Si possono visitare musei e luoghi di cultura perché affamati di sapere, oppure perché, be’, si ha un languore e basta. Non solo aspiranti egittologi e gite della domenica: i musei (ma anche i landmark, ovvero i luoghi notevoli e i monumenti) sono diventati attrazioni per i gourmand, offrendo spazi unici che uniscono design e storia a piatti che non sfigurerebbero dietro una teca.
Dai bistrot e caffetterie più informali – ma pur sempre chic e con cucina d’autore –, perfino la Michelin ha iniziato a includere i musei più “appetitosi” tra le sue tappe. Un esempio? Il Caffè Bistrot di Andrea Aprea all’interno del Museo etrusco della Fondazione Rovati, accoppiato al Ristorante bi-stellato al piano superiore; o la caffetteria, e ristorante con giardino, Vòce Aimo e Nadia (dopo lo stellato Il Luogo) all’interno delle Gallerie d’Italia, guidata dagli chef Pisani e Negrini. Ma come non ricordare Enrico Bartolini al Mudec di Milano, tristellato museale; Gucci Osteria a Firenze, nata in continuità con il Gucci Garden e arrivata alla stella Michelin sotto la guida di Masismo Bottura e degli executive chef Takahiko Kondo e Karime Lopez. Scendendo al Sud troviamo invece, a Palermo, MEC Restaurant, una stella, capitanato da Carmelo Trentacosti e ibridato con un museo sulla storia dei computer all’interno di Palazzo Castrone. Un’altra stella si situa all’altro capo d’Italia, a Rovereto e all’interno del Mart: Senso, la mano è quella di Alfio Ghezzi. Alle Gallerie d’Italia di Napoli, invece, si può godere dell’esperienza di Luminist, “spazio gastronomico” votato alla condivisione e fratellino del bi-stellato Kresios di Giuseppe Iannotti.
Senza stelle, ma degni di nota, sono poi le viste panoramiche del Ristorante Torre in Fondazione Prada, guidato dello chef Lorenzo Lunghi e progettato dal noto architetto olandese Rem Koolhaas; Roland a Spazio Field all’interno di Palazzo Brancaccio a Roma, Myo a Prato – legato al Museo Pecci per l’arte contemporanea –, per finire a Piacenza, negli spazi attigui alla Galleria Volumnia con Io di Luigi Taglienti.
Oltralpe, l’esempio celebre è quello di Monsieur Ducasse (proprio l’Alain da 21 stelle Michelin), asso pigliatutto alla guida (insieme al gruppo di ristorazione ed eventi MusiamParis) del Bistrot Benoit au Louvre, situato sotto la celebre piramide e fratello minore di Bistrot Benoit (ma ulteriori tre Café by Ducasse sono presenti dalle parti della Gioconda, la Goguette, il Richelieu – Angélina e il Mollien), della Petite Venise e del Grand café d’Orléans (alla reggia di Versailles), del ristorante del Musée d’Orsay (e del Café Campana nella stessa location) e del Café de L’Orangerie all’omonimo museo. Si continua al Musée du Quai Branly – Jacques Chirac con il ristorante Les Ombres, mentre a dicembre è arrivato l’annuncio che, presto, l’esperienza culinaria del Louvre verrà rivoluzionata ancora una volta da Ducasse e dalla sua brigata di giovani talenti. Quale accoppiata migliore per celebrare la storia della cucina e quella dell’arte?
Oggi ci sembra un cosa glamour, insomma, pasteggiare à côté delle opere d’arte. In realtà, però, non è da ieri che mangiamo al museo. Ma, per capire come questa usanza sia diventata un trend, dobbiamo teletrasportarci al 1600, secolo in cui il concetto di questo luogo è passato dall’essere un santuario della cultura, tempio per pochi intellettuali, protetto sotto cupole ecclesiastiche o palazzi reali, a spazio di coinvolgimento aperto a tutti.
In quegli anni, i vertici politici si resero conto che i musei erano lo strumento perfetto per plasmare le idee e correggere i comportamenti sociali “devianti” in maniera indiretta e ricreativa (idea che potrebbe ispirarci anche oggi? La buttiamo lì). Ecco allora che con l’apertura dell’Ashmolean Museum di Oxford (uno dei musei pubblici più antichi del mondo) si inaugura la stagione pubblica dei musei a livello globale, dove gli inglesi, ci duole ammetterlo, hanno sicuramente visto lungo. Ma che cosa c’entra qui il cibo?
Fast forward al 1800: mossi da un obiettivo nobile, educare i visitatori e attrarne numeri sempre maggiori, i dirigenti dei musei si fecero due conti, e pensarono bene di prendere il pubblico per la gola. In breve, introdussero nei musei zone dedicate al ristoro, e la strategia si dimostrò essere miele per mosche. Così, sempre più musei si affrettarono ad aprire la propria area dining. Strategia che si rivelò vincente e che, verso il 1900, portò i musei a diventare luoghi sempre più affollati – complici, naturalmente, le torte, il tè, e le zuppe che servivano.
Sembra, insomma, che una parte della storia gastronomica del nostro secolo stia sobbollendo in questi spazi insospettabili. Connettendo i puntini, però, tutto acquista un senso. Di fatto, il concetto stesso di “viaggio” è cambiato: vigono le esperienze multisensoriali, tra paesaggi da sogno, tappe d’arte e, naturalmente, l’appagamento del senso più piacevole, quello del gusto, magari proprio a quel tavolo su cui si fantastica ormai da tempo dopo averlo visto online. È in questo contesto che i musei entrano in gioco, diventando tendenza – anzi: esperienza –, e destinazioni ideali per soddisfare ogni tipo di desiderio. Un museo è un luogo dove si dovrebbe perdere la testa, per usare le parole di Renzo Piano.
Il trucco, come spesso accade, sta (anche) nella tecnologia. Se agli inizi della ristorazione museale la visibilità era piuttosto minima, oggi l’esplosione dei mezzi di informazione attorno al cibo (pensiamo al coacervo di blog, account social, testate – ciao, Alfredo! – e canali TV che trattano ciò che si beve e si mangia) ha moltiplicato l’interesse e le view. Basta un hashtag, o una ricerca localizzata, per lasciarsi ipnotizzare dal video di un pranzo spettacolare nel setting di un film di Wes Anderson, come nel caso del Bar Luce di Fondazione Prada a Milano (non era un modo di dire, il regista si è davvero messo nei panni di architetto), o da un piatto raffinato nella cornice degli archi vetrati con vista su Piazza Duomo del ristorante da Giacomo Arengario nel Museo del Novecento. Insomma, salvatevi la location dei sogni, che sia la terrazza del MoMA, per far gli americani, o Le Jules Verne, situato al 46° piano della Tour Eiffel. Nel mentre seguiteci, però. Perché è bene partire dall’inizio.
Le origini: il Victoria and Albert Museum
Il boom della ristorazione museale cominciò dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, quando il direttore del South Kensington Museum (nome originario dell’attuale Victoria and Albert), Henry Cole, riassunse gli appunti presi durante i mesi dell’evento. Aveva capito una cosa dei suoi visitatori: oltre la mostra, apprezzavano un tè e un pasto caldo ad accompagnare. Da qui l’intuizione: questa evidenza doveva trasformarsi in una vera e propria esperienza culinaria da svolgere al museo. Grazie a questa idea, si disse, i londinesi sarebbero stati incoraggiati a passare il tempo al museo, godendosi tanto la cultura che un pasto e abbandonando così le sbronze ai gin palaces, i nonni degli odierni pub. I visitatori sarebbero arrivati a South Kensington in carrozza, un giro tra le mostre, cena a concludere. Fu il primo museo al mondo a offrire un’esperienza serale del genere. Le stanze interamente dedicate alla ristorazione, tre, furono inaugurate nel 1868. Si chiamano Gamble, Poynter e Morris. Ognuna è il risultato di collaborazioni con designer, architetti e personalità note o emergenti, da cui le stanze prendono il nome (Morris, per esempio, da William Morris, artista, intellettuale e promotore del movimento Arts & Crafts).
Per venire incontro alle tasche di tutti, e proporre menù inclusivi, si studiarono tre proposte, divise in base allo status sociale dei visitatori. Nel menù di prima classe figuravano piatti più raffinati come lepre in umido, pudding di carne e torte (ciascuna portata a uno scellino più o meno). Per la seconda classe, piatti sostanziosi come la cotoletta di vitello (a 10 centesimi) e uova in camicia con spinaci. Arrivati alla terza, opzioni più modeste come zuppe e cibi in scatola.
Oggi, la magia delle Rooms continua a splendere sotto forma di una caffetteria e tavola calda con servizio self-service, affidato a un servizio catering firmato Benugo e al suo manager Gianmaria Baldassarre. Per la mostra dedicata a Coco Chanel, per esempio, si è realizzata la V&A Patisserie, pop-up di pasticceria nel bar esterno, all’entrata del museo, studiato per replicare lo charme dell’icona della moda anche nel gusto. Un’altra creazione divertente, in pieno stile pop-rock, fu la torta rosa ispirata ai Pink Floyd in occasione della Concert Exhibition, dedicata agli artisti più influenti della storia della musica. Altri esempi si trovano nel bollettino del Met di New York, che nel 1905 annunciava l’inaugurazione di un ristorante con menù à la carte, oppure a Toronto, dove l’Art Gallery fece storia per il suo spazio spuntini men only.
Meet me at the Museum
Come sottolinea la storica dell’arte americana Nina Levent, oggi i ristoranti museali «non sono semplicemente un’estensione dell’esperienza museale, una tappa successiva alla visita, ma un’esperienza completa che coinvolge tutti i sensi». È la ciliegina sulla torta, il metronomo che scandisce il ritmo della visita. Senza contare, naturalmente, il fattore di aggiunta attrattiva e gli ulteriori ricavi economici. Lo conferma Jonathan Curzon, responsabile front office del V&A: dalla riapertura della caffetteria (2007), il numero dei visitatori annuali è aumentato considerevolmente, da uno a tre milioni. «La caffetteria è diventata di per sé una destinazione», spiega. «Appena apriamo le porte alle 10, molti entrano solo per scattare una foto e godersi la colazione in uno spazio meraviglioso».
Una fusione d’amore, quella tra arte e cibo, che si concretizza nella creazione di menù specifici per le mostre, rendendo per esempio le opere “assaggiabili”. È accaduto per la mostra Forms of Life alla Tate Modern di Londra, dove il menù si è ispirato alle opere degli artisti Piet Mondrian e Hilma af Klint, pionieri dell’arte astratta. Al sesto piano del museo, lo chef Chris Dines e l’head chef Frank Szymkow hanno servito piatti e drink creativi, partendo da antipasti come “Barbabietole e rape in salamoia con mele e mirtilli rossi”, da sorseggiare con “Composition with Raspberry”, drink ispirato alle opere astratte di Mondrian e nato per far assaporare il rosso, colore predominante nelle sue opere.
Un format divertente, che il museo ha deciso di sviluppare per le esibizioni future traslandolo anche all’interno del proprio bar con collaborazioni mensili. Per questo dicembre, il Tate si è fatto da mediatore tra il giovane artista multisensoriale Emeka Ogboh e il birrificio Drop Project di Londra per creare la loro birra limited edition, Untitled 2.
Al netto di collaborazioni come queste, da cui tutte le parti coinvolte traggono beneficio, l’intento dei musei rimane comunque lo stesso: attirare un pubblico sempre più vasto e generare buoni ricavi. Per questo motivo, tra le varie strategie promozionali si annovera anche la gastronomia, che si è dimostrata nei secoli un elemento efficace per creare affluenza e, soprattutto, entertainment. Alla fine, come urlava Kurt Cobain, questo è ciò che vogliono le persone: intrattenimento. Nemmeno al museo si può correre il rischio di annoiarsi. In più, il cibo può essere una formula vincente per coinvolgere pubblici diversi e avvicinarli all’arte, in quanto anch’esso nutre (in modo più specifico rispetto ai dipinti) e genera cultura.
Ma quali sono i pro e i contro di questa scelta? Se da un lato i musei stanno riconquistando interesse e registrano un aumento dell’affluenza dei visitatori – perché i ristoranti che ospitano sono, di per sé, un motivo per visitarli –, dall’altro molti intellettuali si chiedono che tipo di pubblico si stia attirando. Forse medio, di massa, interessato solo a scattare una foto per mostrare che “c’erano anche loro”, favorendo così quella che il giornalista e storico dell’arte Cesare Biasini Selvaggi ha definito una «democrazia dell’ignoranza». In altre parole, un target di visitatori non soliti bazzicare i musei, attratti dal marketing che ruota attorno alle mostre, non sempre in grado di apprezzare l’arte di per sé.
Una cosa, però, è certa: anche i musei hanno bisogno di promuoversi, e i ristoranti possono sostenerli in questo. E se possono anche aiutare le persone ad avvicinarsi alla cultura, perché no? Se dovessimo scegliere tra un pranzo e un selfie di Chiara Ferragni…
Insomma, il rapporto tra museo e cucina sembra evolversi in modo sempre più simbiotico, dando vita a ristoranti di qualità sempre crescente, facendoci dimenticare gli anni dei panini freddi schiacciati nello zainetto prima di uscire per la gita. Noi buon gustai – e amanti dell’arte, ché poi è la stessa cosa – possiamo solo augurarci che questo matrimonio tra museo e cucina sia uno di quelli che arriva alle nozze di diamante, e che dura per sempre.