Peppe Vessicchio vuol dire Sanremo. E infatti, da un paio d’anni la sua assenza dalla conduzione dell’orchestra del Festivàl stride più di uno strumento scordato. Come tutte le stelle, però, l’attrazione gravitazionale del Maestro è reale, e la kermesse non può fare a meno di lui. Anche se, naturalmente, in una chiave diversa. Proprio per questo, mentre Vessicchio è impegnato nella registrazione di alcuni contenuti per Amazon Music e Twitch abbiamo voluto parlare con lui di un aspetto meno noto al grande pubblico: la sua passione per il cibo. Non solo, infatti, Vessicchio è un gourmand da manuale, ma produce anche vino e, da qualche anno, dedica parte del suo tempo a una ricerca che unisce cibo e musica, oggetto, mentre scriviamo, di studi scientifici non ancora conclusi.
Va da sé, non potevamo esimerci dal chiedere al Maestro (lo ricordiamo, partenopeo) qualche consiglio per mangiare bene, anzi, al bacio nella città ligure. Come tutte le conoscenze, però, partiamo da lontano. E cominciano dalle basi, cioè dalla tavola.
«Il primo ricordo legato al cibo? Be’, da bambino ero affascinatissimo dal venditore di mozzarelle e ricotta che girava per le vie di Napoli su una Cinquecento Giardiniera. La sua voce piena arrivava fino al quarto piano, dove abitavo. Potrei definirla una forma di canto, melodioso anche, una forma di piacere che ho subito associato a un altro star bene, quello provocato dal cibo». Nessuna memoria, però, sarebbe tale se mancasse la mamma: «Lei sapeva che volevo una passata di pomodoro quasi vellutata, e dentro, infatti, non ci trovavo mai né un semino né un pezzettino di pelle. Ci metteva molto amore. Ecco, credo che l’amore sia importante nelle preparazioni tanto che, a volte, ti fa sembrare più buono ciò che mangi».
Gli chiediamo se di cibo è più fruitore, o se si diletta anche ai fornelli: «Sono un rompiscatole, perciò mi adopero per sollevare le altre persone dalle responsabilità che scaricherei su di loro se dovessero prepararmi da mangiare», risponde sorridendo. Vessicchio, insomma, da buon direttore d’orchestra, preferisce fare da sé, specie quando si tratta dei suoi comfort food preferiti. Un esempio? Pasta e ceci, che a Napoli è tradizione, oppure pasta e zucca.
«Se in un piatto c’è di mezzo una tradizione, è importante che sia io a gestirla. Lo stesso vale per la genovese, che richiede moltissima cura». Qui il Maestro potrebbe sembrare esigente e radicale, ma in realtà, in ambito culinario, è di ampie vedute, soprattutto quando gli chiediamo se abbia un piatto preferito su tutti. «Anche se sono napoletano, non citerò un piatto tradizionale specifico. Mi piace variare ma, ecco, tutto ciò che è fatto con acqua e farina ha la precedenza». E un vino preferito da meditazione, magari prima di scrivere, ce l’ha? «Sarebbe meglio non bere prima di iniziare a comporre, perché bisogna essere concentrarti, bisogna “gonfiarsi” e sperare che la risposta arrivi quando cerchi ispirazione. Comunque, il Primitivo di Manduria, nella sua forma originaria e non addomesticata, ha una ricchezza che definirei inebriante: ne basta poco per partire e sognare».
Non è una domanda oziosa: oltre la retorica (“che sinfonia questo purè”), i parallelismi fra cibo e musica sono facili da ravvisare. «Ci sono diverse metafore che collegano i due mondi: il fascino di alcuni piatti sta nel loro equilibrio, così come avviene in molta musica. Quella sensazione di bilanciamento delle forme, del timbro». Ma non sempre dev’essere così: «A volte è bello ricevere anche qualche cazzotto in faccia, no? Come un solista che primeggia sull’intero accompagnamento», o, aggiungiamo noi, un sapore particolarmente audace e a tratti disturbante in un piatto.
«Altra cosa: anche nel cibo, analogamente alla musica, molto dipende dall’atteggiamento che si ha a tavola o in platea. C’è chi si abbandona ai consigli della casa e segue il percorso dello chef, o chi ha già un’idea precisa. Quando vado a un concerto, cerco di non avere mai aspettative, delegando la responsabilità a chi ho di fronte. Questo mi permette di scoprire cose nuove e di viverle con interesse. Credo che essere un gourmand sia essenzialmente questo». Atteggiamento che ci sentiamo di sposare, anche se oggi, con il racconto social che ci dà l’illusione di poter essere ovunque, a ogni momento, è davvero difficile partire senza aspettative su ciò che andremo a mangiare o ad ascoltare.
Non solo gourmand, però, o cuoco amatoriale. Da qualche anno, con il viticoltore abruzzese Pietro Iacobone, Vessicchio ha fondato Musikè, una cantina che di musica non parla solo nel nome. Il suono, infatti, è parte integrante del processo di produzione. «Tutto nasce da un momento di crisi personale. A un certo punto della vita arrivi al momento in cui non sai più come valutare il tuo percorso, se guardare solo alle copie vendute. Io, nel profondo, ho sempre sentito che dietro la musica c’era qualcosa di più. Ci sono arrivato quando gli obiettivi lavorativi non avevano più l’appeal di quando avevo venti, trent’anni. Durante questo momento critico, lessi una ricerca che affermava che le mucche avrebbero prodotto più latte ascoltando Mozart. Lì capii che poteva esserci qualcosa di più profondo, di fisico nella musica, dato dal movimento delle molecole nell’aria».
Ciò a cui Vessicchio fa riferimento è il cosiddetto Effetto Mozart, secondo cui l’ascolto della musica del compositore austriaco avrebbe aumentato le capacità cognitive di un campione di volontari. Se diversi studi supportano questa ipotesi, altrettanti vorrebbero smentirla. Vessicchio, comunque, s’interessa al tema, e comincia a studiarlo.
I benefici, secondo alcuni, non si limiterebbero al mondo animale: «Anche le piante, quando ascoltano musica, assumerebbero un atteggiamento più attivo e vigoroso». Partì, così, una sperimentazione in due serre a Copertino, provincia di Lecce, insieme al professor Stefano Mancuso, botanico e fra i più noti divulgatori mondiali sull’argomento. Vessicchio ci racconta di un avvenimento particolare: «Avevamo piantato lo stesso pomodoro in due serre diverse, creando le stesse identiche condizioni. L’unica differenza è che in una delle due serre diffondevamo musica da un normale impianto. Quando arrivò un attacco parassitario, chiedemmo all’agricoltore di non intervenire in nessun modo, mettendo a repentaglio il raccolto. Finito l’attacco, ci rendemmo conto dalle radici che i pomodori coltivati nella serra con la musica erano stati attaccati dal parassita, ma avevano resistito all’attacco. È come se la musica avesse fornito loro degli anticorpi naturali».
Chiunque avrebbe reagito con scetticismo. Vessicchio, invece, ha alzato la posta. «Abbiamo replicato l’esperimento nel campo del vino, con la mia cantina in Abruzzo, con la Barbera ReBarba della Cantina Post dal Vin in Piemonte e, a breve, cominceremo con un Negramaro di Cantina Marulli. Anche lì i test empirici, svolti con assaggiatori e giornalisti, hanno dimostrato un miglioramento del prodotto. Così come nell’olio extravergine d’oliva, dove si riscontra un innalzamento del punto di fumo». Se non bastasse, Vessicchio aggiunge che «collaboriamo con un laboratorio per avere un’ulteriore prova di validità del metodo FREman, così come l’abbiamo chiamato, e su altri prodotti, tipo la pasta». Ciò che Vessicchio intende dimostrare è che il suono alteri effettivamente la struttura molecolare della maglia glutinica della pasta, riducendo la dispersione dell’amido in cottura, fornendo un prodotto più sano, che affronti meglio la cottura.
Arrivati a questo punto, tante le domande che sorgono circa l’effettivo funzionamento di questo metodo. «Si può utilizzare sul seme fino al prodotto finito. Utilizziamo la musica di Mozart, ma anche composizioni che creo ad hoc: negli anni ho analizzato la sua musica e ne ho colto il “codice” alla base». Vessicchio non è il solo ad aver sperimentato metodi simili per indurre la “catalisi ristrutturativa” nel vino: in Italia l’ha fatto la cantina Rocche dei Manzoni, unendo un metodo classico con otto anni sui lieviti a, ogni notte, tre ore di composizioni di Ezio Bosso. L’avvocato Carlo Cignozzi, invece, ha portato Mozart direttamente in vigna per il suo Brunello di Montalcino.
È bene ricordare che non esistono ancora studi convincenti a supporto di questo metodo. Aspettiamo, quindi, fiduciosi i risultati degli studi di Vessicchio e soci, e ci ripromettiamo di tornare a raccontarvi gli ultimi sviluppi.
Quello che possiamo sottolineare, è che il Maestro non interpreta questo metodo come mero strumento tecnologico, ma anche come un modo per recuperare un rapporto più appassionato e consapevole con la natura e con l’agricoltura: «È importante tornare a conoscere davvero la pianta, così come non bisogna dimenticarsi come si accorda uno strumento a orecchio».
Ora, però, dobbiamo cambiare argomento: il festival di Sanremo si avvicina e non possiamo proprio fare a meno di parlarne. Perciò: chi vincerà il settantaquattresimo Festival della canzone italiana? Vessicchio non si sbilancia, anche perché ha deciso di non ascoltare i pezzi in gara prima dell’evento. «Voglio confrontare l’idea che mi sono fatto in testa, intervistando gli artisti, con il pezzo che sarà eseguito sul palco. Ho tanti amici, quindi parto senza nessuna previsione e nessun tifo. Mi auguro solo che tutti i protagonisti trovino una certa coerenza fra ciò che porteranno al Festival e ciò che sono. Non c’è cosa peggiore che portare un pezzo fatto appositamente per Sanremo». Vessicchio conosce bene queste emozioni: del resto, è grazie al Festival se è diventato una celebrità, tanto che spesso, ci confida, viene fermato dai fan proprio mentre sta mangiando. «L’affetto degli sconosciuti fa sempre piacere. Di solito imbarazza più le persone che sono a tavola con me». E, proprio parlando di ciò, eccoci di nuovo a tavola per rispondere alla domanda che tutti, ormai, vi starete facendo: ma dove, e come si mangia durante il Festival?
«A Sanremo, i ritmi sono spesso scanditi spesso dai pasti: colazione in hotel, pranzo, poi cena prima o dopo la serata. Paradossalmente, l’esibizione all’Ariston è il momento meno faticoso di tutto l’evento». Dopo tanti anni, Vessicchio sa bene dove andare se vuole incontrare qualcuno in particolare. Per esempio, uno dei suoi appuntamenti fissi è La Pignese, vicino piazzetta Bresca: «Da Marco, così lo chiamo io, è come stare in un acquario: il ristorante ha le pareti di vetro, e da fuori si vede chi c’è dentro. Sei costantemente attenzionato da fan e reporter. Di solito ci vado di giorno, proprio per evitare questo affollamento». Il piatto da provare sono le picagge al pesto, e, data la regione, non poteva essere altrimenti. Il Maestro, però, segnala anche «un’ottima cantina e il carrellone dei dolci vecchio stampo».
Il racconto continua a cavallo tra gastronomia e costume: «I carciofi della riviera sono fantastici, crudi o fritti. Ovviamente il pesce regna sovrano, c’è ottima materia prima». Gli chiediamo se ha una fügassa o sardenaira con cappuccino preferita: «A dir la verità no, perché la sera esageriamo e spesso la mattina bevo solo un caffè. Comunque, ci sono tantissime ottime espressioni di focaccia in città». Mentre parliamo, gli viene in mente un altro ristorante dove non manca mai: Il Profumo del Mosto. «Spesso ci vado nel post-serata per uno spaghetto a tarda notte, perché è molto frequentato dai musicisti dell’orchestra che hanno voglia di rilassarsi. Si crea un’atmosfera molto conviviale». Poi cita anche Paolo e Barbara, un altro ristorante storico, con «cibo e cantina di primissimo ordine. Ecco, qui vieni per ricevere quello che Paolo riesce a creare: è sempre un dono di grande qualità». Infine, ci saluta, con il suo must sanremese: «Non c’è Festival senza branzino e carciofi, e naturalmente un calice di Pigato».
Bene, che voi siate fisicamente a Sanremo o davanti al televisore, ora avete qualche piatto da provare durante le lunghissime serate del festival: pigacce al pesto, focaccia bianca, branzino e carciofi, magari anche una spaghettata post-notturna. E vino. Possibilmente dopo aver pompato Mozart nelle casse.