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Con il grasso del cibo abbiamo un sacco di problemi irrisolti

Ostriche (sì, ostriche), prosciutto, chi più ne ha, più ne metta. Quando sentiamo la lingua farsi setosa, ci si drizzano le papille. Ma, prima che di corretta nutrizione, la nostra avversione per le cose bianche e filamentose parla dell'incapacità di conoscere qualcosa di nuovo
prosciutto

Foto: Daniel Uvegard via Unsplash

Mentre fa merenda nei corridoi del dipartimento di Filosofia, durante una pausa dallo studio o dalle lezioni (o dalla filosofia), una ragazza cerca di togliere la buccia da una mela con un coltello di plastica. Fa molta fatica, il coltello si piega, la buccia fa resistenza. Uno dei suoi amici — che, a giudicare dalle occhiaie e la disinvoltura con cui tiene in mano il caffè delle macchinette e un drum spento, non si è portato la merenda e probabilmente non ha fatto neanche colazione — la guarda disgustato e le dice di smetterla, per cortesia, e di mangiarsi quella mela a morsi con la buccia, che è buona e fa anche bene, dicono. La ragazza senza levare gli occhi dal suo lavoro improbo dice solo che «no, per carità, mi fa schifo la buccia, si incastra tra i denti». Continua, è molto motivata, ma la buccia di più, e il coltello si spezza. Lei non ci sta e strappa le ultime strisce di buccia con le labbra e gli incisivi. Rimane una mela offesa, irregolare e striata qua e là di rosso. Sulla mano della ragazza rimangono decine di brandelli umidi di buccia. 

«Sei tu che fai schifo», il ragazzo con il caffè. «Ma se ti piace così tanto la buccia mangiatela, no? Tieni!», la ragazza gli porge i brandelli. «Ma cosa significa?» lui sprezzante, «io non ho detto che mi piace la buccia, ho detto che la mela è più buona con la buccia». Butta il bicchiere del caffè nel cestino. «Tu con quello schifo che hai fatto hai trasformato la buccia in scarto, l’hai fatta diventare scarto, prima era solo una parte della mela, hai giocato a fare dio con la mela e hai comunque la buccia tra i denti». Poi chiede un accendino ed esce a fumare. Lei, agli altri: «Boh, non ho capito, comunque, cioè, se a me fa schifo la buccia, perché devo mangiarla?».Se a me non piace il grasso del prosciutto o il grasso della carne o la parte grassa delle ostriche o altre parti grasse di altre cose, perché dovrei mangiarle? La risposta secca è: perché non è vero che non mi piacciono, è solo che non sono abituato a mangiarle. La risposta lunga è nei prossimi paragrafi. Prima di fare le dovute premesse metodologiche, però, sbrighiamo al volo la quesitone delle ostriche, che non sono grasse nel senso più comune che diamo al grasso (bianco, filamentoso, di solito attaccato a una carne più o meno rossa) ma sono grasse nel senso che molte persone non riescono a tenerle in bocca perché sono viscide e molli.

Le ostriche sono unanimemente riconosciute come prelibatezze e si associano immediatamente al lusso. Tutti, da millenni, le considerano talmente buone da essere diventate più un premio che un cibo, e infatti si aprono quasi sempre per celebrare qualcosa, che sia una ricorrenza, un lieto evento o semplicemente la propria ricchezza. Sono stati gli antichi romani, pare, a farle diventare cibo per ricchi; prima erano molto diffuse tra il popolo, perché se ne trovavano tante ed erano molto nutrienti (oggi diremmo che sono molto proteiche e piene di vitamine, di omega-3 e altri grassi buoni). Da allora, sono rimaste sulle tavole migliori senza che nessuno si azzardasse a protestare. Tanta è la pressione sociale che anche chi non riesce a mandarle giù dice che ogni tanto ci riprova.

La verità è che la prima volta che mettiamo in bocca un’ostrica restiamo quanto meno perplessi: è davvero viscida e molle e pressoché insapore, a parte per l’odore di acqua di mare. Ma poi ci riproviamo. E qui sta il primo punto importante del nostro discorso. Ci riproviamo per curiosità o per pressione sociale, che poi in questo caso sono più o meno la stessa cosa, giacché la curiosità è proprio di capire perché mai tutti, indistintamente, dicono che le ostriche sono buonissime anche se a me hanno fatto un pochino schifo. Sarò proprio io che ho capito qualcosa che non ha capito nessun altro per millenni o forse, al contrario, sono io che non ho capito qualcosa? E dopo qualche prova, di solito, cominciamo a vedere il senso di tutto questo millenario hype delle ostriche.

La vicenda divertente è che, proprio per renderle più facili da mangiare, negli ultimi decenni i coltivatori hanno messo in commercio le ostriche triploidi, una varietà sterile ottenuta con una selezione artificiale che non si riproduce e quindi non accumula quella sostanza lattiginosa (fatta di sperma e uova) che d’estate le rende grasse e ancora più viscide al palato. Le triploidi sono però anche più delicate e quindi risentono di più del cambiamento climatico rispetto alle originali. Perciò, è molto probabile che dovremo tornare presto ad abituarci a quelle diploidi, che in estate, proprio quando vogliamo fare le foto al piatto di ostriche sul tavolo del ristorante al mare, sono piene di “latte”. A voler essere un po’ maligni, si può leggere questa ribellione della natura come una sanzione bell’e buona. Abbiamo fatto diventare il latte scarto, abbiamo giocato a fare dio con le ostriche, e adesso ci rimangono solo quelle grasse.

Naturalmente non stiamo incitando al conformismo, l’idea non è dire che se tutti fanno qualcosa allora quella cosa è automaticamente giusta. Stiamo dicendo, però, che prima di arroccarsi su una posizione irremovibile (a me non piacciono le ostriche! a me non piace il grasso del prosciutto!) è meglio riprovare, indagare, confrontarsi, capire il perché, la ragione di quel disgusto così paradossale. Poi, si può anche vivere senza ostriche o solo di carni magre, così come si può vivere senza leggere libri o senza mai innamorarsi. Non muore nessuno, questo è certo. Sul come vive, però, questo nessuno che non muore, il discorso si fa molto più incerto.Ora le premesse. Qui non parliamo di grasso adiposo, di grasso sulle persone insomma; così come non parliamo del grasso in senso prettamente nutrizionale, ridotto cioè alle sue componenti (acidi, omega eccetera). Qui parliamo del rapporto tra noi e la parte grassa del cibo, in senso gustativo, e cerchiamo di rispondere alla domanda della ragazza della mela: «ma se non mi piace, perché non dovrei toglierlo?». Naturalmente, non parliamo neanche di intolleranze, allergie o altri ostacoli del comportamento alimentare che non dipendono dal libero arbitrio; se la ragazza fosse allergica alla buccia, per dire, non parleremmo di lei (e lei forse si sarebbe portata un coltello migliore).

Separare il grasso dal magro, isolare la parte magra perché pensiamo che sia più benefica quando in realtà, al massimo, è solo più innocua, ha più a che fare con l’accidia e la superbia che con la gola. Questo perché il magro è più facile da gestire, quindi il grasso è più difficile (accidia); e perché ci convinciamo che per toglierlo ci siano motivi che conosciamo solo noi e che giustificano solo per noi un’azione di dubbissimo valore universale, economico, sociale e gustativo (superbia). Inoltre c’è un altro errore in agguato, ovvero ridurre il cibo a categorie di gusto rigide e limitatissime, supponendo per esempio che il grasso sia sempre e comunque lo stesso grasso a prescindere dalla bestia da cui arriva, da come è trattato, conservato, tagliato e servito, e anche da quanti anni avevo io la prima volta che l’ho assaggiato e con chi ero e cosa ho mangiato prima e cosa dopo, e così via con le infinite variabili che determinano il gusto. La deriva ultima di questo errore è il riduzionismo nutrizionale, quel modo di restringere il cibo ai suoi componenti nutritivi: carboidrati, proteine, grassi saturi, insaturi e polinsaturi, ecc. Quelle sono le parti chimiche del cibo, e hanno un impatto molto minore su di noi rispetto a quello che ci siamo abituati a credere. Il cibo è molto altro, infinitamente altro, e ridurlo significa ridurre l’intensità dell’esperienza, del gusto, del benessere e, nella sua accezione più alta, del piacere.

La parola nutrizionismo è stata introdotta da Gyorg Scrinis, uno studioso australiano che ha messo in luce per primo, col libro Nutritionism: The Science and Politics of Dietary Advice (Columbia University Press, 2013) il pericolo di considerare i valori nutrizionali del cibo come unico indicatore di una alimentazione sana; che è poi l’approccio tipico della maggior parte della scienza della nutrizione, delle diete e del marketing. Questo porta alla mistificazione secondo cui un alimento, anche se estremamente processato a livello industriale, può essere considerato “buono” perché contiene i giusti nutrienti.

Secondo Scrinis, sulle etichette degli alimenti i valori nutrizionali non dovrebbero essere neanche indicati, dovrebbe essere indicato solo quanta distanza c’è tra quel prodotto e il suo originale in natura. Questo ci permetterebbe di considerare ciò che mangiamo in maniera più diretta, in un rapporto autentico tra l’alimento e noi che lo stiamo mangiando in quel momento. Invece, questo rapporto è troppo spesso mediato da considerazioni nutrizionali, appunto, per di più molto approssimative, per cui l’alimento non è più un alimento ma una somma di cose che non vediamo; e noi non siamo più noi, ma un’idea di come si suppone che dovremmo essere nel futuro.

La differenza tra la parte magra e la parte grassa forse sta proprio qui. Prendiamo il prosciutto. La parte magra ha una forbice di gusto molto più stretta di quella del grasso: la parte magra più buona del prosciutto migliore del mondo non è così distante dalla parte magra del prosciutto peggiore. Ovviamente è diversa, ovviamente la prima è una specie di miracolo dell’allevamento, della selezione, della stagionatura e della sapienza dei puntatori e di altri raffinatissimi artigiani, mentre la seconda è poco più che carne secca salata. Però la seconda rimane commestibile, si riesce a masticare, si riconosce come nutriente e se mischiata a condimenti e salse varie fa il suo sporco lavoro. Per il grasso non è così.

Il grasso del peggior prosciutto è una sostanza repellente, viscida ma anche coriacea, insapore ma allo stesso tempo disgustosa, impossibile da tagliare senza sfilacciarla, morderla senza che si incastri tra i denti e masticarla senza che si riduca a una specie di filo di cotone che più che deglutirlo andrebbe sputato. Il grasso del prosciutto migliore, all’opposto, è un regalo della natura: dolce e vellutato, si scioglie al primo contatto con la lingua ed è un esaltatore di gusto della parte magra. Se mettete in bocca una fetta fresca, buona e sottile di prosciutto appena tagliato, vi rendete conto che è quasi la parte magra che integra il grasso e non il contrario. Il grasso è il viatico del gusto, lo assorbe, lo trasporta, forse lo crea. Pensare che il grasso sia una specie di ostacolo, di abbassamento del gusto è come pensare che l’acqua serva solo per diluire: senza l’acqua non esiste sapore, non esiste cottura, non esiste carne, non esistono mele, non esiste niente.

Chiedendo in giro, al fine di raccogliere qualche dato per questo pezzo, è emerso che chi toglie il grasso al prosciutto lo fa principalmente per due motivi: «perché è viscido e si incastra tra i denti» (fastidioso) e «perché non sa di niente» (inutile). Da notare che sono entrambe considerazioni che si riferiscono al grasso come entità separata dal resto. Solo in pochi invece hanno risposto facendo riferimento al modo in cui si presenta il grasso, dicendo per esempio: «lo tolgo se è tagliato troppo spesso». Allora forse la questione si riduce a una mera strategia di sopravvivenza: è più raro trovare un grasso buono, molto più raro, così per sicurezza diremo che non ci piace a priori.

E qui arriviamo all’accidia. Il grasso ci costa fatica, perché non è sempre automaticamente buono al palato e non è sempre e automaticamente buono per l’organismo; anzi ha lo stesso nome di quella cosa che non vogliamo sotto la nostra pelle, quindi è meglio che lo eliminiamo ancora prima di ingerirlo. La parte magra, d’altronde, è sempre più o meno buona, o almeno commestibile, e ci hanno sempre detto che fa bene; quindi è più facile e, anche se ci toglie un po’ di gusto nel presente, ci promette un futuro di salute e foto in costume. Ma a ragionare così si rischia seriamente di perdersi le occasioni migliori per conoscere cose nuove e buonissime, solo per colpa di un pigro pregiudizio.

Il pregiudizio è quella paralisi mentale che ci porta a considerare una cosa secondo le informazioni che abbiamo prima di averci a che fare direttamente. A volte le informazioni sono addirittura di seconda mano, le abbiamo immagazzinate per sentito dire. Prendiamo la carne. Anzi, per fare prima, prendiamo le bistecche. Da quando abbiamo cominciato ad avere un po’ di soldi, da quando cioè esiste una classe media e abbiamo tutti il frigorifero e possiamo scegliere cosa mangiare, chiediamo ai macellai bistecche sempre più magre. Senza nervi, con poco grasso eccetera. Così ci perdiamo tagli prelibatissimi e non sappiamo più come è fatta una mucca, ma questo è un discorso diverso, sebbene altrettanto scoraggiante. A ogni modo, ci siamo convinti che la carne magra sia migliore. Poi, ironicamente, da qualche tempo ha cominciato ad andare di moda la Wagyu, la carne pregiata che nella vulgata è «quella dei giapponesi che massaggiano le vacche per avere la carne più morbida». La Wagyu però è marezzatissima, cioè venata di tantissimo grasso. E infatti sulla piastra sfrigola nel suo grasso, sul piatto è sensualissima grazie al suo grasso e in bocca si scioglie perché si scioglie, esatto, il grasso.

Il grasso intramuscolare viene chiamato marezzatura, che è un nome fortunato, perché non suona minimamente come una cosa malsana. E Wagyu è un nome addirittura giapponese, a cui non attribuiamo altro significato se non quello che abbiamo sentito dire ancora prima di assaggiarla, e cioè che è riconosciuta come carne buonissima. Quello che stiamo provando a dire è che da una parte (dal nostro macellaio) togliamo il grasso a prescindere, per pregiudizio; dall’altra (con la Wagyu) accettiamo di buon grado una carne striata di grasso, per pregiudizio. Anche se il primo ci danneggia e il secondo ci premia, rimangono entrambi pregiudizi. Posizioni mentali fisse, o fissate da qualcun altro. Ma questo, se ci pensiamo, è l’atteggiamento tipico di un bambino, che ha troppe altre cose a cui pensare per non abbarbicarsi immediatamente a quelle poche certezze che trova lungo la via. E dargli credito pensando che le sue certezze temporanee siano gusti immutabili è un altro errore di pigrizia. 

La Mettrie, un filosofo del ‘700 poco conosciuto ma uno dei massimi esponenti dell’edonismo e del sensismo, scriveva così ne L’uomo macchina (in Opere filosofiche, Laterza 1992): «I pregiudizi richiedono in seguito una correzione di cui poche menti sono suscettibili e che nell’età turbolenta delle passioni diviene quasi impossibile. Coloro i quali sono incaricati di istruire un fanciullo debbono dunque imprimergli solo idee così evidenti che la loro chiarezza non possa essere eclissata da checchessia. Ma per far questo bisogna che essi stessi abbiano idee di questo genere, il che capita assai di rado. Si insegna come ci è stato insegnato: di qui l’infinito propagarsi di abusi e di errori. I pregiudizi a favore delle prime idee sono la fonte di tutte le malattie della mente. Tali idee sono state acquisite macchinalmente e senza farvi attenzione; familiarizzandosi con esse, si crede che tali nozioni siano nate con noi. Un celebre abate mio amico, metafisico di prima forza, credeva che tutti gli uomini fossero musicisti nati perché non si ricordava di aver imparato le canzoni con le quali la sua nutrice lo addormentava. […] E che grande sbaglio commettiamo a permettere ai bambini di compiere ragionamenti su cose intorno alle quali non hanno alcuna idea o sulle quali hanno soltanto idee confuse!». Se vedete bambini che tolgono il grasso dal prosciutto, ora sapete perché lo fanno.

In una famosa intervista di Antony Bourdain a Obama, il primo chiede al secondo se pensa che sia accettabile mettere il ketchup sull’hot-dog. Obama risponde «No». Poi riformula: «Anzi, diciamo così: non è accettabile dopo gli otto anni». Perché, se non mi piace il grasso, non dovrei toglierlo? Nuova risposta breve: se lo togli solo perché lhai sempre tolto e magari l’hai visto togliere a qualcuno con cui sei cresciuto, se ti disgusta adesso come ti disgustava a otto anni, forse sei tu che hai smesso di crescere e hai ridotto il cibo che hai davanti, e il tuo cervello, a un oggetto inorganico e immutabile. Sia detto ovviamente con amore.

Il gusto è determinato culturalmente, non ha quasi nulla di genetico. E l’equilibrio tra ciò che pensiamo ci piaccia e ciò che scopriremo che ci piacerà solo dopo averlo provato richiede impegno. Fissarsi su un gusto solo, senza acquisirne costantemente di nuovi, significa impoverire l’esperienza e vivere in modo ridotto. Ostinarsi all’infinito, senza curiosità, sulla stessa condotta significa ignorare come siamo fatti.

Noi siamo fatti per desiderare, non per ottenere. Siamo fatti per andare alla costante ricerca di qualcosa che ci faccia stare bene, o almeno un po’ meglio. E quando ne scopriamo una, di quelle cose, ci pervade una sensazione di profondo benessere e allo stesso tempo di nuovo dubbio: ma come ho vissuto finora? Come ho fatto a non mangiare mai le ostriche? Come ho fatto a non capire che la senape sulla carne è migliore del ketchup? E, allora, quante cose mi rimangono da scoprire che rimetteranno tutto, di nuovo, in discussione?

Mangiare sempre la stessa cosa o fare sempre la stessa cosa solo perché ci è piaciuta una volta significa credere che le cose siano sempre uguali, che l’esperienza si possa ridurre ai valori nutrizionali dell’alimento che me l’ha fatta vivere. Tipo che a me piace il gelato e allora qualsiasi gelato va bene. Invece ogni volta cambia, ogni volta cambiamo noi. Cercare senza sosta un piacere nuovo ed evitare con fermezza tutto ciò che ci rattrista, ci impoverisce lo spirito e ci aliena, non è un modo faticoso e un po’ eccentrico per rendere la vita più difficile a chi ci sta intorno, ma solo un tentativo disperato e allo stesso tempo allegro di non perdere tempo. La ricerca del tempo perduto funziona con i ricordi e con le idee, ma trascurare la carne (il grasso, o noi stessi), per citare il più bel libro di Michel Onfray (Il ventre dei filosofi), «è un errore che ha in sé la sua sanzione: non si recupera il tempo perduto».

Nell’Amleto (Amleto, atto IV, scena III, 18-26), il Re chiede al protagonista dov’è Polonio. Polonio gli risponde che è a cena.

Re: A cena! Dove?

Amleto: Non dove mangia, ma dove vien mangiato. Una certa assemblea di vermi politici si sta occupando di lui. Il verme è il solo imperatore in questa dieta.  Noi ingrassiamo tutti gli animali per ingrassare noi e quindi ci ingrassiamo a nostra volta per ingrassare i vermi. Un re bello grasso e uno smunto pezzente non sono che due diversi piatti a una stessa tavola. E questa è la conclusione. 

Ingrassiamo gli animali per ingrassare noi, ma alla fine finiamo tutti in pasto ai vermi. E allora, nel frattempo, cerchiamo di non togliere il grasso al prosciutto o alla carne, quando è buono. Godiamo del grasso, usiamolo per far marinare le novità prima di respingerle (la marinatura della carne attecchisce sul grasso, non sul magro). La lezione di La Mettrie sul piacere è una lezione sulla capacità di vivere appieno il momento presente. Se la moderazione serve a preservarsi, il piacere è l’unica arma che abbiamo per combattere la paura di aver vissuto invano.

Ed era così convinto, La Mettrie, che pare sia morto per aver mangiato troppo paté di fagiano al tartufo; per lui non si poteva dare morte più coerente. Ma per noi, che abbiamo questa strana smania di vivere a lungo, possiamo auspicare più accortezza. Basta non smettere mai di cercare un equilibrio, ma che sia un equilibrio con la natura e non con l’artificio. Se un salume è troppo grasso, basta mangiarne meno o mangiarlo più raramente. Se il grasso è insapore e filamentoso, procuriamocene uno migliore, di quelli che si sciolgono in bocca prima ancora che possiamo formulare il minimo lamento. Se non siamo abituati a un nuovo sapore, ricordiamoci che lui (il sapore) è lì da sempre, siamo noi che non abbiamo ancora imparato a usarlo. Invece di giocare a fare dio, giochiamo a fare gli esploratori, che è molto più divertente.

L’uomo macchina si conclude così: «Conclusione dell’opera. Senza sensi, niente idee. Meno sensi abbiamo, meno idee abbiamo. Con poca educazione, poche idee». Bastava poi scrivere questo.

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