Un basilico che muore di sete. Un orecchino spaiato e dimenticato. Un maglione blu riverso su un letto disfatto. Il detersivo simbolicamente bevuto dal tappo, le piastrelle fredde sotto i piedi nudi, la plastica di una bottiglia abbandonata sul frigo accanto a una foto, guarda caso, mossa. Nel mondo arrangiato dall’album Futuri possibili, in uscita questo venerdì, le cose parlano da sé o, quando pure vorrebbero restare zitte, Franco126 riesce comunque a farle cantare. Non sono mai solo oggetti: sono indizi emotivi, reliquie sentimentali, fantasmi o vampiri di ciò che è stato. Ogni canzone è un inventario lirico del quotidiano: stanze vuote, letti già condivisi, biglietti di treni mai presi. Ma anche di parole non dette, di silenzi da mandare giù, di tempo che passa senza avvisare.
Per molti versi, alcuni di questi brani sembrano essere nature morte musicate. Un tempo un pittore fiammingo avrebbe estratto, da un mazzo di fiori, versetti della Bibbia. Franco126 è stato capace di tirare fuori il suo dolore da un flacone di detersivo.

In queste 13 tracce, Franco126 ci mostra gli oggetti e i sentimenti che restano quando le persone se ne vanno. E lo fa con una lingua che sa essere cruda e carezzevole, disillusa e lucida, tenera e senza pietà. Un linguaggio tratto dalla vita vera, ma attraversato da una cifra poetica che lo rende anche altro: quella sottanza che è, ormai, la cifra più profonda di Franco126: lo stare sotto, il cadere per amore, il restare indietro per scrivere avanti.
La sottanza per lui è la zona d’ombra in cui l’artista smette di controllare e inizia a sentire. È la resa che precede la rinascita. In Franco126, stare sotto per una donna non è mai una debolezza da rimuovere, ma una verità da abitare. È lì che il linguaggio si fa più nitido, che le immagini si accendono, che i dettagli diventano simboli. L’amore, soprattutto se perduto o impossibile, è il catalizzatore che lo spinge giù – al di là delle certezze, sotto la superficie delle parole comuni. Ogni nuovo brano nasce da una frattura, da un’incapacità, da un vuoto che reclama una nuova forma e la lingua giusta: laterale, disillusa, ma piena di grazia.
Lo abbiamo incontrato nel giardino di Villa Sciarra al Gianicolo – al termine del percorso iniziatico dei 126 scalini – per parlare di stanze e silenzi, spifferi e semafori, futuro e memoria.
I tuoi primi lavori erano istantanee di gioventù disillusa, questo disco sembra invece un atlante di strade interiori. In che modo pensi che sia cambiato non solo il tuo modo di scrivere, ma anche il tuo modo di essere artista oggi, rispetto a quando hai iniziato?
A questo giro ho fatto un disco senza pensarci tanto. È venuto da sé, prendendo il via dalla storia di un amore finito. Quando ho scritto l’ultimo album, Multisala, avevo molto chiaro in mente quello che volevo fare. Invece, con questo, avevo più che altro delle cose da dire. Ho seguito, senza ragionarci tanto, quello che, da dentro, cercava di venire fuori, cercando di dare tutto lo spazio possibile a un’anima che nei dischi precedenti non ne aveva avuto abbastanza.
E come ha dialogato la musica con questa premessa tematica?
Musicalmente questo è un disco un po’ sperimentale, perché tutto questo convive anche con un’anima rap, in tutte le sue possibili sfumature: dall’old school alla trap. È il punto di incontro tra i miei due dischi precedenti e quello che ho fatto con la Lovegang. Per questi motivi, Futuri possibili suonerà diversamente rispetto a Multisala, soprattutto nel modo di articolare le immagini, che sono molto quotidiane, molto concrete.

Foto: Virginia Bettoja per Rolling Stone Italia. Giacca e denim Levi’s. Felpa Caterpillar. Occhiali Rayban
Non è da tutti fare un disco con 13 brani tutti dedicati a variazioni sullo stesso tema – l’afterlife di un sentimento – senza per questo scadere nella monotonia o, quantomeno, nel languore. Le tue nuove canzoni sembrano sempre in bilico tra il rimpianto e il suo superamento, tra le strofe dominate dalla malinconia e i ritornelli riscattati dall’autoironia. Cosa riesce a salvarti sempre, puntualmente, dai rischi di segno opposto del sentimentalismo e del cinismo?
Mettiamola così: sicuramente questo resta il disco in cui mi piango più addosso. Eppure, per la musica, è anche il disco più luminoso che ho fatto. Penso al brano con Fulminacci. C’è Vampiro, che è un pezzo quasi rock. I suoni spaziano molto. Ci sono perfino degli episodi up-tempo, che è una roba che tendenzialmente non faccio. Ma, soprattutto, c’è un’altra cosa che non ho mai fatto prima, mettermi in gioco con un contrasto tra testi molto malinconici e suoni tutto sommato anche felici e scanzonati. Senza questa contrapposizione Futuri possibili sarebbe stato quasi inascoltabile (ride).
Hai scritto, in altre parole, non un melodramma, ma un musical sulla sottanza.
Sì, un po’ sì.
Questa sottanza non è per te solo un tratto autobiografico.
No, certo. È sempre presente nelle dinamiche più profonde che ci sono dentro chiunque di noi.
Ma per te la sottanza sembra anche un po’ la condizione necessaria per accedere alla tua parte creativa più autentica. Come se, senza sottanza, non ci possa essere musica.
Per questo disco sì, è senz’altro così. Poi, è chiaro che ci possono essere anche delle altre sfumature, nella mia scrittura, e sto cominciando a pensare a come tirarle fuori. Però fino ad ora questa condizione è stata una chiave importante per tirare fuori le mie canzoni, la mia linea poetica, la mia visione.

Foto: Virginia Bettoja per Rolling Stone Italia. Polo Picante. Occhiali Moscot
Nei tuoi testi sembra che il mondo inizi solo quando smetti di tenerlo sotto controllo. Credi che la fragilità sia una forma di verità?
Se c’è un tratto di me che, in passato, mi ha sempre dato fastidio, è stata proprio questa fragilità. Soprattutto quando ero ragazzo, non la capivo appieno. Poi ho scoperto che, in realtà, poteva essere un punto di forza. E proprio quello che, di me, mi infastidiva, è diventato il modo migliore per esprimermi.
Nei tuoi testi si respira una sorta di “parlato scritto”, un italiano che sembra rubato alle conversazioni di tutti i giorni ma poi si trasforma in lirica. Come lavori sul registro linguistico? Parti prima dalla voce della strada o dal suono sulla pagina?
Quel lavoro è una somma di cose. Negli anni ho sviluppato un gusto particolare per le parole. Spesso e volentieri parto proprio da pezzi di conversazioni che ascolto, magari anche dei modi di dire che trovo in un libro. Comunque c’è un lavoro minuzioso, una ricerca sull’italiano: ci tengo che le mie parole siano tutte belle, insomma. Ma, in fondo, credo che la semplicità sia la cosa più importante. Una cosa, per essere veramente poetica, per me, deve essere estremamente semplice e comprensibile. Quindi, anche se, a volte, ho lavorato con autori che propendono più per il suono, io a quello penso un po’ meno.
Sei dunque l’opposto di un poeta aulico. Usi spesso parole comuni – maglione, caffè, finestrino, detersivo – ma in un contesto carico di senso. Credi che la poesia stia nelle piccole cose perché le grandi sono già compromesse?
A me piace la poesia delle piccole cose, e dunque non mi sono mai posto questa domanda.
Qual è, secondo te, il confine tra semplicità e banalità nella lingua di una canzone?
È una capacità che acquisisci col tempo, ascoltando, leggendo, scrivendo. Ci sono cose, magari nei dischi passati, che adesso non direi più. E magari, tra le cose dette in questo disco, ce ne sono alcune che, andando avanti, troverò po’ estreme, nell’altra direzione.
Che parole dei dischi passati rinnegheresti?
Ce ne sono diverse in Polaroid che, riascoltate adesso, trovo un po’ al limite. Ma penso che sia normale: le ho scritte a 24 anni. Quando sei dentro le cose le capisci solo fino a un certo punto e serve del tempo per comprenderle appieno.
Dunque oggi, in un mondo in gran parte avvinto da linguaggi digitali, slogan e hype, che valore ha una parola scelta bene, al posto giusto, in una canzone?
Scelgo le parole con cura perché è una cosa che piace a me, non per andare contro qualcuno. Non faccio musica per andare contro contro logiche di un certo tipo. E credo che anche la musica fatta seguendo la logica hype sia frutto di parole scelte in un certo modo. Non sono convinto che questo tipo di musica e la mia siano su binari che vanno in direzioni diverse.

Foto: Virginia Bettoja per Rolling Stone Italia. Occhiali Rayban. Giacca Stussy. Pantalone Levi’s. Maglietta Tee Library
La città che racconti è piena di solitudine domestica e notti insonni. È la società che ci rende così, o siamo noi stessi a costruirci dei labirinti emotivi?
È vero, c’è molta solitudine domestica in questo disco. Magari è perché nell’ultimo periodo sono davvero stato molto in casa. Non ho più vent’anni, non faccio più la vecchia vita, sempre in giro, che ho raccontato nei dischi precedenti. Ma è chiaro anche che, paradossalmente, la società in cui stiamo, dandoci troppi spunti, troppe occasioni di interazione, ci può portare a concentrarci sulle nostre cose. Allora sì, in quel caso, mi piace molto l’idea di solitudine domestica.
In Quattro fermate la città diventa quasi il terzo elemento di un triangolo amoroso.
Sì, una città non è solo un insieme di luoghi che, in questo caso, puoi associare a una storia d’amore. Roma è la città di cui sarò sempre innamorato, con tutti i suoi problemi, i suoi difetti e le sue contraddizioni. Una città che, comunque vada, non riesco mai veramente a lasciare.
In Prima dell’alba c’è una fortissima componente cinematografica. Qual è il film che senti più vicino alla tua poetica?
Se devo guardare un film, ne guardo uno horror. Mi piacciono molto anche i racconti di quel genere. In particolare Stephen King, da cui sono stati tratti bellissimi film, tra cui dei capolavori. King è stato uno degli autori che ha più influenzato la cultura pop negli ultimi 50 anni. Se dovessi citare solo un titolo, però, sarebbe Gremlins 2. (Mostra la foto di una parete di casa col poster di Gremlins 2, nda). È un poster molto simpatico, con quel pupazzo che esce dal cassetto.
Cosa ti piace di Gremlins 2?
Tutto. A partire dall’estetica. Il cattivo travestito da Ispettore Gadget. In più riunisce proprio due delle cose che mi piacciono di più, nel cinema: i teen movie e l’orrore. Adesso, tra l’altro, stanno lavorando al 3.
Nella sceneggiatura che potrebbe essere tratta da questo disco che personaggio interpreteresti?
Non c’è dubbio che nel disco sia molto presente la poetica del loser. Ovviamente, poi, come tutti i ruoli, è qualcosa che si interpreta. Ma a me non dispiace mica, quella poetica.
Dunque, così come sei l’opposto di un poeta aulico nella scrittura, sei l’opposto dell’artista supereroe, in gran voga oggi, dal punto di vista narratologico.
Beh, dai, non sono poi tutti così. Diciamo, magari, che nella corrente del rap questa cosa è un po’ più diffusa. Ma, secondo me, affidarsi questi ruoli un po’ estremi è anche uno degli aspetti divertenti di quel genere. Come del resto, nel nuovo disco, ho estremizzato un po’ di cose anch’io. Cioè: io sono così e non sono così. Sicuramente racconto un tratto che fa parte di me.
In Due estranei immagini di ricominciare da zero. Hai mai sognato di non essere Franco126?
In passato mi è certamente capitato. Però adesso no: sono contento di quello che sono, delle mie difficoltà, dei miei successi e anche dei miei insuccessi, perché sono questi che mi danno più spinta per affrontare le cose. Sono contento di quello che ho seminato, di quello che ho raccolto, di quello che è andato male e della vita che ho.

Foto: Virginia Bettoja per Rolling Stone Italia. Occhiali Rayban. Polo Carrhart. Pantaloni Levi’s. Scarpe Asics
In questo disco ci sono collaborazioni molto diverse tra loro: da amici storici come Giorgio Poi, Coez e Ketama126 a novità come Ele A. Come hai deciso con chi condividere questi “futuri possibili”?
È successo tutto molto spontaneamente. Innanzitutto ci tengo a dire che questo disco l’ho prodotto con un giovane produttore romano, Golden Years. È la prima volta che produco un disco nella mia città: gli altri li ho scritti a Roma e prodotti a Milano. Ragionando con lui sui pezzi, anche se erano tutti già finiti, abbiamo pensato che in alcuni di essi ci sarebbero state bene anche altre voci. Sono tutte di persone a cui tengo molto, a partire da Giorgio Poi, che ritengo il più grande cantautore che abbiamo in Italia e con cui volevo fare un pezzo da tantissimo tempo.
Nei brani condivisi, lasci spazio all’altro senza perdere mai il tuo tono. Come trovi l’equilibrio tra la tua voce e quella degli altri?
È facile entrare nel mondo di una persona che ti è affine. Nei casi di Coez e Ketama, il fatto di conoscerci da una vita ha aiutato. Ma anche con Giorgio e Fulminacci, che avevo frequentato meno, o con Ele A, che avevo solo incrociato, sono emerse visioni comuni.
La tua voce è riconoscibile proprio per la sua imperfezione veritiera. Hai mai sentito la pressione di dover sembrare più cantante da ritornello e meno narratore da strofa?
Non ho di certo le skill vocali da grande interprete italiano. Però ho fatto solo un featuring in cui non cantavo anche il ritornello, con Loredana Bertè. Ora che ci penso potrei essere più spesso quello che chiamano per fare le strofe (ride).
Lo strofaro!
Ci può stare, ci può stare.
Nel disco fai convivere la profondità del cantautore con il ritmo del rap. Pensi che questa doppia anima sia una cifra stilistica o il riflesso di una generazione che non si sente più a casa in un solo genere?
Sicuramente la seconda. Le persone ormai ascoltano tutti i generi, non c’è più la divisione che c’era in passato, quando c’era il metallaro, c’era il rapper, e via dicendo.
Pensi che questo sia un bene?
Se l’ascoltatore riesce così a fare un viaggio più personale, sì. Se la musica risulta più uniformata, magari meno. È, comunque, un evidente riflesso dei tempi.
Cos’altro va meno bene, oggi?
Le nuove forme di ascolto, più compulsive, casuali e approssimative, meno ricercate. Il fatto che gli artisti abbiano un feedback immediato di quello che sembra piacere all’ascoltatore e che questo tipo di feedback possa influenzarti, inevitabilmente, nello scrivere.

Foto: Virginia Bettoja per Rolling Stone Italia. Occhiali Rayban. Giacca Stussy. Pantalone Levi’s. Maglietta Tee Library
Occhi ingenui è una canzone durissima nella sua delicatezza. L’ingenuità oggi è un difetto o un atto di resistenza?
È una constatazione, un dato di fatto.
Pensi che oggi fare musica significhi ancora “dire qualcosa”, oppure il ruolo dell’artista si sta spostando verso l’estetica, il suono, l’intrattenimento? E tu, dove ti collochi in questo scenario?
La vedo meno politicamente di così. Credo che uno debba esprimere sé stesso. Alla fine, se lo fa in modo sincero e onesto, va tutto bene. Così come ho provato a fare io, parlando di una relazione per come l’ho vissuta.
Hai pensato alle conseguenze che potrebbe avere questo disco sulla tua dimensione autobiografica?
Sicuramente ha fatto bene a me e credo anche a… chi ha sentito queste canzoni. Ma una canzone non è mai per una persona, no?
Se dovessi descrivere il mondo di oggi con una parola sola, quale useresti?
Mi cogliete proprio in contropiede. Come mi muovo mi sbaglio, qua.
“Possibile”?
Sono un tipo molto positivo, carico. Sono uno che non si tira indietro, tendenzialmente. Me l’avete suggerito voi. Ma “possibile” mi piace.
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Photographer: Virginia Bettoja
Art Direction: Leftloft
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Make Up Artist: Mirela Gjinaj
Camera Operator/DOP: Fulvio Greco
Video Production: Simone Durante
Photographer Assistant: Umberto Poto
F.E. Assistant: Lavinia Bozzini