«L’uovo ha una forma perfetta, benché sia fatto col culo» scriveva Bruno Munari. Ok, ok, lui non si riferiva direttamente alla Pasqua. La Pasqua, invece, non possiamo dire che non si riferisca in tutto e per tutto all’uovo. Perché questa festività si manifesta, cresce, prospera, e si sostanzia – gastronomicamente è un fatto – nella forma dell’uovo, che qui in Italia è di cioccolato (spesso scadente), con sorpresa (spesso inutile) e sempre troppo grande, per cui ogni anno avanza rimanendo in dispensa – o forse riproducendosi in essa – più di quanto siamo disposti a sopportare.
Non per nulla, nell’italiota paese delle belle tradizioni il giorno della Resurrezione cristiano-cattolica è chiamato anche “Pasqua d’uovo”, come testimonia nel suo Tradizioni gastronomiche d’Italia: uova e dolci pasquali Bianca Maria Galanti, storica delle tradizioni popolari e folkloristiche. Per arrivare a parlare anche delle uova infestanti da supermercato, però, partiamo da qualcosa di meno noto, perché il detto vorrà pure che non si sa mai chi sia nato prima (se l’uovo o la gallina), ma sul fatto che le uova fossero fatte dagli animali prima che dai pasticceri nessuno ha ancora osato mettere il becco.
Cominciamo, nello specifico, dalle battaglie a base edibile. In Italia di solito associamo questa usanza allo storico Carnevale di Ivrea, dimenticandoci di un altro combattimento, senza legge e senza quartiere, che resiste in alcune parti della penisola.
In che consiste? Semplicissimo: si lessano delle uova, che in certi casi si decorano con un po’ di colore (fa sempre festa, del resto) e ci si sfida picchiettando il proprio uovo, dal lato della punta, contro quello dell’avversario. Alla fine, vince l’ultimo uovo rimasto integro. Oltre l’Italia, questa usanza è radicata anche in Assam (Stato federale nella zona nord-orientale dell’India), dove prende il nome di Koni-juj (কণীযুঁজ), o in America, dove la battaglia delle uova si chiama egg-knocking o egg-tapping o egg-boxing – definizione, quest’ultima, sulla quale c’è anche chi si spertica per dimostrare che picchiettare le uova una sull’altra può assurgere al rango di sport. Così, picchietta che ti picchietta, la pratica si è tramandata dalla metà dagli anni ’50 fino a oggi, e a Marksville, in Louisiana, come nella vicina Cottonport è ancora motivo di forte aggregazione cittadina durante il periodo pasquale.
Ma come si diventa provetti egg-knocker, “picchiatori di uova”? Dimenticatevi sessioni di allenamento da far impallidire Rocky, tutto quello che serve sono piccole accortezze, come testare, salmonella permettendo, le uova sui propri denti per saggiare la capacità di resistenza del guscio. Inoltre, ma questa è una chicca da professionisti, un suono acuto indicherebbe (almeno secondo alcuni “giovani” giocatori di Cottonport) un uovo vincente. Altro trucco per assicurarsi un posto nel wall of fame del pollaio è la cottura delle uova: la punta deve rigorosamente essere rivolta verso il basso, così da impedire alla sacca d’aria presente all’interno del guscio di posizionarsi proprio lì dove l’avversario colpirà più duro, resistendo agli assalti. Infine, qualche regola di partecipazione: le uova in gara possono essere di due tipi, di gallina e di faraona, queste ultime più pregiate e costose ma anche più dure e resistenti. So, play your game.
Non si pensi però che la febbre delle uova non tocchi anche il Vecchio Continente: battaglie locali si trovano in Olanda (Eiertikken), Germania (Epper), Grecia (Tsougrisma) e, sì, anche dalle nostre parti, dove, per ragioni disperse nei meandri della Storia, l’usanza ha attecchito prevalentemente al centro-nord con una serie di varianti regionali (‘ngiucchetta, scucchio, scoccetta, coccin, coccetto, scusin, rompiovo, ponta l’ov, ponta cül).
In Emilia-Romagna, in particolare, le cose si complicano e si fanno davvero serie. Dalla semplice battaglia delle uova si passa all’agonistico Palio dell’uovo. Ecco così che, a Tredozio (FC), a Pasqua ci si intrattiene, ex ovo omnia, con una serie di giochi ad alto contenuto proteico che coinvolgono tutta la comunità: uovo guancia a guancia, uovo nel pagliaio, conquista dell’uovo d’argento, fino ad arrivare alla battaglia delle uova crude, gioco a squadre dove ci si sfida frontalmente, a bersaglio fortemente ravvicinato, e infatti i partecipanti si coprono il volto con maschere trasparenti.
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Tra tanti gusci rotti, però, qualcosa finisce inevitabilmente sotto i denti. È il caso del Campionato nazionale di mangiatori di uova sode (arrivato alla sua 51ª edizione), sempre a Tredozio, dove vince chi ne mangia di più in pochi minuti. E le tradizioni goliardiche pasquali nostrane continuano con il gioco Siore e Siori, insolito torneo di bocce con le uova in cui si facevano rotolare un numero indefinito di frittate mancate per terra mentre si cercava di prendere una delle nove buche scavate nel campo, disposte in file da tre. Se si prendeva una delle buche laterali si vinceva un uovo, se si conquistava la centrale si vincevano tutte le uova in palio.
Tutto bello, ma allora come mai ricordiamo le uova di Pasqua non-di-cioccolato soprattutto come uova colorate? Innanzitutto, tenetevi, queste uova sono un mezzo fake. O meglio, le uova colorate no, i colori sì, in quanto, tradizionalmente, l’unico usato era il rosso. Come sembrerebbe testimoniare Plinio il Vecchio, o secondo altre ricerche Elio Lampridio (rispettivamente I° e IV° sec. d.C.), già tra i romani era uso colorare le uova di rosso e seppellirle nel terreno in primavera per assicurarsi un raccolto abbondante. Solo più tardi la palette si riempì di altri colori, che venivano reperiti «per il marrone dalla fuliggine, per il violetto dalle radici della liquerizia, per il verde dalle foglie di ulivo o di frassino, per il giallo dello zafferano, per il rame del guscio delle noci», come scrive anche Galanti.
L’uovo rosso però ha origini ben più lontane di quelle romane: parliamo della Grecia del III millennio a.C. circa, dove si trovano testimonianze di giare con incisioni raffiguranti uccelli accompagnati da uova dipinte di rosso. Nella Pasqua Ortodossa e Bizantina dell’Est Europa, questa colorazione è ancora in gran voga. Attraverso gli antichi corridoi della Magna Grecia, le uova pasquali rosse giunsero anche nella nostra penisola, e oggi le troviamo sia a Ischia che a Piana degli Albanesi in Sicilia.
Diffusione simile a quella delle uova rosse la troviamo per i cibi pasquali con le uova sode incastonate, tipo il casatiello. Tante le versioni antiche regionali di impasti tutti tempestatati ti tiamanti ti uova sote (direbbe Attila Flaggello di Dio), come la puddhrica salentina, un pane attorcigliato attorno a un uovo, il panaret di Piana degli Albanesi, un dolce a forma di cesto con delle uova rosse incastonate, e la cuddura cull’ova, biscotti siciliani noti anche come pupi con l’uovo. Fuori dai nostri confini troviamo la mona de Pascua, una ciambella tipica della Catalogna con una o più uova incastrate, o ancora lo tsoureki greco, una specie di pane guarnito con mandorle tostate e uova rosse (come in questo caso vuole la tradizione della Pasqua ortodossa).
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Ma per tornare nel ramo dei significati e non dei significanti, la Pasqua è la celebrazione (ce ne perdoneranno gli affiliati alla religione cristiana) della rinascita della vita dopo i mesi invernali, simboleggiata dal rinnovamento della natura scandito dall’equinozio di primavera. Ed ecco che l’uovo si fa cosmico, simbolo di nascita caro alle religioni pre-cristiane, dove è visto come archetipo di cosmogonia, unità totale, perfetta e indivisa che, schiudendosi, crea l’esistente, o dà vita a una divinità creatrice.
Nell’Egitto, per esempio, l’uovo è rappresentazione mitologica dei quattro elementi dell’universo (terra, acqua, aria e fuoco) ma anche luogo di nascita del dio Ra, generato in un uovo cosmico proprio come Mithra, il dio di origini persiane corrispondente al Mitra della Roma pre-cristiana. Nell’antica tradizione mesopotamica, come scrive la giornalista e appassionata di “archeo-gastronomia” Maria Ivana Tanga, c’è poi la leggenda di un enorme uovo emerso dalle acque dell’Eufrate che avrebbe dato i natali alla divinità assiro-babilonese Ishtar, signora del Cosmo e personificazione della fertilità (secondo alcune ricerche Ishtar sarebbe legata, per via di un’assonanza con la parola inglese Easter, proprio alle origini pre-cristiane della Pasqua). Ma anche i celti, gli antichi greci, i vietnamiti e i bambara del Mali credevano nella simbologia dell’uovo cosmico o uovo del mondo, principio da cui originava la vita e tutto l’universo. «L’uovo sarebbe all’origine di una immensa cosmogonia universale» scriveva lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade.
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Concedeteci un ultimo aneddoto, perché questa è carina. Nella tradizione cinese taoista, la leggenda narra che in origine era il caos, e che esso si coagulò in un grande uovo nell’arco di diciottomila anni. All’interno dell’uovo vi erano i due principi primordiali Yin e Yang, che raggiunsero l’equilibrio dal quale si generò l’eroe di nome Pan gu. Questo crebbe a tal punto da far schiudere l’uovo separando lo Yin dallo Yang, che crearono così la terra (il tuorlo) e il cielo (l’albume). Altro che scrambled egg, scrambled Earth.
A questo punto vi starete chiedendo com’è che ci siamo ridotti a mangiare paganissime non-uova di cioccolato in occasione di una festa cristiano-cattolica. Presto detto: le tappe che ci consegnano l’uovo di Pasqua contemporaneo sono molto più recenti di quando vennero concepiti i vari miti cosmogonici. Siamo in Francia nel XV° secolo, e il re più re di tutti, Luigi XIV, chiede al mastro cioccolatiere di corte di riprodurre per Pasqua un uovo dolce, da realizzare con il cioccolato. Et voilà.
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Nel 1725, l’idea fu ripresa da tale vedova Giambone per la sua bottega torinese. Niente di che, se non fosse che la signora ebbe la geniale idea di mettere in vetrina le uova – create colando la cioccolata nei gusci vuoti di vere uova di veri volatili da cortile – insieme a una gallina in carne e ossa. L’ultimo miglio di questa trasformazione avvenne in Russia durante il regno dello zar Alessandro III. Nel 1885, desideroso di fare una sorpresa pasquale alla moglie Maria Fëdorovna (al secolo principessa Dagmar di Danimarca), chiese all’orafo di corte di preparare un uovo prezioso, che oltre all’oro, ai diamanti e alle gemme, contenesse all’interno una sorpresa. Tale orafo era Peter Carl Fabergé, artigiano di origini francesi che continuò a produrre uova fino alla Rivoluzione d’Ottobre (proprio loro, le Uova Fabergé).
Tra Storia e nobiltà, cioccolaterie sabaude e quel brivido, ogni volta, di scoprire quale (deludente) sorpresa ci riserverà l’ennesimo uovo di Pasqua, le miracolose uova e il divino cioccolato sembrano destinati a rimanere con noi ancora a lungo. Anche se, come hanno scritto il Financial Times e altri media nazionali con lui, il costo delle fave di cacao è salito di oltre il doppio in un anno, vuoi a causa del cambiamento climatico, vuoi a causa del disinvestimento nello sviluppo di una filiera sostenibile. Bilancio che, unito alle ultime previsioni sull’andamento della domanda di cioccolato, destinata a superare l’offerta di ben 370.000 tonnellate (secondo i dati dell’International Cocoa Organization), ci consegna l’immagine di un passato, non più così lontano, in cui il cacao era un bene di lusso, altro che scaffali dei discount.
Per ora, mettiamo da parte le ansie da golosi impenitenti con il portafoglio sempre troppo stretto e tiriamo un grande respiro. Finché c’è uovo c’è speranza. Tutto quello che dobbiamo fare è cogliere il suo esempio, e rinascere insieme al mondo, schiuderci con lui.