Nell’estate del 1969 centinaia di migliaia di persone hanno ascoltato a Woodstock la musica di artisti con cui i Pink Floyd avevano suonato, da Jimi Hendrix agli Who ai Ten Years After. I Pink Floyd, però, non sono stati invitati. «Non che ci sia sembrato di esserci persi qualcosa, non eravamo così importanti», racconta Nick Mason. «Suonavamo allo Scene di New York davanti a 150 persone, non potevamo pensare di andare a Woodstock».
All’epoca i quattro si stavano adattando alla fine del periodo con Syd Barrett, le cui canzoni li avevano consacrati come una delle band psichedeliche più importanti d’Inghilterra. Dopo il brillante A Saucerful of Secrets del 1968, i Pink Floyd hanno pubblicato dischi frammentari e complessi (Soundtrack from the Film “More”, Atom Heart Mother), prima di trovare il suono che avrebbe contraddistinto i capolavori degli anni ’70, a partire da Meddle, uscito due anni dopo Woodstock. La maestosità fuori di testa di Echoes e la trascinante One of These Days anticipavano ciò che la band avrebbe fatto a partire da The Dark Side of the Moon.
Mason ha sempre trovato il film di Woodstock impressionante, se non formidabile, e anche i Pink Floyd hanno avuto il loro film-concerto di culto, Pink Floyd: Live at Pompeii, in cui eseguivano tre pezzi sotto un sole cocente fra le rovine archeologiche dell’anfiteatro romano di Pompei davanti a un pubblico formato da centinaia di migliaia di… fantasmi. Solo i roadie della band e la troupe del regista Adrian Maben hanno assistito alle interpretazioni sballate di Echoes, A Saucerful of Secrets e One of These Days. Nel film non c’è una band che interagisce con il pubblico, ma un gruppo che reagisce all’ambiente. «È buffo come ci siamo subito abituati a quell’idea», dice Mason, «di sostituire il pubblico con un luogo straordinario».
L’ultima volta che Mason ha visto il film è stata un paio d’anni fa. Ha potuto apprezzare la band anche perché le riprese sono state così veloci che si ricordava a malapena di averle fatte. Il film include una manciata di canzoni suonate in uno studio televisivo di Parigi, tra cui il famigerato blues Mademoiselle Nobs con un cane nei panni di cantante e spezzoni girati ad Abbey Road, dove la band stava registrando The Dark Side of the Moon. Ci sono anche molte scene di escursioni dei membri dei Floyd sul Vesuvio, che nel 79 dC, eruttando, ha seppellito Pompei.
L’apice della pellicola uscita nel 1972 rimane la sequenza dell’anfiteatro, con Roger Waters che percuote il gong, David Gilmour accovacciato nella polvere con la sua chitarra, Rick Wright che suona un pianoforte a coda e Mason al centro, alla batteria. «Nell’arco di sei giorni siamo passati dal vago interesse all’entusiasmo per quell’esibizione e penso che anche il rapporto con la troupe ci abbia aiutati», racconta Mason. «Mi piace l’immagine di Roger col gong».

Ciak, si gira: i Pink Floyd a Pompei. Foto: Sony Music Entertainment
Il film tornerà nelle sale dal 24 al 30 aprile col nuovo titolo Pink Floyd at Pompeii MCMLXXII. È stato restaurato partendo dalle bobine originali da 35 mm e rimasterizzato in 4K, in modo da essere perfetto se proiettato sugli schermi IMAX. L’audio Dolby Atmos remixato da Steven Wilson verrà pubblicato come album a sé.
In questa intervista Mason, 81 anni, riflette sulla sua esperienza a Pompei, dove sia lui che Gilmour hanno suonato da solisti negli ultimi anni, e sul lascito dei Pink Floyd.
Quando, nove anni fa, David Gilmour si è esibito a Pompei, l’anfiteatro ha ospitato una mostra in cui il film del concerto veniva definito «l’idea più stramba nella storia del rock». Suonare in un anfiteatro romano completamente vuoto vi è sembrato strano?
Direi che ci siamo abituati piuttosto velocemente alla cosa. Era un’idea davvero bizzarra e ho la sensazione che sia stato tutto deciso all’ultimo minuto, visto che siamo stati costretti a cancellare dei concerti previsti nel Regno Unito. Li abbiamo recuperati sei mesi dopo, quando era già uscito Dark Side of the Moon, per la gioia di un’università che ci aveva ingaggiato per 500 sterline, mentre ormai, a quel punto, ne chiedevamo il doppio.
Com’è stato suonare senza pubblico?
All’inizio piuttosto strano, poi ci abbiamo preso gusto. Era come suonare fra di noi, ma sul palco, abbiamo costruito la nostra atmosfera.
Cosa ricordi di Pompei?
Non ci siamo stati molto tempo. Quando ci sono tornato non ricordavo quasi niente. La città è cambiata un bel po’, ora è più suggestiva. Sembra assurdo, ma mi sembra di ricordare meno di Pompei e del film che di qualsiasi altro periodo dei Pink Floyd. Ricordo bene la polvere, era granulosa e calda e dava una certa atmosfera al film. Era un’alternativa all’assenza del pubblico e ha funzionato bene. Credo che abbiamo fatto pochissimi tagli e ripetizioni di pezzi. È stato quasi come fare un concerto dal vivo.
Durante Careful with That Axe, Eugene ti si vede guardare in lontananza. A chi o cosa stavi prestando attenzione?
A Roger. Chi fa parte di una sezione ritmica fa così tendenzialmente: batterista e bassista viaggiano sempre insieme. Come mi ha detto un amico, il bello di una band è che, fondamentalmente, è composta da batteria, basso e una manciata di fenomeni da baraccone (ride).
Il girato di One of These Days in gran parte è concentrato su di te che suoni la batteria.
Ho sentito dire che avevano perso alcune bobine del girato, in particolare di quella canzone, e le uniche riprese rimaste erano quelle della camera puntata su di me, quindi sono stato protagonista più o meno per tutta la canzone. Ma magari non è così, forse Adrian ha pensato solo che ero bravissimo.
Cosa pensi quando nel film ti vedi coi baffi e la maglietta con la farfalla arcobaleno, nelle scene girate a Parigi?
È imbarazzante, ma almeno avevo la maglietta addosso (ride). È quello che succede, prima hai un certo aspetto, poi invecchi e finisci per sembrare il contabile del tour.
Due dei pezzi che avete suonato a Pompei, Echoes e One of These Days, erano nuovi all’epoca, perché sono in Meddle che avevate appena finito di registrare. Com’era l’umore della band in quel momento?
Eravamo sicuri di noi stessi. Grazie soprattutto ai Beatles, le case discografiche avevano improvvisamente capito che il processo creativo funzionava meglio se non si intromettevano. È emblematico il fatto che Sgt. Pepper sia stato registrato mentre noi eravamo nello Studio 3, in fondo allo stesso corridoio (a registrare The Piper at the Gates of Dawn, nda). Ha portato a un atteggiamento completamente diverso nei confronti della musica che si fa in studio e che poi si consegna alla casa discografica.
In One of These Days su Meddle dici la famosa frase “One of these days I’m going to cut you into little pieces”. Sei tu anche nel film?
Abbiamo usato una versione registrata, forse la stessa del disco. Veniva dal banco mixer: il nostro road manager sapeva quando inserirla o forse gli veniva segnalato quando farlo. Di certo non l’ho detta io dal vivo.
L’hai scritta tu quella battuta?
Non ricordo se è stato Roger a inventarla o se l’ho fatto io. Potrei suggerire che la paternità potrebbe essere divisa tra noi due. Per ora me ne prendo io il merito, poi Roger dirà la sua.

Roger Waters e il gong. Foto: Sony Music Entertainment
Che mi dici dell’interesse di Roger Waters nei confronti dei gong?
È chiaramente un interesse insano, non riusciva a farne a meno.
Com’è che i Pink Floyd hanno sempre investito tanto nella creazione di grandi spettacoli live?
Abbiamo deciso fin dall’inizio che avremmo fatto qualcosa di più interessante che non fosse stare semplicemente a suonare sul palco. Anche ai tempi di Syd avevamo un lightshow, olii su diapositive, un’illuminazione particolare del palco. A Pompei era sufficiente essere lì, in quel posto.
Dopo Ummagumma, un doppio con registrazioni in studio e live, il film di Pompei è stato l’unico documento ufficiale dal vivo della band fino agli anni ’80. Perché?
Credo che non ci rendessimo conto che riprendere tutto era una buona idea. Forse perché dal film non abbiamo guadagnato nulla. È un vero peccato che non abbiamo investito un po’ di più per fare qualcosa di equivalente con The Dark Side of the Moon.
Alcune parti del film sono dedicate alle session di The Dark Side of the Moon ed è interessante vedervi al lavoro su un nuovo album.
Una sequenza molto bella è quella in cui Roger mostra come utilizzavamo il VCS 3 (il synth usato per On the Run, nda), era un piccolo tutorial che spiegava come funzionava la macchina e come la stavamo usando.
Nella film sono incluse anche delle canzoni che avete girato in Francia, tra cui Mademoiselle Nobs, con un cane come cantante. L’avevate già fatto con Seamus. Quanto spesso vi è capitato di registrare con dei cani?
Probabilmente è stata una di quelle situazioni in cui Adrian ha detto: «Sentite, c’è qualcos’altro che potremmo filmare?». E il cane era lì. È buffo se si pensa al cane, perché difficilmente si riesce a spiegargli cosa vorresti fargli fare… a meno che non sia un cane molto, ma molto intelligente.
Un paio di anni fa ti sei esibito al Teatro Grande di Pompei con la tua band, i Saucerful of Secrets. Com’è stato tornarci?
La città era in fermento per la nostra presenza, è stato molto bello e mi hanno fatto cittadino onorario. Spero che significhi che posso parcheggiare dove voglio, se ci torno. Comunque è sempre divertente lavorare in Italia, il pubblico è molto caldo. È stato piacevolissimo, perché per gli ultimi 50 anni hanno continuato a essere entusiasti di quella cosa. Pompei non è famosa solo per il vulcano, lo è anche per i Pink Floyd che sono stati lì senza le magliette addosso.
Riportare il live a Pompei nelle sale cinematografiche è la prima grande iniziativa da quando la Sony ha acquistato il catalogo dei Pink Floyd. Hai delle aspettative su cos’altro potrebbero fare?
No, ma penso che vendere il catalogo sia stata una buona idea. Credo che Sony lo gestirà meglio di noi, noi perderemmo troppo tempo a discutere. Devo ancora capire come funziona esattamente, ma al momento penso sia una buona cosa.
È stato strano attribuire un valore alla tua musica, quando l’avete venduta alla Sony?
Be’, sì, perché non pensi mai che abbia un valore del genere, davvero enorme. Ma ho paura che assisteremo a un vero e proprio declino della musica per via dell’AI, con sempre più persone che cercano di evitare di pagare diritti di qualunque tipo. Sono tempi duri soprattutto per i musicisti giovani che devono trovare il modo per guadagnare qualcosa. Sono ben conscio del fatto che noi abbiamo vissuto gli anni d’oro in cui si vendevano i vinili, i CD, gli Stereo 8 e quant’altro.
Ti senti ancora regolarmente con David e Roger?
Non parlo con David da un po’. Sono stato alle Barbados e anche Roger era lì, quindi di recente ho visto molto più Roger che David.

Foto press
Cosa ne pensi dell’album Dark Side of the Moon Redux di Roger, la versione riregistrata del disco con arrangiamenti nuovi?
Mi è piaciuto molto. Se ne è parlato tanto, qualcuno ha detto che stava sfruttando l’album per l’anniversario e cose del genere, ma non è così. È stata più una cosa tipo: «Guardiamolo da una prospettiva diversa». Nessuno dirà: «Questo lo compro, quello non lo compro». Sono entrambi interessanti.
È interessante sentirlo declamare il testo di Time ora, alla sua età.
Credo che questa sia la cosa più sorprendente di certi testi di Roger: sembrano scritti dalla prospettiva di un ottantenne, non di un ventitreenne. Una canzone come Time sembrava scritta da qualcuno molto più vecchio. Notevole.
Qual è il futuro della tua band, i Saucerful of Secrets?
Non sappiamo cosa ci aspetta. Avendo esagerato un po’ l’anno scorso, eravamo tutti esausti. Ci piacerebbe fare altre cose, si tratta solo di trovare quelle giuste. Mi piace ancora molto suonare. La cosa più bella dei Saucers è stata piazzarmi dietro a una batteria a suonare sul serio e non limitarmi a stare al campanaccio, come ospite.
Che effetto ti ha fatto registrare Hey, Hey, Rise Up!, l’ultimo singolo dei Pink Floyd, qualche anno fa? È stato pubblicato per raccogliere fondi da devolvere a enti che aiutano l’Ucraina.
È stato molto bello farlo, per il modo in cui David ha condotto la cosa. Nella sua famiglia c’è una persona ucraina ed è stato bello esserci. Si è trattato di un pomeriggio di lavoro, niente di difficile, una cosa piacevole. E poi è stato fatto tutto in modo molto intelligente, prendendo una linea vocale a cappella e aggiungendo sotto la musica della band.
Ti manca far parte dei Pink Floyd?
Non proprio, anche perché, in un certo senso, fare questa intervista significa che ci sono ancora dentro. La sensazione di esserne parte c’è sempre, anche se magari sono una presenza impalpabile. Ma non penso: «Oh, quanto vorrei poter tornare a suonare al Soldier Field» o roba del genere. Sono orgoglioso di ciò che abbiamo fatto e ora mi piace occuparmi della nostra storia.

Nick Mason. Foto: Sony Music Entertainment
Sei soddisfatto del lascito dei Pink Floyd?
Non so bene cosa intendi con la parola soddisfatto. Avremmo potuto fare di più, ma se avessimo fatto di più forse non sarebbe stato così bello. Come ho detto, mi spiace che non sia stato filmato il tour di Dark Side. Se potessimo rifare tutto da capo, penso che probabilmente avremmo dovuto prenderci più tempo e passare più tempo a suonare Dark Side dal vivo, invece di tornare subito in studio per fare Wish You Were Here. Siamo stati tanto tempo in studio e non ci siamo divertiti granché, mentre avremmo potuto dedicarci di più a certe cose, suonare di più dal vivo e filmare il tutto.
Quest’anno ricorrono i 50 anni di Wish You Were Here. Pensi che Sony farà una bella ristampa?
Posso praticamente garantire che la Sony farà qualcosa. Ormai siamo al punto che ogni anno c’è l’anniversario di qualche album e possiamo andare avanti così. Festeggeremo il 75° anniversario di Dark Side, anche se dubito che arriverò a celebrarne il centesimo. Ma mai dire mai.
Ci puoi provare, no?
Assolutamente.