Ho la fortuna di avere ammiratori splendidi che si soffermano sulle mie canzoni con una meticolosità appagante e commovente, che si addentrano nei misteri dei versi per trarne delle spiegazioni elaborate e argute, e che raccolgono una quantità impressionante di nozioni e dettagli intorno alle mie creazioni, accumulandoli fino a ritenere nella loro memoria, per così dire, un vero e proprio corpus. Appagante, commovente, estremamente gratificante, ai limiti dell’imbarazzo.
E ci sono anche ammiratori che sanno farmi doni bellissimi, come la riedizione del libro struggente e magnifico di Nadia Mandel’štam (grazie, Francesco). Questo libro, che è un memoir autobiografico, venne per la prima volta divulgato in Italia col titolo L’epoca e i lupi, e ora rivive in un’altra edizione per i tipi di Edizioni Settecolori col titolo corretto: Speranza contro speranza. Comprai L’epoca e i lupi, e mi è stato regalato Speranza contro speranza.
Nadia fu la moglie di Osip, e Osip fu un poeta, attualmente considerato il migliore della letteratura russa del ventunesimo secolo. Ebbero la sfortuna di vivere in un momento terribile, quello contrassegnato dalla dittatura di Stalin, che fu uno dei più grandi criminali dell’umanità di sempre (milioni di cittadini sovietici fatti morire dai suoi voleri parlano chiaro), e a causa sua e del tremendo regime dittatoriale la loro vita fu da un certo punto in poi un inferno di mortificazione, umiliazione, deprivazione della vitalità, abbruttimento, impoverimento, segregazione, deportazione. Se volessi potrei cercare di rendere il senso di queste ultime parole dando esempi concreti di cosa voleva dire vivere a quei tempi: ma, in sintesi, o ti annullavi annullando la tua personalità e cercando di non dire niente perché tutto poteva ritorcersi contro di te attraverso la delazione (anche un cugino poteva diventare colui che ti tradiva), o ogni volta che aprivi bocca sapevi di poter mettere a rischio la tua incolumità, fra informatori insospettabili e registratori piazzati ovunque nelle case di residenza.
Osip, che era un puro sufficientemente sprovveduto e privo di qualsivoglia malizia a tutela della sua persona, finì poco per volta nelle tenaglie del sospetto (quanto ci sarebbe da dire sulla natura di questo sospetto: a meno che tu, mio lettore, non fossi stato così capace di non esprimere spontaneamente nessun parere su nulla pur di starne al riparo, proprio tu, mio lettore, che sai di essere una persona più o meno irreprensibile da un punto di vista sociale, se avessi vissuto là in quel periodo ti saresti dovuto umiliare al silenzio se non volevi rischiare di fare una brutta fine; il libro Speranza contro speranza lo lascia trapelare molto bene).
Per un po’ di tempo, letale, Osip non seppe trovare le contromisure a questa degenerazione progressiva della situazione sociale, e si lasciò qualche volta scappare frasi sbagliate. E a un certo punto, mosso dall’impeto creativo sostenuto dallo sdegno, scrisse una poesia che fu la sua condanna a morte. Una poesia peraltro piuttosto lontana dai suoi mondi immaginativi, che stavano in genere alla larga dalla politica e dalla contingenza. Una specie di giocoso sberleffo intinto nello sdegno. Quella poesia ve la riporto qua:
Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse,
e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita come vermi sono grasse
e sono esatte le sue parole come i pesi d’un ginnasta.
Se la ridono i suoi occhiacci da blatta
e i suoi gambali scoccano neri lampi.
Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile:
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone;
lui, lui solo, mazzapicchia e rifila spintoni.
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
cuccagna ed un ampio torace di osseta.
A parte certe curiose similitudini con l’attualità (i decreti in copiosa abbondanza che ricordano il Trump dei giorni nostri, e parlo di decreti bombardati a raffica in assenza di emergenze mondiali come una pandemia) vorrei che vi soffermaste su quel tipo di aggettivi e sostantivi usati (“montanaro del Cremlino”, “tozze dita come vermi”, “occhiacci da blatta” in particolare): furono le parole che firmarono la sua condanna a morte. Mi chiedo se nel mondo in cui siamo abituati a vivere (l’Occidente che sempre di più una frangia in crescita di italiani detesta) si possa immaginare di dover avere paura di usare aggettivi di quel tipo, non gli stessi, ma quelli attuali di analoga intensità. La risposta ovviamente è no. Eppure, tornando ai paragoni con l’attualità, direi che Trump nel corso degli anni di Biden deve aver stilato una bella lista di proscrizione da usare al suo rientro, perché appena insediatosi ha cominciato con le epurazioni di tutti coloro che si erano espressi contro di lui. Per ora non li fa fuori come fece Stalin, ma personalmente ritengo che la cosa prima o poi potrebbe pure accadere: Trump è un provetto dittatore. Detiene mirabilmente tutte le caratteristiche adatte a diventarlo, fra cui una radicale assenza di empatia, e se la storia non saprà opporsi a lui questa cosa penso che potrebbe pure accadere. (Putin intanto, meno vincolato al ribrezzo delle opinioni pubbliche, lo fa da sempre, e non finirà mai di risultarmi inspiegabile l’attaccamento alla sua figura che un numero crescente di italiani sta manifestando. L’autopunizione inflitta per dei sensi di colpa ragionevoli ma decisamente non quintessenziali – i mali procurati dal nostro Occidente nel mondo, come se fossimo gli unici ad averne fatti – che si trasforma in ripudio e ammiccamento a realtà tutt’altro che immacolate che ci toglierebbero poco per volta gran parte del respiro a cui siamo abituati. Questa autopunizione sempre più diffusa e così ingigantita è per me un doloroso sbaglio).
La morte che Stalin impose a Mandel’štam fu particolarmente sadica: un lento fargli terra bruciata intorno, privandolo del lavoro (Trump ha fatto lo stesso con le epurazioni di cui sopra), isolandolo, mettendogli contro la comunità istituzionalizzata degli scrittori e loro varie congregazioni, impaurendolo (a un certo punto, terrorizzato, cercò di ritrattare su quella poesia, ma ovviamente il danno era stato fatto), mandandolo in luoghi di simil-esilio, lasciandolo tornare a Mosca (mossa sadica, perché non era prevista la sua salvazione) dandogli l’illusione di aver espiato le sue colpe, per poi spedirlo, su un bel convoglio di deportati, nelle estreme propaggini dell’est russo, dove la parola gulag prendeva consistenza, e dove le temperature medie stazionavano 10-20 gradi almeno sotto le zero. In condizioni di indigenza, senza un lavoro, senza soldi, vivere a certe condizioni più che estreme era impossibile quasi per chiunque, e infatti a quelle condizioni furono pochissimi coloro che tornarono per raccontare (Solženicyn fu uno di loro, e il suo celeberrimo Arcipelago Gulag lo dovreste aver sentito nominare se non letto).
Se Stalin lo avesse messo di fronte a un plotone di esecuzione, Osip avrebbe avuto i suoi tremendi momenti di panico e poi bam, la fine. Ma Stalin amava vendicarsi, e per Osip la vendetta fu farlo morire lentamente a 20-30-40 sottozero, in una cittadina inospitale che non aveva da offrirgli nulla per la sua sopravvivenza se non le mance di altra povera gente. E Osip infine morì, dopo un illanguidimento irreversibile dipanatosi nel corso di mesi (nel libro di Nadia c’è un formidabile passaggio, quando dice di Osip che cercava di rassicurarla un giorno con queste parole: «Pensa come siamo fortunati: la Russia ha talmente in alta considerazione la poesia da temerla!»).
Qualche giorno fa noto la presenza di questo libro sul mio comodino. Voglio dire: la noto meglio di altre volte in cui evidentemente ero meno ricettivo, e mi metto a rileggere l’inizio. Che ovviamente mi rapisce e mi spinge a proseguire un po’. Il libro è un racconto sensazionale sulla vicenda umana di questa coppia, che si ritrova a un certo punto tallonata e poi braccata dalla polizia e da tutto quel sistema di situazioni (fra cui la delazione) che le rendono la vita un inferno. Non solo a loro ovviamente. La loro colpa? Essere esseri pensanti con attitudine intellettuale, con la capacità di fare ragionamenti critici verso lo stato di polizia e verso i disagi del contesto sociale in cui il popolo viveva, e con la possibilità di scrivere cose destinate a un pubblico, per quanto sparuto. I dittatori temono moltissimo gli intellettuali, i pensatori, gli artisti, che in genere con le loro opinioni possono favorire i ragionamenti della gente, allargare loro la mente, favorire dibattiti: e infatti se possono gli bruciano i libri o li ritirano dalla circolazione (Trump sta facendo queste cosucce).
Attraverso una narrazione che è spietatamente lucida, ricca di richiami alla memoria che permettono di recuperare passaggi preziosi per la ricostruzione degli avvenimenti, rigidamente attenta a non indulgere in sentimentalismi ma lasciando che l’ironia e la crudeltà della vicenda narrata sappiano parlare di per sé e far capire al lettore attento l’allucinazione di quel periodo e di quel contesto, Nadia ci mette di fronte all’assurdità della violenza e del sadismo. Osip e Nadia erano due persone comuni, non erano dei delinquenti, non erano dei pezzenti, non erano dei ladri, non erano dei piantagrane, non erano degli eccentrici esuberanti. E soprattutto non erano degli eversori, non sobillavano nessuno, non tramavano concretamente, sebbene come tutto il popolo in cuor loro avrebbero ovviamente gradito che Stalin crepasse. Semplicemente pensavano. In modo raffinato certo, ma pur sempre in quanto gente del popolo: difficile per noi occidentali comprendere e accettare questa cosa tipica di una vita vissuta sotto un regime, cioè il rendersi conto che il tuo stesso modo di pensare, se non taciuto per sempre e con una condotta di vita quasi da persona invisibile, ti potrebbe prima o poi portare alla morte. E l’assurdità della violenza viene fuori poco per volta proprio se pensiamo alla loro totale mancanza di colpe. Due giovani brillanti russi con sogni, aspirazioni, ideali, fascinazioni, che non pensano ad altro che immaginare il loro futuro e che vengono lentamente deprivati di tutto. Loro come la popolazione intera. Per informazione: siamo in un periodo che coincide coi primi tre decenni circa del 1900.
A un certo punto nella lettura mi appare un nuovo capitolo dal titolo “Dall’altra parte”. E la prima pagina di quel capitolo mi sorprende e quasi commuove per la presenza di una parola in particolare, penultima di un doloroso elenco. Io ora vorrei farvi leggere quella pagina. Eccola qua.
“Nel preciso istante in cui ero entrata nel vagone e avevo visto i nostri fratelli attraverso il vetro, il mondo si era scisso per me in due parti. Tutto ciò che era esistito prima era svanito chissà dove, era divenuto un ricordo confuso, come scivolato dietro lo specchio della mia memoria, e davanti a me si spalancava un futuro che non voleva in nessun modo saldarsi con il passato. Non è letteratura, questa, ma un timido tentativo di descrivere una svolta della coscienza, sperimentata probabilmente da moltissime altre persone costrette a oltrepassare quella barriera, quel limite fatale. La svolta di cui parlo si manifestò in primo luogo in un’assoluta indifferenza verso tutto ciò che era rimasto dietro di me, poiché si era fatta strada nel mio intimo la certezza assoluta che tutti noi fossimo ormai avviati verso una morte senza ritorno A qualcuno poteva essere concessa ancora un’ora, a un altro una settimana o magari un anno, ma la fine era una sola. Fine di tutto: dei parenti, degli amici, dell’Europa, di mia madre. Ho detto proprio ‘Europa’, perché laggiù nel ‘nuovo’ dove andai a finire, tutto quel complesso europeo di pensieri sentimenti e concezioni dei quali mi ero nutrita fino a quel momento non esisteva affatto. Altre idee, altre dimensioni, altri valori”.
“Ancora poco prima ero piena d’ansia per i miei cari: per il mio lavoro, per tutto ciò su cui si fondava la mia vita. Adesso l’ansia era scomparsa, la paura era finita. Le aveva sostituite la lucidissima, dolorosa coscienza di una condanna ineluttabile, che aveva generato a sua volta un’indifferenza fisicamente percepibile, grave come un macigno. Mi sembrava che non esistesse più il tempo, ma solo il termine, più o meno lungo, che ci separava da quell’evento irreversibile che sarebbe piombato su tutti noi con la nostra Europa, con i nostri ultimi brandelli di pensieri e sentimenti”.
Probabilmente molti l’hanno notata come me, altri forse no. Quella parola è Europa. “Tutto quel complesso europeo di pensieri sentimenti e concezioni dei quali mi ero nutrita fino a quel momento”. Ecco, quei pensieri sentimenti e concezioni erano ammirati dai giovani russi (allora come oggi), che se ne cibavano, sentivano affinità, speravano come minimo in una commistione se non proprio in una evasione. Lo stesso sistema di valori di cui stiamo terribilmente soffrendo in questa Europa che ha un disperato bisogno di rimanere unita, di superare le divisioni dell’orgoglio, del sentimento di rivalsa, della competizione, dell’astio centenario, dei sospetti reciproci, del senso di superiorità…
In questa fase della mia vita, e vorrei che durasse per sempre, sono riuscito ad eliminare una prima cosa nel mio tentativo di allontanarmi dai social: non scrollo praticamente più e non leggo nessun commento (a parte quelli dei nostri fan sulle nostre pagine e sulle nostre cose). E con rammarico sto abolendo i contenuti su YouTube perché i commenti sono troppo a portata di mano del rischio di cascarci. Mi informo sui giornali leggendone i titoli di almeno sei/sette ogni giorno nel modo più eterogeneo possibile – Libero e La verità banditi, Il giornale no – e soffermandomi su un po’ di articoli qua e là nel tempo che ho a disposizione. E vado sui siti seri e affidabili: ce n’è tanti, e non ci sono le sezioni commenti. In questo modo approfondisco meglio, mi soffermo, mi prendo del tempo, leggo con calma, assimilo, e non vengo travolto nel vortice degli uni contro gli altri. Ma percepisco, nonostante questo distacco, una discussione animata e snervante sui tanti temi legati a questo argomento delicatissimo, pur non volendo sentire la necessità di addentrarmi in qualsiasi tipo di riflessione: il web è come sempre in agitazione e già tutti dicono di tutto, e so che molte affermazioni a leggerle mi apparirebbero orrende.
Mi limito dunque a sperare che le cose vadano per il verso giusto, e per me il verso giusto è la tenuta della democrazia qui da noi. E so che le probabilità che ciò accada non sono tante. Forse non poche, di certo non tante.
Ringrazio Michele Serra e la sua iniziativa coraggiosa e necessaria: amerei poter essere a Roma domani alla discesa in piazza per un’Europa unita, ma non mi è possibile. Ritengo Michele Serra uno dei giornalisti (intellettuali) più intensi e sagaci nel trovare le parole giuste per evidenziare sempre un qualche punto di vista intelligente e pratico sulle assurdità di cosa sta accadendo, e apprezzo il tono educato che immagino riesca a mitigare quanto meno le contestazioni meno caustiche. Non ho voglia di pensare al tritacarne mediatico: immagino sia sempre e comunque sufficientemente doloroso trovarsi negli occhi dei cicloni virtuali, ed è per questo che Serra è stato coraggioso.
Spero allora in conclusione che là fuori possa tenere il numero di persone che sanno rendersi conto della estrema delicatezza del momento che stiamo vivendo e della necessità urgente di un’Europa unita e in grado di non farsi sopraffare: a loro, a quel numero di persone, ammicco e strizzo l’occhio in segno di complicità. In bocca al lupo a tutti noi.
(Questo finale è pessimista, lo so. Ma il suo contenuto è decisamente verosimile. E queste preoccupazioni sono di tantissimi nel mondo, intellettuali politici gente comune artisti, e non è un pensiero mainstream. Pensarlo e liquidarlo con disprezzo è stolto. La guerra in fondo è difficile per tutti negare che sia un’opzione piuttosto probabile, e dunque è logico essere pessimisti. Perché non è facile essere ottimisti dimenticando quanto arsenale di guerra è sparpagliato nel mondo, armi nucleari in primis. Però, sotto sotto, ho la piccola speranza che una ribellione fattiva da parte del popolo non catturato dai populismi e dai sovranismi sia in qualche modo possibile e futuribile. Non c’è quasi niente di razionale in questa mia speranza: solo un sentire istintivo, probabilmente una suggestione, o un semplice desiderio di non pietrificarsi nell’angoscia. Chissà…).