Gli occhi, a Giacomina, le si bagnano ancora quando pensa agli anni della guerra, anche a distanza del tempo che ha reso quel corpo, arzillo e resistente, ora stanco e fragile.
La ringrazio, Giacomina Castagnetti, nata nelle colline di Reggio Emilia nel novembre del 1925. Per avermi accolto nella sua casa a parlare di Resistenza ma, ancor di più, per quello che lei, insieme agli altri e le altre, hanno fatto: «Eravamo cinque ragazze», mi racconta, «la più vecchia aveva vent’anni e ci eravamo incontrate fuori casa per paura di mettere a rischio le nostre famiglie. Siamo andati a piedi sotto una pianta e, lì, un commissario politico ha cominciato a parlare. Quella è stata la prima volta che ho sentito parlare di libertà, di democrazia e di emancipazione. Questi sono i miei cavalli di battaglia».
Giacomina ha preso parte attiva alla resistenza (quella informale, pre-storica) nel 1940, raccogliendo contributi, cibo e vestiti per il Soccorso Rosso, la rete che, durante il regime, sosteneva gli antifascisti perseguitati. Entra poi nella Resistenza dopo l’8 settembre 1943 all’interno dei Gruppi di difesa della Donna («che è un titolo non giusto, perché noi non eravamo a difesa della donna, noi eravamo a difesa della lotta partigiana e, quindi, vedevamo tutti allo stesso modo, uomini e donne», precisa Giacomina).
Da lì comincia il suo percorso resistente, accogliendo in casa clandestini e partigiani, aiutando la Resistenza nel piccolo paese in cui risiedeva: «La mia era una casa di latitanza. Quindi cosa si faceva? Si faceva il gnocco fritto perché bastava un po’ di farina e poche altre cose. Ci davano un olio che veniva fatto con semi dell’uva, era cattivo come chissà e a me non piaceva per niente, però la frittura veniva abbastanza buona. Li tenevamo nel solaio nascosti, questo gruppo di giovani che poi diventavano amici. Di notte partivano per la missione che gli veniva affidata. Li chiudevamo in una stanza per nasconderli dai tedeschi, perché se trovavano un ferito voleva dire casa bruciata o, come accaduto ad alcune famiglie, venire ammazzati».
Sono giorni che mi chiedo se pensare alla Resistenza, in termini di cibo, non rischi di essere un po’ riduttivo nei confronti del suo significato. In una strofa di Oltre il ponte, Italo Calvino scrive che l’eroismo non è sovraumano, e ci indirizza forse verso quello che stiamo cercando. Per poter veramente capire cosa fecero quegli uomini e quelle donne sulle montagne, nelle pianure e nelle città, si parta dalle loro viscere, per riconsiderarli umani e quindi anche stanchi, feriti e affamati, capaci di grandi imprese. Attraverso il cibo, allora, si può riavvicinare l’eroe all’essere umano, contestualizzare quel momento e trasportare i suoi significati a un tempo successivo.
Da Giacomina mi ci hanno mandato Lorena Carrara ed Elisabetta Salvini, autrici del libro Partigiani a tavola (Fausto Lupetti Editore, 2015), in cui parlano proprio di questo: «Ci sembrava», mi racconta Carrara, «che per restituire un corpo a questi eroi partigiani fosse necessario provare a entrare nella dimensione quotidiana della lotta di liberazione. Il cibo può essere un alfabeto muto con cui provare a leggere un’epoca da un altro punto di vista, dal basso, dalla tavola, dai gesti quotidiani».
Questo perché Guerra Mondiale e Ventennio fascista furono anche una questione alimentare. Di chi il cibo lo aveva, di chi invece no. Di chi si divertiva a renderlo futurista, condannando la pasta asciutta in virtù di un’autarchia impossibile. Ma quel regime alimentare, che si fece vanto del proprio ordine e prescelse quantità, orari e giorni di acquisto, produsse solo fame e differenze. Creò ricettari per cucinare “senza”, inventando modalità di sostituire alimenti con altri e nascondere la miseria. Cicoria per caffè, riso al posto della carne. Emblematiche in questo senso furono le ricette come quella del super brodo di guerra o delle polpette senza carne, portate che sapevano di povertà e mancanza.
«Da bambina», mi racconta ancora Giacomina, «Frequentavo le scuole rurali destinate al contado. A mezzogiorno davano la minestrina ai figli dei braccianti mentre a noi che, invece, eravamo figli di contadini, per il Duce da mangiare ne avevamo abbastanza. Quindi se prendevamo una minestra ce la facevano a pagare. Ma quello che conta di più è che in quel periodo i braccianti che non avevano possibilità di produrre qualcosa per conto loro avevano i figli che nascevano già ammalati, per mancanza di cibo e per mancanza di proteine. Mi ricordo di un medico che, quando era invitato dalle famiglie per andare a vedere i bambini, tornava disperato perché diceva che i bambini non erano ammalati, avevano solo fame».
In quei tempi si mangiava poco e male, e la situazione divenne ancora più grave dopo la campagna d’Africa e le inique sanzioni che colpirono il paese. La fame si estese così tanto da diventare un’atmosfera, ma una, scrive Paola Masino nel 1944, «che uccide qualunque altro germe di vita. La fame, non consente che di pensare alla fame, che di sopportare la fame». Se in montagna e in campagna qualcosa si trovava e veniva prodotto, in pianura e in città fu ancora più dura. Al cibo si ritorna per trovare conforto e una dimensione di casa, anche nei campi di prigionia. Lo riporta Primo Levi, lo riportano tanti testimoni: uno dei metodi più diffusi per restare umani, per dare corpo futuro a sé stessi, fu proprio il raccontarsi le ricette preferite e quelle che si sarebbero mangiate una volta rincasati.
L’onnipresenza di questo bisogno identico, dal volto comune, creò uno spartiacque profondissimo. Il cibo divenne, come ogni altra azione di quel periodo, un fatto politico: tentazione e resa al fascismo oppure resistenza civile. Tempo per la zona grigia non ce n’era più: denunciare disertori feriti e partigiani affamati, oppure condividere con loro il proprio cibo e rischiare. È quello che rievoca Roberta Viganò, verso la fine de L’Agnese va a morire, parlando della famiglia di Walter a cui i fascisti spaccheranno i piedi per il suo antifascismo: «Possedevano un bel podere che dava da vivere largamente, e l’orto e il frutteto e le mucche e il pollaio; non avevano bisogno di nulla e di nessuno, avrebbero potuto starsene sicuri nel loro angolo appartato, badare agli affari, curare gli interessi, far quattrini con la borsa nera, e invece rischiavano la pelle tutti i giorni: lavoravano per la Resistenza».
Furono queste scelte a supportare la lotta partigiana che di cibo, come di armi e ripari, non ne aveva e doveva conquistarne continuamente: «Ci siamo rese conto scrivendo il libro che il cibo fosse un gesto di cura e, anche, un gesto di scelta politica», spiega Elisabetta Salvini. «In un contesto di povertà alimentare assoluta per tutti, scegliere di mettere da parte un po’ di cibo per portarlo in montagna, o comunque per condividerlo, ti fa capire che forse c’era molta più gente che era vicina alla Resistenza di quanto i numeri non ci dicano. Penso soprattutto ai numeri dei riconoscimenti, perché sono stati solo militari».
In montagna si mangiava quello che si trovava. A volte niente, per giorni. Furono le castagne il pasto più diffuso: cotte, essiccate, sbriciolate in farina, come primo e come dolce. Il pane mancava sempre. La carne, quando c’era, dava il via a un momento di festa che, però, poteva essere guastato in pochi secondi. Ma oltre a eliminare la fame, il cibo fu politico perché diede cura e sostegno, costrinse le persone a schierarsi e ad accogliere non solo i rifugiati ma le comunità intere. Fu il momentaneo ritorno alla libertà, quel 25 luglio del 1943, quando a Campegine la famiglia Cervi organizzò la grande pastasciutta di paese a cui accorsero tutti, anche chi, di antifascismo, non voleva saperne. Un ritorno alla collettività osteggiato dal Regime, che voleva tutti uniti attorno al tavolo della patria a cui, però, non tutti potevano accedere.
L’inverno del ’44, in questo senso, fu il più chiaro di tutti. Le forze repubblichine erano allo sbando, quelle tedesche più sanguinarie che mai. Nel frattempo la lotta partigiana annaspava, per il freddo e per il Proclama Alexander che sospendeva le attività di Resistenza in vista di un clima più favorevole. Quei ragazzi, però, ritornare a casa non potevano farlo, ed è in questo frangente che, probabilmente, il supporto civile si fece ancora più stretto e fondamentale: «Nel Natale del 1944» ricorda Giacomina, «abbiamo lanciato un appello a tutti, di portare qualcosa da mangiare per i partigiani. Casa mia era il punto di riferimento perché avrei raccolto io tutte queste cose. Non c’era radio, non c’era telefono, non c’era niente. Il contatto era possibile solo così, giorno per giorno via passaparola, ma bisognava stare attenti. Questo richiamo fu così condiviso che, dopo tre giorni, c’era una montagna di scatole e di pacchettini con dentro qualcosa da mandare ai partigiani, cibo e messaggi di affetto e di sostegno, anche da parte di chi non aveva nessun conoscente impegnato in montagna. È stato un momento molto importante, quindi ci sentivamo veramente già nel pieno della nostra funzione, cioè di riuscire a mobilitare la gente e dare un aiuto concreto perché, allora, combattere la fame era l’aiuto più concreto che si potesse dare. Era proprio combattere, perché la gente quando ha fame non guarda in faccia nessuno. Questo è stato il primo esempio che era possibile e che dovevamo avere più fiducia in chi ci stava intorno, che non eravamo più sole».
Questa raccolta di pacchetti dà materia a quello che fu il ruolo delle donne, minoritario nella parte armata ma determinante in quella civile. Un tributo da cui furono escluse e spesso messe a margine nella narrazione resistenziale. Le donne non furono massaie, ma vere e proprie rezdōre emiliane, reggitrici di un focolare più ampio e nazionale, fatto di figli propri e non, di quelli futuri e di quelli scomparsi. Un movimento armato non con pistole e fucili, ma di biciclette e ordini da recapitare, di bombe infilate fra le patate «perché avevano la stessa forma e si nascondevano meglio ai fascisti» dice Giacomina. Di cibo sottratto all’ammasso comunale e di messaggi di cura: «Sono le donne che tengono gli usci delle case aperti dopo l’8 settembre», spiega Elisabetta Salvini, «che accolgono i soldati sbandati, li vestono con degli abiti civili e gli danno cibo. Ci sono diverse testimonianze di panificazioni reiterate nel corso delle ore del giorno per cercare di dare da mangiare a più persone possibile. È ovvio che fosse un gesto spontaneo ed è un gesto di umanità ma, anche, politico. Non dobbiamo neanche mai dimenticarci che parliamo di ragazzi e di ragazze che non hanno conosciuto la libertà, che sono cresciuti nel ventennio fascista e non avevano idea di che cosa fosse. Ribellarsi è difficile quando quotidianamente ti dicono che l’unica cosa importante è obbedire, che il Duce ha sempre ragione. Invece queste persone si ribellarono partendo proprio dai piccoli gesti quotidiani».
«La cosa che abbiamo voluto mettere in evidenza nel libro», conclude Lorena Carrara, «è che, in brigata per la prima volta, attraverso il consumo di cibo, di quel poco che c’era, sempre uguale fino alla nausea, di quello che si riusciva a racimolare, si è come in qualche modo costruita, su una base proprio materiale e viscerale, letteralmente, una visione, una costruzione di un futuro diverso, di un futuro democratico, dove degli uomini e delle donne, dei ragazzi di liceo e dei professori, degli ex ufficiali e dei preti potessero condividere alla pari un cibo, quel poco, quel tanto che c’era messo in comune, su una base sostanzialmente democratica. Una volta alla fine di una presentazione a Sant’Ilario, a Reggio Emilia, uno dei presenti si è alzato e ci ha detto: «Non capisco perché allora che non c’era niente si condivideva tutto, e oggi che abbiamo così tanto non si condivide più niente». Non siamo riuscite a rispondergli, ma dà un’idea di quello che fu la Resistenza nei termini di cui stiamo parlando».