia è lenita dalla presenza di tutte queste persone che ogni sera evoco come un disturbato, come il protagonista del film che viene ricoverato in un ospedale psichiatrico perché parla con i morti». E i morti che cosa dicono? «Chi non c’è più non dice niente, ma mi è riconoscente. Io lo sento che mi è riconoscente».

Filippo Scotti in una scena del film. Foto: Elen Rizzoni

Non si può dire “farò”, a una certa età, ma intanto il cinema lo si fa ancora. «Ma non è che è uno sforzo fisico così grande, lo puoi fare anche da seduto. Non hai la necessità di correre come facevo da ragazzo, quando andavo avanti e indietro per il set e facevo tutto da solo. Però intellettualmente la cosa problematica è ricordarti di avere le idee chiare, e mi aiuta questo fatto che ho inventato io di scrivere il romanzo prima della sceneggiatura (L’orto americano è uscito come romanzo due anni fa con Solferino, nda). È una cosa che metterei nei programmi didattici delle scuole di cinema, perché è come scrivere una sceneggiatura estesa, puoi dare un sacco di informazioni allo scenografo, al costumista, al direttore della fotografia e soprattutto agli attori, perché nella sceneggiatura ci sono solo le battute dei personaggi, invece nel romanzo puoi metterci quello che pensano. Dai quello quello strumento all’attore e poi sul set non devi quasi dire più niente».

Pupi Avati parla spesso dello stato in cui versa il cinema italiano, non senza polemica, ma anche con grande senso del presente. È tutto cambiato, forse finito, però, vedendo anche questo suo ultimo lavoro, al cinema sembra essere ancora riconoscente. «Sono assolutamente riconoscente al cinema, e anche per questo mi sono permesso di fare qualcosa che parla alle persone che capiscono quando cito, come ti dicevo, Gregg Toland. Il distributore forse non è così entusiasta, preferirebbe che facessi storie più popolari, anche se in questo racconto c’è una tensione esplicita che è totalmente popolare».

A 86 anni ci si può togliere qualsiasi sfizio. «Be’, sì. Non voglio dire che questo è il film della mia vita, ma riassume la mia lunga esperienza. Trent’anni fa non l’avrei saputo fare, forse non l’avrei neanche voluto fare. In ogni inquadratura c’è la consapevolezza di cosa stavamo facendo. Molti anni fa facevo il cinema sperando che venisse qualcosa che funzionava: in certi casi è andata bene, molte volte no. Questa volta avevo tutta la materia in mano, niente era dovuto al caso. E poi ormai la mia troupe è così affiatata, mi assomiglia così tanto, che non debbo quasi più dire nulla. E poi mi vogliono bene, questa è la cosa importante».

Filippo Scotti con Roberto De Francesco. Foto: Elen Rizzoni

Chiedo a Pupi quando secondo lui “è andata bene”, in quella sua lunghissima carriera di successi, «e anche di insuccessi», aggiunge lui. Ci pensa un attimo. «Jazz band era una serie televisiva di una semplicità assoluta, il diario di un giovane jazzista in cui tutto era in stato di grazia, lo spettatore riceveva questa solarità del racconto. E poi tanti altri. Regalo di Natale è un film che si è fatto da solo, era così felice quel tavolo con quei cinque, eravamo così convinti di quello che stavamo facendo. E poi La casa dalle finestre che ridono, eravamo solo dodici persone a farlo. Ma non sono stati tutti così. La maggior parte dei miei film non è andata bene, e non è detto che siano i film peggiori, non credo. Nell’Orto americano si sente che eravamo molto compatti, che tutta la squadra giocava per un unico obiettivo. È un film con un suo rigore. È cinema, non si può dire che non lo è».

Nelle sue storie pubbliche e private, Pupi ha detto tante volte, lo sapete anche voi, che voleva fare il musicista, no: il jazzista. E poi, anche questo lo sapete, è andata come è andata: Lucio Dalla, il cinema, un’altra strada, un’altra vita. «Dovevo dedicare la mia vita alla musica, e ancora oggi mi rammarico di non avercela fatta. Ma d’altra parte il talento non lo si insegna, non lo si trasmette, non lo si compra. Io non avevo il talento musicale e continuo a non averlo. C’è questa ingiustizia divina nei miei riguardi». Ride.

Però questa vita nel cinematografo è stata bella, lo è ancora. «Ma non come con la musica. La musica – no, la musica che facevo io: il jazz – ti dava la possibilità di essere creativo. Facevi di mestiere il creativo, ti esibivi tutte le sere, certe volte meglio, certe peggio, però ti dava questa ebbrezza, ti portava via, e poi condividevi tutto coi tuoi amici. C’è stata questa stagione meravigliosa in cui abbiamo girato l’Europa, è stato il periodo più felice della mia vita. Il cinema mi ha dato la possibilità di dire molto di me stesso, di rivelare la parte più personale. Adesso, con questo fatto dei morti, ancora di più. Prima di questo film non l’avevo mai detto a nessuno che parlo con i morti, neanche a mia moglie e ai miei figli».

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