Dalle parti di Bolgheri tira vento. Il mare è abbastanza vicino per Martina Morelli, che senza non ci sa stare. Dalla costa è circa mezz’ora, ma già dietro, alle spalle di questa collina che sembra una campagna, arrivano le schiene di rilievi più stretti, decisi, centro Italia. «Io sono il mare, di carattere, Fabrizio è la montagna», mi dice in una telefonata Milano-Livorno dopo che, a fine giugno, ci siamo conosciute a Podere Arduino, realtà – perché una definizione più stringente, per ora, è troppo complicata – che gestisce con il compagno, cioè il Fabrizio (Bartoli) di cui sopra.
«Questa terra è stata comprata dai nonni di Fabrizio negli anni ’50. Il nome del podere è per suo nonno, Agostino Arduino Bartoli, che con la famiglia decise di trasferirsi fuori città». Non pare una scelta balzana, a respirare l’aria di queste parti, che arriva con ancora addosso, come fosse un vino e noi persone che parlano mondanamente, una spalla di brezza marina.
Parlare di vino, in realtà, a Bolgheri è un fatto pericoloso. Non solo a causa dei Super Tuscan per cui, Sassicaia e compagnia andante, l’area è ormai quasi esclusivamente conosciuta. Non solo perché “quelli che ne sanno” passano di qua, comunque apprezzano, ma se ne vanno con il senso che qualcosa non sia stato realizzato appieno: bello, ma anche meno, ma manca qualcosa. Morelli dice che è il rischio della monocoltura, forse io dico del monopensiero: se a Bolgheri il vino sta bene, perché arrischiarsi su altre pendici?
Non so se si parla di rischio, a Podere Arduino; quello che so è che i due ragazzi che ne sono, ora, l’anima non hanno mai giocato nel semplice. Prima di Arduino, Morelli è stata dieci anni in giro per il mondo, nomadica ma sempre legata professionalmente al settore dell’ospitalità. «Volevo continuare a non avere piani, ma allo stesso tempo trovare una realtà che offrisse qualcosa di più delineato nella carriera che avevo intrapreso». Rientra in Toscana dal Sud Africa. Riprende Bartoli, perché con Fabrizio sono compagni delle superiori, vengono dallo stesso circondario. Lui ha in mano Arduino da qualche tempo, la realtà è che è un triatleta con, da sempre, il pallino della cucina. Al Podere lavorano già la terra, producono già olio perché, ancora prima dell’arrivo di nonno Arduino, sul terreno pre-esistevano ulivi che, a spanne, oggi staccano 130 anni. Gli ultimi arrivano nel 2016, quando Fabrizio e Martina li piantano insieme, aggiungendo una varietà tipicamente pugliese: la Coratina.
Al loro incontro, comunque, «Fabrizio era nell’anno in cui produrre olio e lavorare la terra non gli bastava più. Voleva rimettere le mani in pasta e tornare alla cucina, che aveva un po’ abbandonato». Bartoli, l’abbiamo detto, è un ex triatleta. Alla campagna c’è arrivato per la famosa seconda entrata quando lo sport professionistico paga ma non troppo, da autodidatta. «Ha la forma mentis dello sportivo: si fissa, si mette sotto a studiare, non lo ferma nessuno. Poi tante delle sue idee come cuoco arrivano dai suoi, prima, e ora nostri viaggi. Larga parte della sua ispirazione nasce in Asia e nel Sud-Est asiatico, per esempio, nello street food di quel continente in particolare».
Innescata la reazione, tutto si muove velocemente perché i due sono «aggeggioni» veri, hanno sempre qualcosa per le mani. La prima mossa è Bolgheri Green, ovvero la possibilità di pranzare o fare aperitivo in uno spazio del Podere attrezzato con tavolini e coperte da stendere dall’erba. En plein air, gambe incrociate, molto hipster oggi «ma dieci anni fa, quando abbiamo iniziato, sembrava una rivoluzione». La proposta è quella dei prodotti agricoli del Podere, la ricerca è sui vini naturali (oggi il sommelier di Podere Arduino è Kevin Galioto). «Anche lì, noi parlavamo di vini naturali e di fianco a noi chiedevano i Super Tuscan. Sia io che Fabrizio siamo vegetariani da anni, e portiamo la nostra filosofia anche nella nostra proposta gastronomica. Capisci che, in un posto che ormai si conosce solo per la ciccia, non avere la fiorentina, o un rosso corposo da aprire, lasciava tanti spaesati».
L’obiettivo, continua Morelli, è quello di dare un servizio diverso, che travalichi le aspettative ormai rese “classiche” per la regione. «La Toscana e la toscanità sono diventati dei cliché per tante cose. Quello che volevamo fare era creare il posto che, dove eravamo noi, ancora non esisteva, che prescindesse dalle tovaglie a scacchi. Per quanto in certe cose ci discostiamo, noi partiamo dal recupero della tradizione, quella allargata, che alcuni dimenticano e che il turista spesso non cerca. È perché la domanda sul territorio è diventata incredibilmente ristretta, si lega alle dinamiche di un turismo-lampo, che vuole trovare sempre le solite cose, fare due foto e andarsene dicendo che anche lui “ha mangiato o bevuto quella cosa”. Poi certo, è venuto fuori che l’esperienza di Bolgheri Green è piuttosto fotogenica e dunque instagrammabile. Quelli che capiscono però li vedi al volo, che si mettono in sintonia con quello che stai cercando di fare. Poi ci sono quelli che si lamentano, e quelli a cui riesci a far cambiare idea. Allora sai perché lo stai facendo».
Già, perché lo stai facendo? Il riassunto si contiene nella risposta di Morelli quando le chiedo se, secondo lei, in Toscana si mangi bene. «Sì, ma si potrebbe mangiare meglio. Ci sono prodotti pazzeschi, quello che manca è l’occasione di far ricerca per valorizzarli. E tanti stanno perdendo il focus su ciò che dovrebbe essere la vera cucina popolare toscana».
Questi prodotti pazzeschi, Martina e Fabrizio li hanno. Provengono dai più di otto ettari di Podere Arduino, verdure soprattutto, seguite dalle uova di pollai mobili e latte di capra e di pecora. Lavorano in biologico del giorno uno, e a questo hanno aggiunto le tecniche dell’agricoltura rigenerativa, ovvero sistemi che aiutano a preservare e rimpolpare la naturale fertilità del suolo. «Per esempio, oltre a produrre il nostro compost biologico lasciamo che se ne crei in modo spontaneo: quando potiamo i rami degli alberi, per dire, non li raccogliamo da terra. Oppure non smuoviamo il suolo, così da non disperdere l’anidride carbonica immagazzinata dal terreno».
Disciplina, sì, ma anche divertimento. «Sperimentiamo con diversi tipi di terreno, visto che il Podere offre varietà anche da questo punto di vista. Vediamo come cresce una pianta su un tipo e su un altro. Poi cerchiamo di immettere anche colture nuove, sempre a favore della biodiversità. E in questo interagiamo con il menu della nostra ultima, cioè più recente, creatura: l’Osteria Ancestrale».
Eccolo, il desiderio di cucina di Fabrizio, trasformato in un ristorante all’interno di Podere Arduino. Un progetto chiaro da subito ma che, per lungaggini burocratiche, ha richiesto circa otto anni per esser portato a termine. «Dovevamo aggiungere una sede di preparazione e ultimazione piatti, spostandola nella nuova struttura dell’Osteria. I permessi ci stavano bloccando, l’agronomo è arrivato a dirci: il modo più facile per riuscire a farlo è cucinare solo con il fuoco, come se fosse una griglia. Ce l’ha comunicato mezzo disperato. Io e Fabrizio ci siamo guardati e abbiamo capito subito che la soluzione ci avrebbe divertito molto».
Il triatleta che c’è in Bartoli si risveglia: in una settimana è pronto il progetto, e il nome dell’Osteria deriva proprio da questa modalità di cottura a fiamma viva, la più antica che ci sia. Il menu è anarchico e bi-partito: anarchico perché «è la natura a comandare sull’uomo e non viceversa. All’inizio della stagione facciamo un brainstorming di un mesetto per darci le grandi direzioni verso cui vogliamo andare, ma poi letteralmente ogni giorno, a seconda della disponibilità dei prodotti, i piatti possono cambiare. Ci orientiamo per avere alcuni “must have” a dettare la linea come centro di gravità. Poi è rapsodia». Bi-partito invece, perché, almeno per ora, solo due sono le possibilità per cenare (sempre previa prenotazione) in Osteria Ancestrale: il menu Arche (l’essenza della natura) e il menu Physis (la manifestazione della natura), quest’ultimo più lungo e completo. Sul menu, scritto a mano giornalmente, i piatti non hanno nomi né composizioni, ma solo l’ingrediente principale: Pomodoro, Muschio, Barbabietola e Bosco (per esempio).
La contaminazione dei viaggi si sente – Martina mi dirà che, oltre all’Asia, anche il Messico è stata grande fonte di ispirazione, e che per policy tutti i dipendenti di Podere Arduino hanno due mesi di vacanze l’anno per poter, se vogliono, viaggiare e “formarsi” autonomamente in questo senso -, la cena accompagna a lungo e un senso di meraviglia giocosa permane a ogni assaggio, anche quando il palato vorrebbe chiedere una pausa. La campagna è anche questo: il ritmo non lo puoi dettare tu. Tanto poi, se si vien stanchi, ci si può sempre appisolare nel glamping del Podere.
«Oggi vogliamo continuare a lavorare sull’obiettivo che poi ci siamo sempre dati: portare il cliente a contatto con una dimensione diversa, più piena della campagna e di ciò che il territorio può offrire, sempre nell’informalità. Poi vogliamo chiudere un ciclo di stagionalità più completo, rimanendo aperti da marzo a dicembre. Si parla della ristorazione naturalmente, perché la natura non va in vacanza, e facciamo in modo di avere sempre almeno due persone attive sul Podere tutto l’anno. Un’altra bella ambizione sarebbe uscire dal territorio, per quanto possa risultare controintuitiva. Non possiamo solo essere circolari, parola che preferisco a “sostenibili” perché è più precisa; dobbiamo essere anche un po’ sexy, dimostrando il valore che possono avere le destinazioni non-destinazioni».
Tutto per la terra? Sì, ma anche per il palato. «Abbiamo appena piantato delle piante di vite, ma la produzione la terremo per noi. Sarà una cosa da condividere con gli amici e la famiglia». Chissà che, a furia di passare dalle parti di Bolgheri, anche noi non si finisca contanti in quella cerchia. E che una sera, presi tra terra e mare, non ci ritroveremo ad assaggiare un’ottima annata in un posto che forse, di definizione, non ha nemmeno bisogno. In fin dei conti, a volte basta esistere.