Pivio e Aldo De Scalzi: «L’omologazione è diventata un valore di riferimento» | Rolling Stone Italia
Musicanti con la pianola

Pivio e Aldo De Scalzi: «L’omologazione è diventata un valore di riferimento»

Abbiamo chiacchierato con i due compositori, tra i più versatili e longevi del panorama artistico italiano, a partire dal doc di Matteo Malatesta. Tra AI, i problemi di diritti, il trattamento delle maestranze e il futuro: «Sempre più musicisti cercano in tutti i modi di aderire al mainstream»

Pivio e Aldo De Scalzi: «L’omologazione è diventata un valore di riferimento»

Aldo De Scalzi e Pivio

Foto: Pietro Pesce

Pivio e Aldo De Scalzi sono sicuramente tra i compositori più versatili e longevi del panorama artistico italiano. Spaziando tra cinema, televisione e teatro hanno costruito nel tempo una cifra stilistica riconoscibile e perennemente in evoluzione non attingendo unicamente dagli stilemi sinfonici, ma sperimentando nuove forme di sonorizzazione quando ancora tutto questo non esisteva nella musica per immagini. Dal loro esordio con Il bagno turco di Ferzan Özpetek fino alla stretta collaborazione con i Manetti Bros., il loro percorso testimonia quanto il rapporto tra regista e compositore sia determinante nell’identità di un’opera.

Partendo dal documentario incentrato sulla loro carriera – Musicanti con la pianola, regia di Matteo Malatesta – i due compositori riflettono sull’importanza di questi legami creativi, sulle difficoltà di mantenerli nel panorama attuale e su come il mercato stia influenzando le nuove generazioni di musicisti, che ancora oggi cercano di formare e guidare grazie alla creazione dell’Associazione Compositori Musica da Film (ACMF), che ogni giorno si batte per una giusta rappresentazione del compositore nel cinema italiano contemporaneo.

🎞️ Musicanti con la pianola | Regia di Matteo Malatesta | Creuza, Rai Cinema | Trailer 2025

Mi è piaciuto molto che, fin dall’introduzione del vostro documentario, venga dato spazio al racconto da parte dei registi con cui avete collaborato per gran parte della vostra carriera, come nel caso di Ferzan Özpetek. Nei vostri film emerge chiaramente quanto il rapporto tra un compositore e un regista può essere importante. Da dove nasce l’idea di partire proprio dal racconto di un regista? E qual era il vostro obiettivo con questo documentario?
Pivio: Curiosamente, l’intervento di Ferzan è stato l’ultimo a essere registrato, perché il film ha avuto una gestazione piuttosto lunga, oltre due anni. Comunque abbiamo scelto di partire proprio da lui perché è stato il primo regista con cui abbiamo iniziato la nostra carriera di compositori per immagini, ed è interessante come questo sia diventato fortemente simbolico: cominciare con la persona che, in qualche modo, ha dato il via a tutto ciò che è successo dopo. Con Özpetek abbiamo lavorato ai suoi primi due film (Il bagno turco e Harem Suare), ma successivamente la collaborazione si è interrotta, anche se lui stesso ammette nel documentario: “Chissà, forse in futuro potrebbe succedere nuovamente, chi può dirlo… è qualcosa che potrebbe emozionarmi”. Credo che lo stesso sarebbe sia per Aldo che per me. Oltretutto il documentario termina proprio con la ripresa del tema principale del Bagno turco, a chiudere perfettamente tutto l’arco narrativo della nostra carriera.
Aldo: L’idea di base era proprio questa: volevamo partire dall’inizio della nostra carriera come compositori di colonne sonore, perché è da lì che tutto ha avuto origine. Era giusto iniziare con Ferzan in modo che fosse l’inizio simbolico del documentario, così come lo era stato della nostra carriera.

Il dialogo con Alessandro Gassmann nel doc. Foto: Silvana Fico

Guardando alla vostra esperienza, come vi spiegate il fatto che oggi sia più difficile trovare grandi simbiosi tra regista e compositore? In passato era qualcosa di molto comune: pensiamo al legame tra Herrmann e Hitchcock, o a quello tra Morricone e Leone. Oggi, forse, questa continuità si ritrova più nel cinema internazionale, mentre in Italia, nonostante le grandi collaborazioni del passato, sembra essere diventato qualcosa di sempre più raro. Qual è la vostra opinione a riguardo?
A: Sicuramente oggi possiamo ritenerci quasi un’anomalia, perché con i Manetti Bros. e Alessandro Gassmann abbiamo sempre avuto un rapporto molto stretto, quasi familiare. Questo ci rende una squadra solida. Il problema che sollevavi nasce dal fatto che un tempo questa simbiosi tra regista e compositore era molto più naturale. Quando lavori a lungo con un regista, impari a capire cosa effettivamente vuole mostrare attraverso la musica e si conseguenza anche lui impara a capire come coinvolgerti perfettamente nella composizione della colonna sonora. Adesso, invece, mantenere questo legame è più difficile perché ci sono troppi passaggi intermedi – produzione, editor e altre figure – che spesso finiscono per ridurre lo spazio dedicato alla musica nel film.
P: Penso che siamo stati fortunati a iniziare la nostra carriera in un periodo in cui il meccanismo produttivo ancora permetteva di costruire questo tipo di rapporto artistico. Oggi, invece, ho la sensazione che l’accelerazione dei tempi di realizzazione e il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di persone nelle decisioni – come diceva Aldo – abbiano reso tutto più complicato. I broadcaster, per esempio, sono diventati un punto di riferimento molto forte, e questo ha modificato le dinamiche di produzione. Tutti questi elementi creano una sorta di “rumore di fondo”, rendendo più difficile instaurare un legame stabile e continuativo. Recentemente abbiamo avuto l’occasione di lavorare con nuovi autori, con cui abbiamo costruito ottimi rapporti, ma senza mai riuscire a raggiungere quella continuità che invece abbiamo avuto in passato. Credo che sia proprio il momento storico a rendere più difficile questo tipo di connessione.

Il dialogo con i Manetti Bros. in una scena del film. Foto: Silvana Fico

Secondo voi questo problema non potrebbe essere anche di natura culturale? Forse è legato a una carenza di conoscenza da parte dei registi e degli autori emergenti nel valorizzare il fine per cui si compone una colonna sonora…
P: Spesso ho l’occasione di incontrare giovani compositori che si affacciano al mondo della musica per immagini, anche perché, essendo presidente dell’ACMF (Associazione Compositori Musica da Film) ho modo di conoscere sia i professionisti affermati che le nuove leve. Quello che noto è che, sebbene ci siano autori capaci di imporsi con una propria estetica, molti di loro tendono a essere succubi del mercato. Spesso si limitano a seguire quello che funziona in quel momento, senza riuscire a uscire da questa logica. Nell’immediato può sembrare una scelta vincente, ma a lungo andare si rischia di perdere una propria identità artistica e, di conseguenza, di essere facilmente sostituiti. C’è, in un certo senso, una mancanza di coraggio. E questo è paradossale, perché le nuove generazioni sono probabilmente più preparate di quanto lo fossimo noi all’inizio. Hanno accesso a una quantità enorme di informazioni che però spesso non riescono a sedimentare attivamente. Noi abbiamo avuto il tempo di far diventare l’esperienza e gli ascolti parte del nostro linguaggio musicale, mentre loro vengono travolti da un flusso continuo di stimoli e rischiano di bruciarsi rapidamente. Ne parlavamo qualche sera fa anche in merito all’industria musicale: quanti artisti emergenti effettivamente riescono ad affermarsi? È lo stesso meccanismo. La pressione a essere costantemente attivi e a rientrare in un certo standard porta a un’omologazione che finisce per spegnere quella forza iniziale che invece dovrebbe essere coltivata.
A: Non per fare il boomer della situazione, ma credo che questo sia un problema attribuibile alla nascita del mainstream. Se guardiamo le classifiche di quando Pivio e io eravamo più giovani, il panorama era completamente diverso. Ricordo bene che, ai nostri tempi, quando avevi una band e provavi in garage o nelle cantine, l’obiettivo era trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che non fosse mai esistito prima. Certo, era un’utopia, perché alla fine eri inevitabilmente influenzato dal tuo background musicale, ma c’era una vera ricerca per arrivare a realizzare qualcosa di effettivamente originale. Oggi, invece, vedo sempre più musicisti che cercano in tutti i modi di aderire al mainstream. Prendiamo l’indie: un tempo era un mondo parallelo al mercato discografico, una nicchia con un’identità propria, adesso, invece, sembra che l’aspirazione massima di chiunque – anche del trapper più sconosciuto – sia partecipare a Sanremo l’anno successivo. È come se si fosse radicata l’idea che l’unico modo per emergere sia entrare nel circuito mainstream. Eppure, paradossalmente, oggi grazie al web ci sono infinite possibilità di farsi conoscere senza dover passare necessariamente da quel percorso. È una contraddizione che fa riflettere.

Quindi la stessa problematica la riscontrate anche per i compositori di musica per immagini?
P: In Italia ci sono sicuramente autori che hanno una struttura musicale molto forte e riescono a mantenere la propria integrità, ma purtroppo sono pochi. Oggi ci sono molti più compositori che si occupano di musica applicata alle immagini rispetto al passato, e questo è positivo. Tuttavia, ci sono anche molti che, pur avendo le capacità per imporsi in modo diverso, si lasciano assorbire dai meccanismi che sembrano essere vincenti al momento. Finiscono per seguire una strada che, alla fine, li rende più conformi e meno originali.
A: Tornando alla tua domanda precedente, è chiaro che con l’influenza dei broadcast, degli editor e di tutte le figure coinvolte nei processi produttivi, c’è una tendenza a essere appiattiti, a seguire un po’ la corrente del mercato. È difficile mantenere un’identità forte in un contesto del genere. Certo, non è che questi meccanismi abbiano sempre delle verità universali, ma alla fine ciò che resta sono i creativi, le idee originali. Quello che conta è riuscire a sorprendere, a dire “guarda che idea ha avuto quello”, a pensare fuori dagli schemi. Se succede, è perché quella persona ha avuto la libertà di pensare in modo diverso, non perché stava seguendo il trend.

Pivio e Aldo De Scalzi nel doc. Foto: Press

Voi siete stati senz’altro dei compositori di genere, soprattutto per il lavoro che avete portato avanti con i Manetti, ispirato a un cinema fortemente identitario, legato soprattutto ai poliziotteschi e ai primi crime all’italiana degli anni ’70. Oggi, però, sembra difficile ricreare quel tipo di cinema. Secondo voi, cosa manca per farlo? E, rispetto a come avete iniziato, perché sembra esserci una mancanza di quel coraggio nel cinema contemporaneo che permetta anche al compositore di essere altrettanto audace?
P: Come dicevamo, il problema principale è l’omologazione, che è diventata un valore di riferimento. Ma il motivo per cui c’è questa ricerca nell’omologazione più sfrenata è un discorso molto complesso, che tocca aspetti legati a molti fattori non solo artistici. Siamo in un periodo segnato da un capitalismo che ha permeato tutti gli ambiti, incluso quello musicale. È un fenomeno che dura ormai da anni, e questi sono i risultati di un lungo processo di disastri annunciati. Detto questo, rimango comunque ottimista. Ho a che fare con tanti giovani compositori, e credo che ci sia molto talento. Il problema è che spesso questi ragazzi, seppur dotati, sono troppo concentrati su risultati facili e immediati. Se riusciranno a superare questa mentalità, potremmo davvero vedere delle cose interessanti in futuro.

Parlando di ACMF, quando è nata e qual è il suo ruolo nell’accompagnare chi si avvicina a questo mestiere? Come contribuisce alla formazione di nuovi compositori, dando loro la possibilità di comprendere i pregi e i difetti dell’industria anche rispetto alla preparazione pratica e teorica per chi vuole intraprendere questo mestiere?
P: Un aspetto che posso raccontarti, che può sembrare apparentemente banale, è che abbiamo una chat interna dove partecipano sia i “grandi vecchi” che i “piccoli giovani”. È uno spazio di condivisione continua, dove spesso arrivano domande, suggerimenti e richieste di aiuto. Non è una cosa da sottovalutare, perché c’è un continuo scambio di informazioni tra chi ha più esperienza e chi sta appena iniziando. Quando abbiamo creato il primo nucleo dell’ACMF e ci siamo rivolti al maestro Morricone per coinvolgerlo come Presidente Onorario, cosa che è tuttora, lui stesso ci disse che era incredibile quello che stavamo facendo, qualcosa che lui stesso aveva provato a realizzare per anni. Il nostro obiettivo era creare un punto di riferimento che permettesse a tutti di partecipare a un progetto comune. La chat stessa è un esempio di come si discuta e si impari tanto, grazie alla presenza di persone con esperienze diverse. Ma non è solo questo: organizziamo corsi e momenti educativi in tutta Italia, con molti dei nostri soci che gestiscono approfondimenti nei conservatori e nei festival. Abbiamo creato una rete solida, tanto che ora sono i conservatori a contattarci per chiedere collaborazioni e partnership, una vera rivoluzione.

Pivio e Aldo De Scalzi con il regista Matteo Malatesta. Foto: Silvana Fico

Mi sono sempre chiesto perché, ad esempio, al Centro Sperimentale di Cinematografia non esista un corso specifico per la musica per immagini. Penso sia una grande pecca, sia a livello formativo generale, sia per gli studenti di regia, che non avranno mai occasione di confrontarsi con le esigenze di un compositore, e forse nemmeno con i suoi limiti. Per questo volevo chiedervi quanto sia importante, oggi, stabilire rapporti con i conservatori e con le scuole di cinema?
P: Ad esempio noi di ACMF, in collaborazione con il Festival Creuza de Mà che si svolge sull’Isola di Carloforte in Sardegna, stiamo già creando un prototipo di quello che descrivi tu. Lì, infatti, si crea una connessione fortissima tra registi, montatori del suono e compositori. È un laboratorio che vede ACMF fortemente coinvolta, ed è esattamente questo il tipo di iniziative che vorremmo continuare a promuovere attraverso le nostre attività educative.
A: C’è sempre stata un sorta di pregiudizio da parte del mondo accademico verso la musica per immagini. Mi sembra che Stravinskij, ad esempio, dicesse che la migliore musica da film fosse quella che non si poteva sentire. Lo considerava quasi un atto dispregiativo, fare in modo che la propria musica fosse al servizio di un altro. Però, con il passare degli anni e l’evoluzione – o involuzione – del mercato musicale, posso dire con certezza che per noi è stata una liberazione. Certo, ci sono schemi nel nostro lavoro, ma sono decisamente meno rigidi rispetto a quelli che si trovano nel pop. Nel nostro campo abbiamo la libertà di lavorare con quasi tutte le risorse a disposizione, senza vincoli così severi. E poi c’è un altro aspetto da sottolineare: anche quando il conservatorio ha cercato di inserire qualcosa sulla musica applicata alle immagini, si è trattato principalmente di aspetti tecnici. In realtà, la ACMF ha una preparazione più completa, non solo sulla scrittura della musica per immagini, ma anche sul rapporto con i registi, con i montatori, sull’uso dei programmi e su tutti gli altri aspetti fondamentali del processo, dove la nostra associazione gioca un ruolo cruciale.

Voi come vedete l’arrivo di tanti artisti provenienti dal mondo più mainstream nella musica per immagini? Oggi è abbastanza comune trovare in alcuni film colonne sonore firmate da artisti che, per associazione, non legheremmo subito al mondo del cinema. Penso, ad esempio, ai Subsonica che hanno vinto il David di Donatello per Adagio di Stefano Sollima, o a Colapesce che quest’anno ha firmato la musica di Iddu – L’ultimo padrino, così come Iosonouncane per Berlinguer – La grande ambizione. Lo vedete come un aspetto positivo, o c’è anche una parte negativa, magari legata al fatto che l’arrivo di questi nomi più noti possa spingere a sceglierli più per una questione di marketing che per la loro qualità musicale?
A: Sicuramente bisogna fare delle distinzioni. Molto spesso, come hai detto tu, c’è la ricerca del nome, di un brand riconoscibile, ma mi viene in mente anche un aneddoto che mi raccontò un produttore che un giorno mi disse: “Sì, ho chiamato Dalla per la colonna sonora, ma è stato un inferno. Dalla non è un compositore di colonne sonore, lui aveva le sue idee, faceva la sua canzone, il suo tema, ma il percorso musicale di un film è ben diverso”. Quella è la colonna sonora, non è solo la sigla del film. La colonna sonora è un lavoro che segue il ritmo di un film che dura due ore, ed è fatto di momenti che evolvono. La musica deve rispondere a ciò che accade nel film, non è solo una questione di scrivere una canzone. Detto questo, sì, spesso si cerca un nome conosciuto, ma non sempre questo porta alla qualità. Però ti faccio anche un altro esempio, come nel caso dei Subsonica. Il loro lavoro per Adagio è stato fatto con un approccio molto filmico e risulta ben riuscito. Potrebbe anche esserci la volontà, da parte di alcuni artisti del mainstream, di esplorare soluzioni alternative, forse perché, come diremmo noi, si sono un po’ stufati di seguire le solite regole del mercato, dove tutto è troppo strutturato: la canzone deve durare tre minuti, l’inciso deve arrivare dopo 40 secondi. A un certo punto, queste regole stancano.
P: Nel documentario, Mauro Pagani dice una cosa che trovo veramente molto interessante e vera: ogni tanto, uscire dai canoni tradizionali può essere liberatorio. In effetti, non c’è una verità assoluta, come diceva Aldo. Il lavoro che hanno fatto i Subsonica per il film di Stefano Sollima, ad esempio, era davvero notevole e ha funzionato molto bene. Dipende molto dagli obiettivi che uno si pone: se l’obiettivo è mettersi a disposizione di un’opera filmica, allora quella è la vera sfida. La musica per il cinema non può essere solo una vetrina personale, ma deve adattarsi al film, che è il centro dell’attenzione. Il film richiede un continuo scambio di idee tra tutti i creatori, e alla fine il risultato è frutto di queste commistioni. Ovviamente se chi viene dal pop applica la logica del “sono io il centro del mondo”, potrebbe funzionare una volta, ma dopo un po’ si consuma, come un cerino che brucia. Devo dire che a volte provo fastidio nel vedere che solo la partecipazione di artisti conosciuti del pop porti alla luce il tema delle colonne sonore, mentre quelli che le fanno in modo più artistico e professionale magari non ricevono la stessa attenzione. Ma alla fine va bene così, non mi pongo troppo il problema.
A: Però permettimi di aggiungere una cosa. È verissimo quello che dici, ed è successo anche a noi. Ad esempio, abbiamo lavorato sul film di Alessandro D’Alatri, Casomai, e c’era una canzone di Elisa. Esce l’articolo e la colonna sonora viene attribuita a Elisa. Poi facciamo Diabolik, e l’articolo parla di Manuel Agnelli come autore della colonna sonora, nonostante fosse l’autore solo della canzone originale. Questo, devo ammettere, ci dispiace un po’, perché spesso il lavoro dietro la colonna sonora non viene riconosciuto come dovrebbe. Però, d’altra parte, hai citato due esempi, Subsonica e Colapesce, che nel mondo del mainstream hanno un grande valore creativo. Non sono semplicemente due cantanti messi lì a caso, ma artisti che portano una cultura musicale anche nell’ambito del cinema. E questo fa la differenza: loro sono esempi specifici di artisti che riescono a coniugare il loro background musicale con il linguaggio cinematografico.
P: Infatti, la differenza sta nel fatto che loro, Subsonica e Colapesce, sono due casi abbastanza specifici. Pur essendo artisti che da tanto tempo fanno parte del mondo del pop, in qualche modo sono delle “schegge impazzite” anche in quel contesto. E questa caratteristica funziona, perché hanno nel loro DNA il desiderio di non seguire per forza gli schemi preconfezionati, una qualità che è fondamentale anche per un buon compositore di colonne sonore. Guarda cosa è successo agli ultimi Oscar: hanno vinto compositori nuovi, alcuni quasi sconosciuti, ma che sono riusciti a imporsi con una forte personalità. La colonna sonora di The Brutalist composta da Daniel Blumberg, solo al suo secondo lavoro nel mondo della musica per immagini, è straordinaria, così come quello dello scorso anno di Jerskin Fendrix per Povere creature! Alla fine, quello che conta è la personalità. Se nel mondo del pop ci sono artisti con una forte personalità, è probabile che possano fare bene anche nel campo della musica per le immagini, a condizione che si mettano a disposizione del film.

Lo scorso anno, durante la consegna dei David di Donatello, ci sono state alcune complicazioni, come la rinuncia del compositore Franco Piersanti a partecipare alla premiazione come candidato per il film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire. Anche voi, come ACMF, avevate sollevato delle questioni riguardo al trattamento delle maestranze – anche alle ultime nomination nei giorni scorsi – denunciando una sorta di dissociazione dalla realtà che i David continuano a mantenere. In vista di quello che accadrà nei prossimi mesi, sperate che ci siano dei cambiamenti, magari una maggiore considerazione da parte dell’Accademia per il vostro ruolo?
A: La ACMF serve proprio a questo: a fare blocco nell’affrontare i problemi come associazione. Se io come Aldo De Scalzi o Franco Piersanti decidessimo singolarmente di rinunciare o di non partecipare a certe iniziative, non credo cambierebbe molto. Ma la forza della ACMF sta nel fatto che raccoglie duecento professionisti del settore. Affrontare una problematica in modo corporativo, come gruppo, ha un peso molto maggiore.
P: La posizione che abbiamo preso lo scorso anno è abbastanza chiara. Con l’Accademia c’è sempre stata una sorta di odio e amore. Spero che nel prossimo futuro ci siano cambiamenti significativi, anche se non sarà facile. Perché, a meno che non ci sia un cambiamento statutario, la questione rimarrà complessa. Lo statuto dell’Accademia è abbastanza problematico, in quanto parte dal presupposto che la gestione di tutta l’Accademia derivi dall’industria e da due figure autoriali che non completano la partecipazione di tutta la filiera. La visione degli sceneggiatori e dei registi, infatti, è parziale. Non è mai stato riconosciuto dall’Accademia che i compositori sono autori del film, e questo per noi è un problema grave. Ma credo anche che bisognerebbe allargare la visione dell’Accademia per includere tutte le figure artistiche che contribuiscono alla realizzazione di un film, come accade in molte altre accademie. Il David, purtroppo, è un po’ un elemento spurio da questo punto di vista. So che ci sono dei cambiamenti in corso e preferisco aspettare prima di vederli concretizzarsi. Non mi piace parlare di intenzioni, preferisco parlare di fatti. Noi abbiamo messo a disposizione la nostra professionalità per fare sì che questo cambiamento avvenga, ma vedremo se ci saranno davvero le condizioni. Personalmente me lo auguro, ma è tutto ancora da verificare.

Digital Records. Foto: Silvana Fico

Ma se questi presupposti non dovessero effettivamente concretizzarsi, sareste pronti anche a scindervi dall’Accademia?
P: Sinceramente adesso non posso aggiungere altro, ma sicuramente vorremmo che finalmente venisse consolidato un riconoscimento che nasca non solo dal buon senso, ma anche da una legge specifica, la 633, che regola l’autorialità in ambito cinematografico. In quella legge è chiaramente scritto chi sono gli autori di un film. Ti porto un esempio pratico per far capire meglio perché desideriamo il riconoscimento della nostra posizione. Quando ci sono problematiche legali – e può capitare, ad esempio, che una persona faccia causa a un film perché si riconosce in un personaggio che non viene rappresentato positivamente – chi viene chiamato a rispondere? Il regista, lo sceneggiatore e il compositore. Non vengono mai esclusi. Il compositore è chiamato a rispondere legalmente, perché è considerato un autore del film. Questo è un aspetto molto concreto, che dimostra l’importanza di riconoscere la nostra figura come parte fondamentale della creazione di un film. Un caso specifico che posso raccontare riguarda un autore molto stimato, non solo in Italia ma anche all’estero, che si è trovato coinvolto in una causa penale legata a un film. Nonostante lui non avesse responsabilità diretta, si è ritrovato a rischiare enormi danni economici. In questo caso, purtroppo, è stato l’unico degli autori del film ad essere rimasto coinvolto nella causa. Non possiamo essere considerati utili solo quando ci sono problemi legali, è una questione di equità e di riconoscimento del nostro ruolo. Ti faccio un altro esempio: Pasquale Catalano, compositore di Ferzan Özpetek, è stato chiamato a presentarsi in tribunale per una causa legata al film Allacciate le cinture. Quando gli è stato chiesto di rispondere, Pasquale ha sottolineato al giudice che lui non era coinvolto nella scrittura della sceneggiatura, ma il giudice ha risposto che, essendo compositore del film, ne era allo stesso tempo autore e quindi ugualmente coinvolto. Questo tipo di situazione dimostra quanto sia fondamentale rivedere e riconoscere la pienezza del nostro ruolo, non solo da un punto di vista legale, ma anche culturale. Questa è una delle tante battaglie che stiamo portando avanti con ACMF.

Infatti di recente avete firmato quasi all’unanimità l’inserimento di un articolo nel nuovo statuto che mette al bando l’uso dell’AI generativa nella produzione musicale degli iscritti. Secondo voi, l’AI rappresenta effettivamente un limite per il futuro prossimo della musica per immagini?
A: Sì, è un tema estremamente delicato. È difficile assumere una posizione netta perché le variabili in gioco sono tante. Prendiamo ad esempio l’Auto Tune: per anni è stato demonizzato, ma in realtà esiste da decenni ed è stato utilizzato in modo creativo già molto tempo fa. Non è lo strumento in sé a essere un problema, ma il modo in cui viene impiegato. Lo stesso discorso vale per l’intelligenza artificiale: di per sé non è un “demone”, ma il rischio è che venga usata per sostituire la creatività umana anziché supportarla. Noi, come ACMF, ci siamo mossi proprio per affrontare questa questione e sensibilizzare sul tema, cercando di proteggere il ruolo dei compositori e garantire che la tecnologia sia un’opportunità, non una minaccia.
P: Abbiamo fatto una votazione interna, in quanto la ACMF è un organo democratico: ogni decisione viene discussa e condivisa precedentemente alla votazione, soprattutto su temi così complessi e ambigui come l’intelligenza artificiale. Aldo, io e tutti gli altri compositori abbiamo già utilizzato per anni strumenti che oggi si potrebbero assimilare a forme di AI, anche se non li definiamo tali. Diverso è il discorso quando si parla di AI generativa, che si alimenta con dati spesso acquisiti senza il consenso degli autori per generare nuove composizioni. Qui il tema si fa decisamente più complesso. Non è una questione di essere contro il progresso tecnologico, ma il fatto che l’AI generativa possa sostituire la creatività umana, riducendo lo spazio per l’intervento dell’artista. Questo è pericoloso non solo per la musica, ma per ogni forma d’arte. In ACMF la posizione è chiara: la maggioranza è contraria all’uso dell’intelligenza artificiale generativa nella musica per immagini, e questo non per una questione di retroguardia o autodifesa, ma perché riteniamo che l’arte debba restare un’espressione umana. Abbiamo quindi inserito nel nostro statuto un articolo che vieta ai membri di utilizzare AI generativa nella composizione. Se qualcuno decidesse di farlo, non potrebbe più far parte della ACMF. Non possiamo permettere che il mercato accolga prodotti creati con un semplice prompt su un computer, senza alcun intervento umano. Già oggi esistono software capaci di generare musiche che seguono le logiche di un compositore, individuando i climax emotivi di un film. E questa è una deriva che va affrontata subito. La questione, in fondo, è sempre la stessa: lo strumento non è mai il problema, è l’uso che se ne fa. L’Auto Tune, per esempio, può essere un valore aggiunto se impiegato in modo creativo, ma se viene usato solo per coprire carenze tecniche evidenti, allora è un altro discorso. Lo stesso vale per l’intelligenza artificiale: se serve a creare bellezza e ad ampliare le possibilità espressive, può avere un senso. Se invece diventa un mezzo per eliminare l’intervento umano, allora è una minaccia per l’arte e la cultura stessa.