«Siamo intergenerazionali», annuncia soddisfatto Pierpaolo Capovilla, un po’ serio e un po’ no. Siamo all’Alcatraz di Milano, è l’ultimo della prima serie di concerti dei rinati Teatro degli Orrori e tra il pubblico ci sono quelli che li han visti 15 anni fa e quelli che li vedono ora per la prima volta, ma che evidentemente hanno ascoltato i dischi fino a impararli a memoria. Sono due ore di ferocia e di poesia, un concerto un po’ da reduci e un po’ da ambasciatori d’un modo di fare musica che è sempre meno popolare in Italia. Qua dentro lo è, eccome. Per due ore la gente balla, poga, s’invola sopra le teste degli altri, alza i pugni al cielo scandendo canzoni che dopo 15 e passa anni suonano ancora vitali e in grado di dire cose sul mondo in cui viviamo.
Pierpaolo Capovilla, Giulio Ragno Favero, Gionata Mirai e Francesco Valente sono tornati per dirci che del paradiso non ce ne facciamo nulla, manco sappiamo se esiste. L’inferno invece lo conosciamo bene e stasera migliaia di persone sono qui per urlarlo. I quattro salgono sul palco introdotti dalle note di Jesus’ Blood Never Failed Me Yet di Gavin Bryars e iniziano col botto, vale a dire con le tre canzoni che aprivano Dell’impero delle tenebre. Quando c’è da cantare “me ne frego di dio, me ne frego del demonio, me ne frego dei sacramenti, me ne frego di te”, che è Baudelaire via Capovilla, nessuno si tira indietro. È un bel rito liberatorio e anche un po’ una celebrazione di un gruppo che oggi suona in locali più grandi di quelli di ieri. «La botta d’affetto e d’attenzione arriva potente», assicura Favero.
C’è un 57enne che vaga sul palco, diversamente lucido, sbraita e delira e gesticola, qualcuno ha detto che sembra un Carmelo Bene chiamato a fare il frontman dei Jesus Lizard. Batte il tempo percuotendo col microfono uno strumento invisibile, declama parole accompagnate dal suono di tuono che tirano fuori il bassista, il chitarrista e il batterista. È un amico, una maschera, un giullare che altera la voce per dire cose pesantissime. Quando incontro il gruppo nei camerini prima del concerto, Capovilla dice che «la nostalgia è una forma d’amore per il tempo vissuto e riscoprirlo è affasciante». Ed effettivamente c’è un filo di nostalgia in queste canzoni, per qualcosa che si è perduto, per qualcuno che se n’è andato, per un senso di comunità smarrito. Capovilla non s’offende quando gli dico che potrebbe essere un reduce, anzi «non mi dispiace perché un reduce è uno che ha fatto una guerra e ora ne fa un’altra». Sul palco dice d’essere un boomer che si sente in colpa per aver lasciato un mondo schifoso ai più giovani senza avere lottato per loro. Canta degli orrori in cui viviamo come collettività, ma anche delle nostre vite spese male e quindi passa da un tono feroce e combattivo a uno amaro ed esistenziale. È forse l’unico concerto rock al mondo in cui un cantante chiede al pubblico: «Ma a voi piace Majakovskij?».

Foto: Daniele Bianchi
La scaletta pesca soprattutto dai primi due dischi, i migliori, le canzoni non sono invecchiate male, anzi. In certi momenti come nella Canzone di Tom c’è commozione anche tra il pubblico, come se quella perdita riguardasse tutti, e un po’ è inevitabilmente così. Il suono tra hardcore e noise è rabbioso e potentissimo, la band s’impossessa della scena per certe code strumentali mostruose, con un gran senso della dinamica. Siamo qui anche per essere presi a calci. «Per il controllo dell’energia», mi dicono Favero, Mirai e Valente prima dell’inizio, «sono i concerti migliori che abbiamo fatto. Siamo più consapevoli, siamo più affilati, il suono è più chirurgico e quindi più efficace». Ci hanno lavorato per sei mesi. «Abbiamo abbandonato gli amplificatori, controlliamo di più il suono che è meno caotico pur mantenendo una certa botta. Un tempo la gente ci diceva “oh, non si capisce niente”, oggi dicono “si sentiva benissimo”». Vale anche per la voce: «Noi eravamo un devasto sul palco e lui si doveva sgolare. Non è più così». Quando Capovilla, che si è unito ai tre musicisti solo per i giorni finali di prove a Nonantola, ha capito che sul palco non c’era più il suono degli amplificatori a cui è affezionato, è rimasto spiazzato. «Ho detto: mettiamoli lo stesso, anche spenti. Ma il risultato è stato sorprendente, il suono è intelligibile e quindi: grazie ragazzi. E poi più la scena è essenziale, più è teatrale. Prendi Artaud, toglieva tutto, bastava una candela».
Col pubblico, dice il cantante, si entra in risonanza. «Lo diceva Emilio Del Giudice parlando di fisica quantistica e vale anche negli esseri umani». L’età ha portato giudizio. Come dice il cantante, una volta i loro concerti erano «più fuori di testa, più imprevedibili, non sapevi mai cosa sarebbe successo, ma c’era qualcosa di magico forse perché tutti in quel contesto eravamo un po’ ebbri». Ora sono meno ebbri, ma hanno un impatto notevole e quindi non smetteranno di suonare. «E poi se ci vedi qua, tutti assieme, è perché è andata bene sul piano dei rapporti», dice Mirai. Quando chiedo del futuro del gruppo alla luce di queste date, magari un disco, il chitarrista non si sbilancia e dice che «le cose stanno funzionando proprio perché viviamo il presente». A Capovilla non spiacerebbe tornare a suonare nei piccoli club, sentire il pubblico addosso, «mi piace il corpo a corpo», di mezzo però c’è l’estate che è la stagione dei concerti all’aperto. Non entrano nel merito delle ragioni della cancellazione dei due concerti previsti a Napoli e Molfetta, si capisce che è stata una scelta sofferta, si intuisce che non erano stati venduti biglietti a sufficienza. «Non è solo quello il motivo», spiega Favero. «Li abbiamo cancellati per difficoltà varie, è un concorso di cose. Il tour è una macchina complessa, non è facile fare incastrare tutto. Ma faremo di tutto per recuperarli».
Ci sono canzoni che quando suoni a 20 anni sono tutta la vita, dieci anni dopo sembrano meno rilevanti, dopo altri 20 anni tornano ad avere un significato forte e ti riportano là dov’eri un tempo. E magari scopri che dicono cose su chi sei diventato. È quel che succede a molti gruppi che si rimettono assieme, è accaduto anche al Teatro degli Orrori. La loro musica dall’impatto fisico, roba che ti prende lo stomaco e ti scuote le ossa, resta un’anomalia. Non è solo una questione di rock suonato alla vecchia maniera. È musica massimalista che ha un senso d’urgenza, che ti sfida, è musica che invade i tuoi spazi senza chiedere permesso. «La gente oggi preferisce non essere aggredita», mi dice Favero, «e invece una volta non vedeva l’ora di venire invasa. Oggi le persone sembrano avere paura, come se il loro spazio non fosse più accessibile agli altri. Ma il bello della musica aggressiva è che entri nello spazio degli altri e lo fai con irruenza. Ma non perché ti voglio far del male, è perché ti voglio bene».
Set list:
Vita mia
Dio mio
E lei venne!
Disinteressati e indifferenti
Due
È colpa mia
Lavorare stanca
La canzone di Tom
Direzioni diverse
Il Terzo Mondo
Vivere e morire a Treviso
Majakovskij
Io cerco te
Il lungo sonno (Lettera aperta al Partito Democratico)
Non vedo l’ora
Compagna Teresa
Padre Nostro
A sangue freddo
Mai dire mai
Lezione di musica
Maria Maddalena