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Caro frigorifero, ci hai cambiato la vita (e il palato)

Una volta erano blocchi di ghiaccio "raccolti" a mano. Poi, le macchine da raffreddamento domestico sono diventate un pilastro essenziale della quotidianità, e hanno rivoluzionato il modo in cui mangiamo. Avanzi riscaldati compresi
frigorifero

Foto: Darrien Staton su Unsplash

Forse li avete visti: nelle pubblicità sponsorizzate sui social, al supermercato, in casa da quella coppia di amici sempre un po’ più avanti sulle ultime tendenze. Sono dispositivi che aiutano a non sprecare il cibo, o meglio, a non farlo andare a male. Sono creati per il luogo che, teoricamente, il mangiare lo dovrebbe far durare di più: il frigorifero. La loro promessa è quella di eliminare muffe, batteri e umidità naturalmente generate dalla decomposizione del cibo (perché ricordiamo che, con lo scorrere del tempo, di questo si tratta). Perché avere la possibilità di raffreddare così tanto frutta, verdura, carne e compagnia da rallentare l’orologio biologico ci porta, paradossalmente, a buttare via più di prima.

No, tranquilli: non è uno di quei pezzi per elogiare la cucina circolare, i quinti quarti, le parti fibrose dei vegetali da sbollentare pur di non lasciarle andare. Questi sono trucchetti, e impallidiscono di fronte all’invenzione che ci ha permesso di, tra le altre cose, sviluppare ricette che prevedono l’uso di ingredienti di stagionalità diverse. Questo sì che è un trick, perché non si tratta solo di sapere quando è il tempo delle mele, quando dei peperoni e delle biete. Il raccolto del grano ha un tempo, la produzione di latte e formaggio lo ha, e ancora il ciclo di vita di un animale da macellare, il pesce che viene dal mare: ogni cosa a suo tempo, come vuole l’adagio. Al frigorifero, di tutto questo, non interessa. E, grazie a questo menefreghismo, ci ha cambiato il palato per sempre.

La strada per la rivoluzione, naturalmente, è lunga. «C’è stata vita prima della refrigerazione», anche se non sembra. Così comincia l’episodio del podcast Gastropod, creato in partnership con Eater, hosted da Nicola Twilley e Cynthia Graber, chiamato The Birth of Cool: How Refrigeration Changed Everything. «Ci sono prove archeologiche che raccontano di come gli esseri umani si siano sempre accorti che il freddo conservava il cibo. Nel Neolitico si sfruttavano le caverne, o a volte delle specie di dispense sotterranee. Apparentemente, circa 4.000 anni fa sulle sponde dell’Eufrate, nella moderna Siria, c’erano delle “case del ghiaccio”, e si trovano citate in diversi scritti, i primi del genere giunti fino a noi. Non ci dicono per che cosa usassero il ghiaccio, ma solo che, nei fatti, c’era, che era molto prezioso tanto da essere custodito da guardie, e che andava a ruba in pochissimo tempo dopo essere stato trasportato in pianura dalle montagne».

Foto: Eduardo Soares su Unsplash

Come vi raccontavamo qualche tempo fa, tracce di piatti “congelati” – dolci soprattutto – sono ravvisabili anche nell’antica Cina, e sono testimoni della nostra lunga relazione con il ghiaccio e, più in generale, con il freddo. Che appare avvenire però, per la maggior parte delle volte, sotto il segno dell’edonismo e non della praticità di conservazione. Questo rimane vero anche a distanza di secoli: anche nelle corti del Rinascimento, sottolinea Twilley, autrice di Frostbite. How Refrigeration Changed Our Food, Our Planet, and Ourselves, il ghiaccio è usato per il piacere del momento. Per conservare, che fosse sale o fresco naturale, le strategie sono altre.

Nonostante questo, il meccanismo basilare del raffreddamento è conosciuto, pare, fin dall’antichità: in particolare viene applicata una tecnica cosiddetta evaporativa, ovvero: se soggetto a shock termico, un liquido può cambiare stato e diventare gassoso molto in fretta, così tanto che, come risultato della forza cinetica coinvolta nel processo, la temperatura dell’ambiente viene abbassata. Lo stesso principio, ma condotto con i moderni mezzi meccanici, è alla base dei processi di raffreddamento che usiamo oggi.

Ma comunque: cut to 1700, e con la Rivoluzione Industriale arrivano anche le idee di business. Il primo ad averla è Frederic Tudor, a Boston, nel 1806: a 23 anni decide che avrebbe portato il ghiaccio dei laghi invernali del Massachusetts in giro per il mondo. Sia per il piacere ma anche, diciamo così, per dover di refrigerazione (e per l’irrefrenabile desiderio di arricchirsi, a quanto pare). Il suo mezzo di trasporto: le navi. Il suo obiettivo: raggiungere i paesi più caldi (come Cuba e l’India) e infilarsi sotto le mani dei bartender, convincendoli che un drink freddo è sempre meglio di uno a temperatura ambiente. Frank Sinatra la pensava proprio così, e famosamente non poteva sopportare un cocktail senza ice, ice baby, quanto più possibile.

Tudor ce la fece, alla fine, sistemando le stive delle sue navi in modo che fungessero, di fatto, da frigoriferi. Il suo ghiaccio finì in giro per il mondo, incontrò la bella società, e si stabilì come status symbol: se non bevi qualcosa con ghiaccio del Massachusetts, e nello specifico del Wenham Lake, non sei nessuno. Il focus della refrigerazione però, qui, è ancora volto verso il ghiaccio; non per cespi di insalata o tocchi di formaggio.

Foto: Mishaal Zahed su Unsplash

Le imprese di Tudor diedero il via al commercio globale di ghiaccio naturale, ovvero “harvested”, staccato dalla terra in forma di acqua solida, e non prodotto con processi di refrigerazione artificiale. Inoltre, la sua intuizione di rivolgersi alla drinking industry si rivelò storicamente lungimirante. Non solo cocktail e intrugli ne beneficiarono, ma anche, per esempio, i birrifici: proprio come i funghi hanno la loro stagione, e le uova estive sono migliori di quelle invernali, anche i lieviti usati per produrre birra sono sensibili ai cambiamenti di temperatura, e alcune parti dell’anno, in quanto troppo calde, non sono loro congeniali.

Facendo di necessità virtù, il ghiaccio cominciò a essere usato per raffreddare gli spazi. Nello stesso periodo (si tratta di qualche decade dopo Tudor), un giornalista australiano si mise in testa di trovare una soluzione al fatto che l’inchiostro dei suoi articoli evaporasse durante i mesi più caldi. Lo vaporizzò con etere, e questo si “congelò”. Da lì l’intuizione di usare la stessa strategia su larga scala, creando macchine a vapore che si preoccupassero di raffreddare gli ambienti, e non di produrre ghiaccio per, a quel punto, raffreddare gli ambienti. Ad approfittare di questa novità furono, ancora una volta, i birrifici. Il frigorifero (qui in versione gigascopica) è prossimo a venire.

Tra le varie prime date di invenzione (già nel 1805, a dire il vero, Oliver Evans, inventore americano, aveva progettato una macchina che raffreddasse attraverso il vapore, senza poi portare avanti il progetto), la più significativa è il 1844, quando John Gorrie, fisico statunitense, di fatto replicò l’intuizione di Evans. Per il commercio su ampia scala del dispositivo, l’anno è il 1856, e il testimone passa nelle mani dell’uomo d’affari Alexander C. Twinning.

Da lì, Twinning e altri cominciano ad applicare la portata dell’invenzione al mercato. E, all’inizio del secolo scorso, complice l’innevamento sempre più capillare della rete elettrica, arrivarono i primi modelli domestici. Quello di Fred W. Wolf per esempio, anche lui americano, composto da un’unità di raffreddamento montata sopra una scatola di ghiaccio. È verso gli anni ’20 e ’30 però che il frigorifero comincia davvero a entrare nel mainstream (e in sempre più case, con gli Stati Uniti a trainare i primi consumi). Da lì il resto (e l’uso ai fini della conservazione alimentare, facendo due più due con le antiche intuizioni) è storia. Ed è a questo punto della linea del tempo che compaiono ospiti imprevisti: come sapori diversi, ricette diverse e “gli avanzi del giorno prima”. 

Non prima, però, che fosse fugato un sospetto che era andato a crescere nei confronti del cibo refrigerato. Gli anni in cui i frigoriferi sbancano il quotidiano sono, infatti, pregni di infezioni, malattie e problemi anche mortali all’apparato digerente. Come una caccia alle streghe, si dà la colpa al nuovo, e quindi al fatto che, si dice, probabilmente, è proprio il tenere il cibo fermo per così tanto tempo a provocare la proliferazione di agenti nocivi.

Scrive Twilley: la refrigerazione «sospendeva il naturale processo di deterioramento e confondeva tutti gli indicatori usati in precedenza per capire se un cibo fosse adatto al consumo e sicuro, come prossimità di origine e aspetto esteriore». Per questo, il Senato degli Stati Uniti considerò di imporre limiti alla durata massima di conservazione di cibi freschi in frigorifero. Dall’altro lato della barricata ci si batteva invece per eliminare questo stigma. Fu il caso di iniziative come il primo banchetto a cui furono serviti solo cibi passati dal frigorifero: Chicago, 23 ottobre 1911. Ci fu scandalo, preoccupazione, ma anche qualche voce che, timidamente, faceva notare che il sapore dei cibi così conservati era migliore di quelli “freschi”.

Non solo: anche nel campo della scienza ci si adoperò per rendere l’idea della refrigerazione sempre più familiare. Miliare per la percezione della refrigerazione in America fu Polly Pennington: girò per tutto il paese con dei vagoni ferroviari pieni di polli tenuti al fresco, monitorandone i cambiamenti organolettici e chimici nel tempo così da poterne dimostrare la sicurezza alimentare.

Ma il sapore, appunto, dicevamo. Lo shock (termico e non) del gusto sotto ghiaccio non era nuovo: tra brain freeze e lingue che si rattrappivano per gelati ottocenteschi, l’aumentata disponibilità di freddo modificò mano a mano il nostro palato. Che cosa succederebbe se addentassimo, chessò, una pesca direttamente fuori dal frigo? Forse sentiremmo un fastidioso pungere ai denti. Forse ne percepiremmo meno il succo; e, in sostanza, avrebbe meno sapore. Per questo le cose “si tirano fuori dal frigo un po’ prima”: perché, scrive Twilley, almeno tre dei nostri ricettori del gusto (dolce, amaro, umami) sono sensibili ai cambi di temperatura, e con il freddo si intorpidiscono un po’.

Per questa ragione, i prodotti pensati per essere consumati freddi dovranno lavorare con ricette diverse, in uno strano giro di gatto che si morde la coda. È il caso della Coca Cola, da servire fredda perché altrimenti troppo zuccherina. Ma la ricetta proprio per un consumo freddo è sviluppata, e dunque con zucchero in eccesso così da far comunque percepire la dolcezza. E, visto che l’abitudine di bere bevande fredde a pasto è del tutto comune nel mondo occidentale, anche le preparazioni dei piatti ne risentiranno: se mi anestetizzo le papille con il freddo, dovrò poi risvegliarle con un eccesso di sapore (e sale, e zucchero, e condimento).

Allo stesso tempo, la storia del gusto viene influenzata dalla catena del freddo anche il giorno dopo (e forse quello ancora). Vabbè che le lasagne, o la parmigiana, da fredde son più buone; ma il frigorifero è stato un grande incentivo al riutilizzo di quanto avanzato la sera prima, sia a casa che al ristorante. Tanto che, per esempio, un libricino del 1932 messo insieme da una delle principali marche di frigoriferi del tempo, Kelvinator, si proponeva di insegnare trucchi e ricette per “cucinare con il freddo”, ossia sfruttare un periodo di refrigerazione per rendere migliore il sapore delle pietanze. D’altronde, le reazioni chimiche all’interno del cibo continuano anche con il freddo. E alcune, sottolinea Twilley, possono portare a linee di sapori più uniformi, consistenze più piacevoli, e via dicendo.

Rose e fiori? Be’, dipende. L’upside down del progresso parla non solo di sprechi alimentari, vedasi da dove eravamo partiti. Ma anche di un appiattimento del gusto, che livella e non fa più distinzione tra prodotto estivo o invernale, per esempio, e che spruzza su vegetali & co. un certo sentore di plastica.

Allora, come sempre, arriva il moto di ritorno, la voglia di ricominciare dal pomodoro che non è mai passato sotto etere, addentato appena staccato dalla pianta. Mentre lato sostenibilità – che coinvolge anche alcuni gas usati nella refrigerazione, e le notevoli quantità di energia elettrica coinvolte nella catena del freddo mondiale – si cercano di sviluppare soluzioni alternative. Se alcuni, come abbiamo visto, vogliono aiutarci a tenere sotto controllo l’umidità dei nostri frigoriferi, altri, come l’americana Apeel, cercano di circumnavigare la refrigerazione, proponendo di aggiungere uno seconda buccia alla frutta, per esempio, in modo da creare uno strato traspirante e protettivo per evitare che l’umidità se ne vada e l’ossigeno entri: questo vuol dire, in soldoni, la decomposizione del frutto.

Mentre aspettiamo che il futuro accada, meglio pensarci su con qualcosa di fresco. E chissà che sapore avrebbe avuto quel pomodoro se non avessimo mai incrociato la storia della refrigerazione. Sarebbe stato di sicuro più succoso. Ma, forse, avremmo anche troppi giramenti di budella per poterlo apprezzare veramente. 

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