Senti come muoiono i Sex Pistols | Rolling Stone Italia
Anarchy in the U.S.A.

Senti come muoiono i Sex Pistols

Arrivano i bootleg ufficiali degli ultimi concerti americani della formazione con Johnny Rotten, Sid Vicious, Paul Cook e Steve Jones. Sono la testimonianza di una band allo sbando, consumata dalla stanchezza, dagli scazzi, dai piani machiavellici di Malcolm McLaren

Senti come muoiono i Sex Pistols

Johnny Rotten, Sid Vicious, Steve Jones e Paul Cook: i Sex Pistols di fronte al bus dell’ultimo tour americano

Foto: Richard E. Aaron/Redferns

«Avete mai avuto l’impressione di essere stati imbrogliati?». Nella frase acida, irritante e sarcastica detta da Johnny Rotten alla fine dell’ultima data del tour americano dei Sex Pistols è racchiusa l’intera epopea della band. Un percorso durato poco più di due anni, ma così intensi da sembrare cinque volte tanto.

Che il vero successo economico si poteva raggiungere solo sfondando negli Stati Uniti era ormai un fatto conclamato dai tempi della British Invasion di Beatles e Stones, ma anche in anni più vicini alle scorribande dei Pistols un’altra mezza truffa del rock’n’roll aveva trasformato David Bowie in una superstar anche dall’altra parte dell’oceano. «David, se vuoi diventare una rockstar, ti devi comportare come una rockstar prima ancora di esserlo». Più o meno con queste parole Tony Defries era riuscito a trasformare Bowie in una leggenda anche in America, dove sostanzialmente anche dopo l’uscita di Ziggy Stardust restava uno semisconosciuto. Il risultato di quella follia, soprattutto economica, furono Aladdin Sane (lo Ziggy americano, per l’appunto) e un tour che costò molto di più di quello che riuscì a incassare, ma che a tutti gli effetti diede un’immagine di Bowie capace di ammaliare il pubblico americano.

Malcolm McLaren, che aveva provato a portare al successo i New York Dolls, perfezionò il tiro col suo progetto successivo: trasformare quattro disadattati della Londra operaia nel gruppo più pericoloso al mondo. E, soprattutto, farlo credere anche alla parte più reazionaria e bigotta degli States, quella per intenderci che nemmeno sapeva dell’esistenza dei Ramones o dei Dolls, che pure provenivano dalla loro terra e che quella pericolosità la incarnavano per davvero.

Finalmente, dopo aver circolato per decenni come bootleg, vedono la pubblicazione ufficiale (scaglionati singolarmente e riuniti nel box set Live in the U.S.A. il 24 aprile) tre concerti americani del 1978 che sono anche gli ultimi dei Sex Pistols prima dello scioglimento della formazione composta da Rotten, Sid Vicious, Paul Cook e Steve Jones. Non è la line-up originale, che vedeva la presenza di Glen Matlock, autore di quasi tutti i loro pezzi, e non è nemmeno l’ultima formazione, visto che per un po’ la band è andata avanti stancamente senza Rotten. È quella passata alla storia. Quei concerti sono entrati nel mito non tanto per il valore musicale, ma perché pieni dei cliché della band alla deriva, in cui l’ego, l’idiozia e l’incoscienza erano a livelli tali da rendere quel primo tour in terra americana una bomba pronta ad esplodere senza alcun preavviso.

La prima discesa nel sud degli Stati Uniti, prevista per il dicembre del ’77, era stata cancellata ancor prima di iniziare a causa della riluttanza delle autorità a ospitare un gruppo tanto problematico. Per aggiungere un po’ di pepe, McLaren aveva pensato bene di chiedere ad alcuni suoi conoscenti di portare con sé un nutrito numero di rednecks capaci di scatenare il panico dentro e fuori le sale da concerto. Il risultato, va da sé, fu sconcertante. Soprattutto perché le azioni di Sid Vicious erano ormai impossibili da arginare. Rotten, che aveva inizialmente caldeggiato il suo ingresso al posto dell’odiato Matlock, si era ritrovato con il classico boomerang di ritorno nelle parti basse. Il Sid che sognava la fama era infatti molto diverso dal Sid che l’aveva ottenuta. La pressione, e tutto ciò di cui aveva iniziato a fare uso per sostenerla, l’aveva trasformato in una mina vagante.

Nell’arco di quelle poche date, il bassista era riuscito a farsi ricoverare a Memphis con la scritta “gimme a fix” incisa sul torace, a litigare sul palco a Dallas con una donna che lo aveva colpito in faccia con un pugno e a picchiare una fotografa che aspettava la sua uscita dell’ennesimo ricovero ospedaliero. «Era tutta una farsa», ha detto Lydon. «Mi sono sentito truffato. Sid era completamente fuori di testa. E mi sono odiato per averlo portato dentro quella roba».

Va da sé che, per decenni, gli ultimi show della band sono stati considerati la summa del caos, dello sbando e dell’atteggiamento del gruppo inglese. Ma è stato davvero così? Inutile girarci troppo attorno: quella che esce dalle registrazioni dei tre concerti americani è davvero una band strafinita. Non che avessero mai suonato come gli Yes, è chiaro, ma il livello di pressapochismo raggiunto all’inizio del 1978 era troppo alto persino per la band che mediaticamente incarnava più di qualsiasi altra i principi cardine del do it yourself. Intendiamoci, a livello storico la registrazione degli show è preziosa, ma il passaparola giunto fino a noi che li descriveva come l’apoteosi del dilettantismo e del tedio non era esagerato.

Ascoltando in ordine cronologico i tre concerti ad Atlanta (5 gennaio 1978), Dallas (10 gennaio 1978) e San Francisco (14 gennaio 1978), è evidente che in ogni serata aumentava lo scazzo tra i componenti del gruppo. Una delle caratteristiche dei concerti punk, soprattutto quando le band muovevano i primi passi era proprio la sensazione di approssimazione, ma allo stesso tempo di onestà che ne traspariva. Qui invece la sensazione è che, probabilmente, l’unico a divertirsi è Malcolm McLaren nell’assistere all’ennesima farsa riuscita a puntino. Se fino a un certo punto i musicisti sembravano godere nel prendersi gioco del sistema, qui pare di assistere a una sorta di accanimento terapeutico. È vero, sporadicamente si percepisce la vena anarchica e genuina che ha accompagnato gli episodi più controversi della loro breve carriera, ma persino le battute e le provocazioni di Rotten al microfono appaiono sempre più stanche, quasi un copione da seguire.

Insomma, in America i Pistols recitano un ruolo con poca credibilità e con un evidente sentimento di stanchezza e rassegnazione che la dicono lunga sul futuro prossimo del gruppo. Non a caso Rotten appare più sincero quando alla fine di No Fun nel corso dell’ultima serata in programma ammette che, sì, in effetti la cosa non era più divertente. In pratica, seguire l’evoluzione delle ultime serate della formazione ci permette di assistere in diretta alla morte dei Sex Pistols. Cosa che, se da una parte dà la sensazione di ascoltare una testimonianza storica, dall’altra finisce per sfociare quasi nella pornografia. Anche i momenti tra un brano e l’altro lasciano spesso di stucco, con Paul Cook che improvvisa fill di batteria che non riesce a portare a termine o Steve Jones che, complice una chitarra economica recuperata all’ultimo momento una volta sbarcati negli States, sembra imbracciare una sei corde per la prima volta.

L’unico perennemente in estasi, paradossalmente ma nemmeno così tanto se consideriamo le condizioni in cui si trovava, sembra Sid Vicious, che in un paio di occasioni sentiamo addirittura gridare con convinzione che quella che gli spettatori hanno di fronte è la «più grande band al mondo». Una cosa rimane in testa dopo l’ascolto ripetuto degli show: il “no future” sul finale di God Save the Queen non è mai apparso prima di allora così disperato e sinistro.